Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 6561 del 4 giugno 1998

(3 massime)

(massima n. 1)

La nuova formulazione dell'art. 323 c.p., introdotta con la L. 17 luglio 1997, n. 234, ha meglio definito la condotta tipica del pubblico ufficiale, sostituendo la generica formula «abusa del suo ufficio» con la descrizione di un comportamento non più a forma libera, ma vincolata, consistente nella violazione di norme di legge o di regolamento, oppure nella violazione del dovere di astensione, e ha anche trasformato il delitto da reato di mera azione in reato di azione e di evento, giacché elemento essenziale della fattispecie materiale non è più soltanto la condotta illegittima del pubblico ufficiale integrante l'abuso, ma altresì l'ingiusto vantaggio patrimoniale che quella condotta procura o l'ingiusto danno che essa arreca.

(massima n. 2)

Per integrare il reato di abuso di ufficio, non basta che il pubblico ufficiale abusi delle sue funzioni, ma occorre, secondo la precedente formulazione della norma, introdotta dall'art. 13 della L. 26 aprile 1990, n. 86, che l'azione illecita miri a procurare un vantaggio ingiusto, o, secondo la nuova configurazione del reato, prevista dall'art. 1 della L. 16 luglio 1997, n. 234, che effettivamente lo procuri.

(massima n. 3)

Affinché il «vantaggio» previsto dall'art. 323 c.p. come necessario per la configurazione del reato possa considerarsi «ingiusto», occorre la doppia condizione che esso sia prodotto non iure, cioè per mezzo di un atto illegittimo, e inoltre che sia contra ius, vale a dire che il risultato dell'abuso si presenti come contrario all'ordinamento giuridico, dimodoché l'ingiustizia riguardi non solo il fatto causativo, ma anche il risultato dell'azione.

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