Cassazione civile Sez. III sentenza n. 21255 del 17 settembre 2013

(5 massime)

(massima n. 1)

In tema di illecito civile, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare - in applicazione del criterio del "più probabile che non" - il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno, il secondo essendo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica.

(massima n. 2)

In tema di illecito civile, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del danneggiante e la conseguenza dannosa risarcibile implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare – in applicazione del criterio del "più probabile che non" – il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno, il secondo essendo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica.

(massima n. 3)

Come per la causalità ordinaria, anche per la causalità da "chance" perduta (da intendere come possibilità di un risultato diverso e migliore, e non come mancato raggiungimento di un risultato solo possibile), l'accertamento del nesso di causalità materiale implica sempre l'applicazione della regola causale "di funzione", cioè probatoria, del "più probabile che non", sicché, in questo caso, la ricorrenza del nesso causale può affermarsi allorché il giudice accerti che quella diversa – e migliore – possibilità si sarebbe verificata "più probabilmente che non".

(massima n. 4)

Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non già dalla "data del fatto", inteso come fatto storico obiettivamente realizzato, bensì quando ricorrano presupposti di sufficiente certezza, in capo all'avente diritto, in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del diritto azionato, sì che gli stessi possano ritenersi, dal medesimo, conosciuti o conoscibili. (In forza di tale principio, la S.C. ha ritenuto che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da lesione della libertà negoziale - conseguente alla stipulazione di un contratto di transazione a condizioni economiche deteriori, per la parte vittima di reato di corruzione in atti giudiziari - fosse decorsa non dal momento della consumazione del reato, ma da quello della notifica, alla stessa, della richiesta di rinvio a giudizio degli imputati).

(massima n. 5)

In virtù dei principi costituzionali del giusto processo e dell'effettività della tutela giurisdizionale, la previsione di cui all'art. 395, numero 6), c.p.c. deve essere interpretata nel senso di non inibire alla parte, vittima di una sentenza pronunciata da giudice corrotto, la possibilità di agire direttamente per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., allorché ricorra una situazione di oggettiva carenza di interesse ad avvalersi dell'impugnazione straordinaria, in ragione sia dell'impossibilità di soddisfare, attraverso l'eventuale pronuncia resa all'esito della fase rescissoria della revocazione, le pretese già in precedenza azionate in giudizio, sia della sopravvenienza di un fatto - nella specie, la conclusione di un contratto di transazione, stipulato nell'ignoranza della vicenda corruttiva - che esplichi effetto preclusivo in ordine alla attitudine della sentenza, frutto di corruzione, ad assumere autorità di cosa giudicata.

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