Corte costituzionale sentenza n. 227 del 24 giugno 2010

(1 massima)

(massima n. 1)

La giurisprudenza costituzionale ha individuato il sicuro fondamento del rapporto tra ordinamento nazionale e diritto comunitario nell'art. 11 Cost., in forza del quale la Corte ha riconosciuto, tra l'altro, il principio di prevalenza del diritto comunitario e, conseguentemente, il potere-dovere del giudice comune di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto. Il novellato art. 117, primo comma, Cost. - che pure ha colmato la lacuna della mancata copertura costituzionale per le norme internazionali convenzionali, escluse dalla previsione dell'art. 10, primo comma, Cost. - ha dunque confermato espressamente, in parte, ciò che era stato già collegato all'art. 11 Cost., e cioè l'obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. Nel caso in esame, i rimettenti hanno correttamente valutato l'esistenza del contrasto tra l'impugnato art. 18, comma 1, lett. r), della legge n. 69 del 2005 e la decisione quadro n. 584 del 2002 relativa al mandato d'arresto europeo e, con motivazione plausibile, hanno ritenuto preclusa l'interpretazione conforme da numerose decisioni della stessa Corte di cassazione, suffragate sia dalla lettera della disposizione che dai lavori preparatori, e configuranti un vero e proprio diritto vivente. Il rilevato contrasto tra la normativa di recepimento e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma dell'Unione europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere sottoposto alla verifica di costituzionalità della Corte. Inoltre, gli atti nazionali attuativi di una decisione quadro con base giuridica nel Trattato sull'Unione europea e relativi alla cooperazione giudiziaria in materia penale non sono sottratti alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del Trattato CE, ora Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, che integrano a loro volta i parametri costituzionali - artt. 11 e 117, primo comma, Cost. - che a quelle norme fanno rinvio. Nella specie rileva, infatti, oltre alla citata decisione quadro, l'art. 12 del Trattato 25 marzo 1957, oggi art. 18 del TFUE, che vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità nel campo di applicazione del Trattato. Anche sotto tale profilo è corretto il ricorso al giudice delle leggi, poiché il contrasto della norma con il principio di non discriminazione non è sempre di per sé sufficiente a consentire la "non applicazione" della confliggente norma interna da parte del giudice comune. Invero, il divieto in esame, pur essendo in linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti, poiché é consentito al legislatore nazionale di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata. L'ipotesi di illegittimità della norma nazionale per non corretta attuazione della decisione quadro è riconducibile, pertanto, ai casi in cui, secondo la giurisprudenza della Corte, non sussiste il potere del giudice comune di "non applicare" la prima, bensì il potere-dovere di sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., integrati dalla norma conferente dell'Unione, laddove, come nella specie, sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti dall'ordinamento.

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