Brocardi.it - L'avvocato in un click! CHI SIAMO   CONSULENZA LEGALE

Articolo 6 Codice della proprietą industriale

(D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30)

[Aggiornato al 31/12/2023]

Comunione

Dispositivo dell'art. 6 Codice della proprietą industriale

1. Se un diritto di proprietą industriale appartiene a pił soggetti, le facoltą relative sono regolate, salvo convenzioni in contrario, dalle disposizioni del codice civile relative alla comunione in quanto compatibili.

1-bis. In caso di diritto appartenente a pił soggetti, la presentazione della domanda di brevetto o di registrazione, la prosecuzione del procedimento di brevettazione o registrazione, la presentazione della domanda di rinnovo, ove prevista, il pagamento dei diritti di mantenimento in vita, la presentazione della traduzione in lingua italiana delle rivendicazioni di una domanda di brevetto europeo o del testo del brevetto europeo concesso o mantenuto in forma modificata o limitata e gli altri procedimenti di fronte all'Ufficio italiano brevetti e marchi possono essere effettuati da ciascuno di tali soggetti nell'interesse di tutti.

Tesi di laurea correlate all'articolo

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.

SEI UN AVVOCATO?
AFFIDA A NOI LE TUE RICERCHE!

Sei un professionista e necessiti di una ricerca giuridica su questo articolo? Un cliente ti ha chiesto un parere su questo argomento o devi redigere un atto riguardante la materia?
Inviaci la tua richiesta e ottieni in tempi brevissimi quanto ti serve per lo svolgimento della tua attività professionale!

Consulenze legali
relative all'articolo 6 Codice della proprietą industriale

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Anonimo chiede
domenica 04/11/2018 - Lazio
“Spett.le Redazione,
come persona fisica sono titolare di un dominio web e relativo marchio d impresa,
Mi sto apprestando a cedere il 30% della proprietà di entrambi ed annotazione nel registro dei marchi,
Per accordo verbale esplicito con il mio futuro socio il controllo rimarrà a me e lui parteciperà solo finanziariamente all' impresa (tramite acquisto di quote di srl e titolarità pari quota del marchio e del dominio)
La mia domanda è: per l' Ordinamento, cedendo anche una quota minoritaria della proprietà del dominio e del marchio, egli avrà diritto di disporne come meglio crede tramite vendita in proprio, possibilità di gestire il sito, fare delle produzioni brandizzate ecc.. oppure le decisioni verranno comunque prese da me poiché detengo la maggioranza?
Vi prego di indicarmi della giurisprudenza come sempre,
Molte grazie per la risposta che vorrete darmi,

Consulenza legale i 09/11/2018
La problematica descritta non trova un’agevole soluzione e la circostanza per la quale i soci hanno già concordato una ripartizione percentuale consensuale (30-70) delle quote di titolarità dei segni distintivi non aiuta.

E’ senz’altro consentito cedere una percentuale di proprietà sul marchio: trattandosi di negozio che ha per oggetto il trasferimento di titolarità di un bene immateriale, si creerà tra le parti uno stato di comunione su di esso.
Se prima dell’emanazione del Codice della Proprietà Industriale (D.lgs. n. 30/2005) la questione dell’ammissibilità di una contitolarità del marchio era fortemente dibattuta da dottrina e giurisprudenza, successivamente non ci sono stati più dubbi in senso positivo.
L’art. 6 del citato codice, infatti, recita: “1. Se un diritto di proprietà industriale appartiene a più soggetti, le facoltà relative sono regolate, salvo convenzioni in contrario, dalle disposizioni del codice civile relative alla comunione in quanto compatibili.”, dando seguito ad un principio già enunciato dai Giudici: “In caso di contitolarità di un marchio si applicano le norme del codice civile sulla comunione, nei limiti imposti dal sistema del diritto dei marchi; pertanto, in caso di disaccordo tra i comunisti che sia di danno al diritto comune, trovano applicazione le norme sullo scioglimento della comunione” (Cass. civ., 09/03/2001, n. 3444).

Il problema – ancora oggi largamente discusso sia dai giudici che soprattutto dagli studiosi del diritto - è che la norma lascia aperte una serie di problematiche.
La disciplina del codice civile sulla comunione di cui agli artt. 1100 e seguenti, infatti, vale a regolare solo ed esclusivamente il godimento della cosa comune, che è un’attività statica e del tutto diversa dalla dinamicità di un’attività produttiva di nuova ricchezza qual è qual è quella propria di un’impresa.
Non si tratta infatti di disciplinare il godimento indipendente di un bene da parte dei più soggetti che su di esso abbiano un titolo concorrente ma il suo impiego produttivo, che, potendo nel caso del marchio essere per sua natura simultaneo, in quanto realizzato da più imprese operanti sullo stesso mercato, rischia di trasformare quello che è uno strumento di distinzione in strumento di confusione e di risultare quindi pregiudizievole a tutti gli interessati se non viene opportunamente concordato.
La comunione del marchio - di per sé ammissibile e lecita - è regolata dalla disciplina della comunione in ambito codicistico, fermo restando che quest'ultima, dettata con riferimento ai beni materiali, deve essere applicata con qualche adattamento.” (Tribunale Napoli Sent., 24/05/2001).

Il problema maggiore, in tema di marchi, è proprio quello del “couso” del marchio, ovvero dell’uso e dello sfruttamento simultaneo del marchio da parte di più imprese contitolari.
Si possono concretamente presentare, infatti, due situazioni di contitolarità: quella con concorso nell’uso del marchio e quella che non lo prevede.
Partendo da quest’ultima, essa non pone in realtà particolari problemi, perché l’impresa che sfrutta il marchio sul mercato è, per definizione, unica. Quindi non è neppure ipoteticamente pensabile un reale concorso né tantomeno un conflitto in ordine allo sfruttamento del marchio, visto che le decisioni in ordine ai beni da contraddistinguere con il segno fanno, in tutti questi casi, capo a una e una sola impresa.
Il caso di cui al quesito che ci occupa parrebbe rientrare in questa ipotesi: il socio “operativo”, infatti, sembra essere uno solo (quello che avrà la maggioranza del 70%), il quale si preoccupa, tuttavia, che l’altro possa assumere iniziative autonome che possano danneggiarlo.
Nella contitolarità senza couso si deve ritenere che le quote siano fisse e da determinarsi una volta per tutte nel momento in cui la comunione viene costituita: esse sono destinate a non essere influenzate dai risultati, positivi o negativi, della gestione unitaria del marchio ad opera della singola impresa deputata al suo sfruttamento economico.

Nel caso, al contrario, di contitolarità del marchio accompagnata dal suo “couso”, quando cioè, sia più di una l’impresa legittimata all’uso dello stesso marchio sullo stesso mercato, le regole del codice civile non sono sufficienti a disciplinare l’uso della cosa comune “marchio” sul mercato, perché manca una disciplina delle modalità con le quali le diverse imprese devono svolgere la propria attività di fabbricazione e di commercializzazione dei prodotti o servizi destinati a essere contraddistinti dal marchio, ed al contempo coordinare fra di loro le rispettive attività.
La giurisprudenza, sul punto, ha ritenuto che “per l’ammissibilità di una comunione di questo genere occorre la sussistenza di una gestione concertata della cosa comune (marchio), che sia tale da evitare inganni nei confronti dei consumatori. Fra le imprese contitolari deve sussistere una forma di adeguato collegamento e i prodotti realizzati devono essere fabbricati con un procedimento analogo e risultare provvisti di caratteristiche analoghe, sulla base di assistenza e informazioni” (Trib. Milano 11 maggio 1992, GDI 1992, 635).

Visto e considerato quanto sopra, è intuitivo che nel caso di specie – ma altresì in generale - la soluzione migliore è senz’altro quella di non lasciare la situazione non regolamentata (il che comporterebbe problemi di interpretazione delle norme e dunque controversie di lunga e difficile definizione tra i soci) ma quella di pattuire con regolamento scritto (tramite scrittura privata o anche atto notarile) le modalità ed i limiti della gestione del marchio e del dominio condivisi.
Più in particolare, per rispondere alla domanda specifica di cui al quesito, il fatto che uno dei due soci detenga la maggioranza della titolarità del marchio non incide di per sè, purtroppo, sulla gestione del marchio stesso. In base a quanto illustrato in precedenza, i due soci dovranno comunque coordinarsi ed accordarsi, perché in questo ambito non è importante tanto chi ha il diritto di decidere (in base alla maggioranza delle quote o altro) quanto piuttosto il fatto che l’uso del marchio non deve determinare confusione nel pubblico.
Il principio centrale del diritto di marchio, da rispettare sempre, è infatti il divieto di un uso ingannevole: pertanto, la comunione del marchio sarà legittima se e solo se l’uso del marchio comune avvenga nel rispetto di questo principio.

Tornando al quesito e concludendo, l’ideale sarebbe allora che i due soci si accordassero non tanto per la contitolarità del marchio (situazione difficile da disciplinare e gestire) quanto piuttosto per una licenza (la titolarità rimane esclusiva ed in capo ad uno solo dei due mentre l’altro ha l’autorizzazione all’uso) oppure prevedere una divisione in quote solo della compartecipazione sociale ma non anche dei segni distintivi.