Cassazione penale Sez. III sentenza n. 34871 del 23 giugno 2010

(1 massima)

(massima n. 1)

Ai sensi degli artt. 2 e 22 della VI Direttiva del Consiglio Europeo n. 77/388/CEE, dettati in materia di IVA, ciascun Stato membro ha l'obbligo di accertare le dichiarazioni fiscali dei contribuenti, la contabilità e gli altri documenti utili, nonché calcolare e riscuotere l'imposta dovuta; ha l'obbligo, in altre parole, di adottare tutte le misure legislative ed amministrative necessarie affinché l'IVA sia interamente riscossa nel proprio territorio di competenza. In applicazione di siffatti principi la Corte di Giustizia Europea, a seguito dell'apertura di un procedimento di infrazione, ha ritenuto che l'Italia, con la legge n. 289 del 2002, segnatamente agli artt. 8 e 9, abbia previsto una (inammissibile) rinuncia all'accertamento, generale ed indiscriminata, delle operazioni imponibili effettuate in determinati periodi di imposta, ponendo in essere, pertanto, una palese violazione dei principi testé enunciati. Tanto premesso, deve desumersi l'incompatibilità con la normativa comunitaria inerente l'imposta sul valore aggiunto di qualsiasi normativa nazionale, di carattere legislativo o amministrativo, che sancisca la rinuncia generale ed indiscriminata all'accertamento ed alla riscossione di tutta o parte della citata imposta. Le disposizioni contenute negli artt. 8 e 9 citati, recanti sanatorie in materia di IVA (condonabilità dell'imposta alle condizioni ivi indicate), in quanto contrarie al diritto comunitario, devono essere disapplicate dal giudice nazionale.

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