Cassazione civile Sez. Lavoro sentenza n. 5125 del 6 marzo 2007

(2 massime)

(massima n. 1)

Le disposizioni di cui all'art. 348 c.p.c., applicabili anche alle controversie soggette al rito del lavoro (in cui la costituzione dell'appellante avviene mediante deposito del ricorso in appello), sono dirette esclusivamente ad evitare che l'appello venga dichiarato improcedibile senza che l'appellante sia posto in grado di comparire all'udienza successiva a quella disertata, ma non attribuiscono all'appellante il diritto di impedire, non comparendo, la decisione del gravame nel merito o anche solo in rito, ma per motivi diversi dalla sua mancata comparizione; pertanto, qualora la causa, nonostante l'assenza dell'appellante, sia stata decisa, anche in senso a lui sfavorevole, lo stesso non ha interesse a dolersi della mancata osservanza delle formalità prescritte dalla suddetta disposizione, quando tale inosservanza non sia stata seguita dalla dichiarazione di improcedibilità del gravame. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell'enunciato principio, ha rigettato il motivo di ricorso con il quale erano state dedotte la mancata costituzione del contraddittorio in appello e la supposta violazione del diritto di difesa dell'appellante che non aveva potuto discutere la causa, confermando la sentenza impugnata con la quale era stata ritenuta la legittimità della discussione della causa in appello, stante l'avvenuta costituzione dell'appellata, malgrado la mancata notificazione nei suoi confronti del ricorso in appello e del pedissequo decreto presidenziale di fissazione della predetta udienza, ed in virtù dell'inidoneità dei motivi posti dal procuratore dell'appellante a fondamento dell'istanza di differimento dell'udienza medesima).

(massima n. 2)

Avverso il provvedimento con cui il giudice abbia deciso solo sulla competenza, respingendo istanze istruttorie tendenti, secondo la prospettazione della parte, a fornire la prova anche relativamente alla competenza, non è ammissibile l'appello (come, invece, proposto nella fattispecie), bensì solo il regolamento necessario di competenza. Tale principio è fondato sulla circostanza che l'utilizzazione di prove costituende è estranea al sistema processuale con riferimento alla determinazione della competenza, atteso che la disposizione di cui all'art. 14, secondo comma, c.p.c. – a norma della quale il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e senza apposita istruzione –, pur riferendosi ad un'ipotesi particolare (ovvero alla competenza per valore nelle cause relative a somme di denaro o a beni mobili), ha carattere di generalità, rilevandosi, al riguardo, che la novella al codice di procedura civile apportata con la legge n. 353 del 1990, aggiungendo un comma all'art. 38 c.p.c., ha, appunto, generalizzato il suddetto criterio, stabilendo che la decisione ai soli fini della competenza deve essere adottata in base a quanto risulta dagli atti, senza assunzione di prove orali ma, eventualmente, solo sulla scorta dell'esperimento di sommarie informazioni, ove necessario. Da ciò consegue, altresì, che, in sede di regolamento necessario di competenza, non è censurabile la mancata ammissione di prove costituende, mentre sono suscettibili di valutazione le prove precostituite, essendo la Corte di cassazione, quando decide sulla competenza, giudice anche del fatto, nel senso che può conoscere e sindacare tutte le risultanze fattuali (influenti sulla competenza) rilevabili ex actis.

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