Corte costituzionale sentenza n. 49 del 26 marzo 2015

(2 massime)

(massima n. 1)

È inammissibile, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), impugnato, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui vieta di applicare la confisca urbanistica nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato, anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi. Tale interpretazione del giudice remittente, fondata sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, determinerebbe che, una volta qualificata una sanzione ai sensi dell'art. 7 della CEDU, e dunque dopo averla reputata entro questo ambito una "pena", essa non potrebbe venire inflitta che dal giudice penale, attraverso la sentenza di condanna per un reato. Si sarebbe così operata una saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo. Per effetto di ciò, l'area del diritto penale sarebbe destinata ad allargarsi oltre gli apprezzamenti discrezionali dei legislatori, persino a fronte di sanzioni lievi, ma per altri versi pur sempre costituenti una "pena" ai sensi dell'art. 7 CEDU. Una simile premessa interpretativa, che garantisce la massima protezione del diritto di proprietà con il sacrificio di principi costituzionali di rango superiore, si mostra erronea in quanto di dubbia compatibilità sia con la Costituzione sia con la stessa CEDU. In relazione al diritto interno, l'autonomia dell'illecito amministrativo dal diritto penale, oltre che ad impingere nel più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli strumenti più efficaci per perseguire la effettività dell'imposizione di obblighi o di doveri, corrisponde altresì, sul piano delle garanzie costituzionali, al principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l'ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell'ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire. Per quanto concerne la giurisprudenza della Corte EDU, quest'ultima ha elaborato peculiari indici per qualificare una sanzione come "pena" ai sensi dell'art. 7 della CEDU, proprio per scongiurare che i vasti processi di decriminalizzazione possano avere l'effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della CEDU, senza con ciò porre in discussione la discrezionalità dei legislatori nazionali di arginare l'ipertrofia del diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori ritenuti più adeguati. La questione è, altresì, inammissibile per l'erroneità del presupposto interpretativo secondo cui il giudice nazionale sarebbe vincolato all'osservanza di qualsivoglia sentenza della Corte di Strasburgo e non, invece, alle sole sentenze costituenti "diritto consolidato" o delle "sentenze pilota" in senso stretto. Infatti, se è vero che alla Corte di Strasburgo spetta pronunciare la "parola ultima" in ordine a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, resta fermo che l'applicazione e l'interpretazione del sistema generale di norme è attribuito in prima battuta ai giudici degli Stati membri. Il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo, poggiando sull'art. 117, primo comma, Cost. deve quindi coordinarsi con l'art. 101, secondo comma, Cost. nel punto di sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest'ultimo di prestare collaborazione, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso. Dunque, il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza e fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro.

(massima n. 2)

È inammissibile, per inconferenza della norma censurata e per difetto di motivazione sulla rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), impugnato, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui vieta di applicare la confisca urbanistica nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato, anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi. Tale interpretazione del giudice remittente, fondata sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dei 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, costituisce un superamento del diritto vivente in base al quale la sanzione della confisca urbanistica consegue non solo alla sentenza definitiva di condanna, ma anche alla dichiarazione di prescrizione del reato qualora la responsabilità penale sia stata accertata. Il dubbio di costituzionalità, derivato dall'interpretazione della norma impugnata alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Varvara c. Italia) e conseguente alla determinazione di un assetto che garantirebbe la massima protezione del diritto di proprietà a fronte del sacrificio di principi costituzionali di rango superiore, avrebbe dovuto essere prospettato con riferimento alla legge nazionale di adattamento, risultando inconferente il riferimento alla norma censurata. Il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU. Nelle ipotesi in cui non sia possibile percorrere tale via, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana e sia perciò tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di adattamento. La questione è, altresì, inammissibile per difetto di motivazione in quanto dall'ordinanza di rimessione non è possibile evincere il superamento della presunzione di innocenza che giustificherebbe l'applicazione nel giudizio a quo della normativa impugnata, secondo quanto previsto dalla sentenza della Corte di Strasburgo 20 gennaio 2009, Sud Fondi Srl.

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