(massima n. 1)
            È  inammissibile,  per  erroneità  del  presupposto interpretativo,  la  questione  di  legittimità  costituzionale dell'art.  44,  comma  2,  del  D.P.R.  6  giugno  2001,  n.  380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), impugnato, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui vieta  di  applicare  la  confisca  urbanistica  nel  caso  di dichiarazione di prescrizione del reato, anche qualora la responsabilità  penale  sia  stata  accertata  in  tutti  i  suoi elementi.  Tale  interpretazione  del  giudice  remittente, fondata  sulla  sentenza  della  Corte  Europea  dei  Diritti dell'Uomo  del  29  ottobre  2013,  Varvara  c.  Italia, determinerebbe che,  una  volta  qualificata  una  sanzione ai  sensi  dell'art.  7  della  CEDU,  e  dunque  dopo  averla reputata  entro  questo  ambito  una  "pena",  essa  non potrebbe venire inflitta che dal giudice penale, attraverso la  sentenza  di  condanna  per  un  reato.  Si  sarebbe  così operata una saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo. Per effetto di ciò,  l'area  del  diritto  penale  sarebbe  destinata  ad allargarsi  oltre  gli  apprezzamenti  discrezionali  dei legislatori, persino  a fronte  di sanzioni  lievi, ma  per  altri versi pur sempre costituenti una "pena" ai sensi dell'art. 7 CEDU. Una simile premessa interpretativa, che garantisce  la  massima  protezione  del  diritto  di  proprietà  con  il sacrificio  di  principi  costituzionali  di  rango  superiore,  si mostra erronea in quanto di dubbia compatibilità sia con la  Costituzione  sia  con  la  stessa  CEDU.  In  relazione  al diritto  interno,  l'autonomia  dell'illecito  amministrativo  dal diritto penale, oltre che ad impingere nel più ampio grado di  discrezionalità  del  legislatore  nel  configurare  gli strumenti  più  efficaci  per  perseguire  la  effettività dell'imposizione  di  obblighi  o  di  doveri,  corrisponde altresì, sul piano delle garanzie costituzionali, al principio di  sussidiarietà,  per  il  quale  la  criminalizzazione, costituendo  l'ultima  ratio,  deve  intervenire  soltanto allorché,  da  parte  degli  altri  rami  dell'ordinamento,  non venga  offerta  adeguata  tutela  ai  beni  da  garantire.  Per quanto  concerne  la  giurisprudenza  della  Corte  EDU, quest'ultima  ha  elaborato  peculiari  indici  per  qualificare una  sanzione  come  "pena"  ai  sensi  dell'art.  7  della CEDU,  proprio  per  scongiurare  che  i  vasti  processi  di decriminalizzazione  possano  avere  l'effetto  di  sottrarre gli  illeciti,  così  depenalizzati,  alle  garanzie  sostanziali assicurate  dagli  artt.  6  e  7  della  CEDU,  senza  con  ciò porre  in  discussione  la  discrezionalità  dei  legislatori nazionali  di  arginare  l'ipertrofia  del  diritto  penale attraverso  il  ricorso  a  strumenti  sanzionatori  ritenuti  più adeguati.  La  questione  è,  altresì,  inammissibile  per l'erroneità  del  presupposto  interpretativo  secondo  cui  il giudice  nazionale  sarebbe  vincolato  all'osservanza  di qualsivoglia  sentenza  della  Corte  di  Strasburgo  e  non, invece, alle sole sentenze costituenti "diritto consolidato" o delle "sentenze pilota" in senso stretto. Infatti, se è vero che alla Corte di Strasburgo spetta pronunciare la "parola ultima"  in  ordine  a  tutte  le  questioni  concernenti  l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, resta fermo che l'applicazione e l'interpretazione  del  sistema  generale  di  norme  è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri. Il ruolo  di  ultima  istanza  riconosciuto  alla  Corte  di Strasburgo,  poggiando  sull'art.  117,  primo  comma, Cost. deve  quindi  coordinarsi  con  l'art.  101,  secondo comma,  Cost.  nel  punto  di  sintesi  tra  autonomia interpretativa  del  giudice  comune  e  dovere  di quest'ultimo  di  prestare  collaborazione,  affinché  il significato  del  diritto  fondamentale  cessi  di  essere controverso.  Dunque,  il  giudice  comune  è  tenuto  ad uniformarsi  alla  giurisprudenza  europea consolidatasi sulla norma  conferente,  in  modo  da  rispettare  la sostanza  di  quella  giurisprudenza  e  fermo  il  margine  di apprezzamento  che  compete  allo  Stato  membro.