Cassazione civile Sez. I sentenza n. 2426 del 7 marzo 1991

(2 massime)

(massima n. 1)

La tutela del diritto al nome, nel caso che altri contesti alla persona il diritto all'uso del proprio nome o ne faccia indebitamente uso con possibilità di arrecargli pregiudizio, ai sensi dell'art. 7 c.c., è duplice e si risolve nella facoltà di chiedere la cessazione del fatto lesivo ed il risarcimento del danno. Ai fini della tutela risarcitoria — non sostituibile col rimedio della pubblicazione della sentenza, che attiene, invece, alla restitutio in integrum, sotto il profilo del completamento delle disposizioni concernenti la detta cessazione — non è, tuttavia, sufficiente l'illegittimità della condotta dell'agente, essendo necessario, perché sussista il danno risarcibile, che ricorra il fatto illecito, ai sensi dell'art. 2043 c.c., e quindi il dolo o la colpa dell'autore della violazione.

(massima n. 2)

La XIV disposizione transitoria della Costituzione, la quale, nell'escludere la riconoscibilità dei titoli nobiliari, eccezionalmente attribuisce il diritto alla cognomizzazione dei predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922, va interpretata, alla stregua della sent. n. 101 del 1967 della Corte costituzionale, nel senso che presupposto di tale diritto è l'avvenuto riconoscimento del titolo anteriormente all'entrata in vigore della Costituzione e che la relativa tutela giudiziale può essere fatta valere esclusivamente in base alla disciplina privatistica del diritto al nome. Ne consegue che il diritto alla cognomizzazione spetta ex lege soltanto al soggetto per il quale il riconoscimento è avvenuto ed ai suoi discendenti, mentre non può farsi valere da soggetti non compresi in tale categoria ed in particolare dagli ascendenti, in quanto, ai sensi dell'ordinamento dello stato civile approvato con R.D. n. 1238 del 1939, il patronimico si trasferisce dal padre al figlio e non viceversa.

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