Cassazione civile Sez. V sentenza n. 20398 del 21 ottobre 2005

(4 massime)

(massima n. 1)

Nella disciplina anteriore all'entrata in vigore dell'art. 37 bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall'art. 7 del D.L.vo 8 ottobre 1997, n. 358, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. In riferimento all'ipotesi in cui l'acquirente di azioni da un fondo comune d'investimento, dopo averne percepito i dividendi, abbia rivenduto i titoli al fondo stesso al fine di consentire l'elusione del regime fiscale previsto dall'art. 9 della legge n. 77 del 1983 (come sostituito dal D.L.vo 25 gennaio 1992, n. 83) (c.d. dividend washing), l'applicazione del predetto principio si traduce nella individuazione di un difetto di causa che dà luogo alla nullità dei contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni, non conseguendo dagli stessi alcun vantaggio economico per le parti, all'infuori del risparmio fiscale. Tale mancanza di ragione, che investe nella sua essenza lo scambio tra le prestazioni contrattuali attuato attraverso il collegamento negoziale, comporta l'inefficacia dei contratti nei confronti del fisco, con conseguente esclusione del credito d'imposta previsto per l'acquirente dei titoli dall'art. 14 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo anteriore all'integrazione apportatavi dall'art. 7 bis del decreto-legge 9 settembre 1992, n. 372, conte con modificazioni nella legge 5 novembre 1992, n. 429).

(massima n. 2)

L'art. 12, comma secondo, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 che ha sostituito l'art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel riconoscere al giudice tributario il potere di risolvere in via incidentale questioni devolute ad altra giurisdizione (quali la nullità di un negozio giuridico), indipendentemente da un'espressa domanda di parte, ha natura meramente esplicativa di una regola generale già esistente nell'ordinamento. Il processo tributario, inoltre, pur avendo ad oggetto un rapporto che vede il contribuente nella veste di soggetto passivo, trae origine da un'azione costitutiva, volta all'annullamento di un atto autoritativo, il cui esercizio da parte del contribuente non fa assumere all'Amministrazione finanziaria la qualità di attrice in senso sostanziale, non essendo dovuta a tale qualità, ma ai principi costituzionali che escludono la c.d. presunzione di legittimità dell'atto amministrativo, l'imposizione a suo carico dell'onere di fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa tributaria. Ne consegue che il carattere impugnatorio del processo, comportando l'identificazione del "petitum" e della "causa petendi" con la domanda ed i motivi del ricorso, non esclude il potere del giudice di rilevare d'ufficio eventuali cause di nullità di contratti, la cui validità ed opponibilità all'Amministrazione abbia costituito oggetto dell'attività assertoria del ricorrente. (cassa e decide nel merito, Comm. Trib. Reg. Milano, 13 Dicembre 2000).

(massima n. 3)

Il principio secondo cui le ragioni poste a base dell'atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio d'impugnazione dell'atto, sì che l'ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell'atto, non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della pretesa fiscale, né l'esercizio di poteri cognitori d'ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d'impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità. (Nella fattispecie, l'Amministrazione finanziaria aveva dedotto, in sede di legittimità, la simulazione di un'operazione consistente nell'acquisto e nella rivendita di azioni da parte di una società ad un fondo comune d'investimento, al fine di eludere il regime fiscale previsto dall'art. 9 della legge 23 marzo 1983, n. 77 per i redditi delle partecipazioni azionarie possedute dai fondi comuni: in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha ritenuto che tale tesi non costituisse un tema d'indagine precluso dal fatto che la pretesa fiscale, sostenuta nell'avviso di accertamento, fosse fondata sulla qualificazione della fattispecie come procedimento negoziale indiretto, ma reale, utilizzato in funzione elusiva dell'imposta sul reddito). (cassa e decide nel merito, Comm. Trib. Reg. Milano, 13 Dicembre 2000).

(massima n. 4)

Pur essendo un atto di natura sostanziale e non processuale, in quanto esprime in modo autoritativo la pretesa fiscale nei confronti del contribuente, l'avviso di accertamento contiene l'enunciazione della posizione processuale dell'Amministrazione finanziaria, la quale non può determinarsi in modo difforme da quanto espresso nell'accertamento, e può quindi costituire oggetto di esame diretto da parte del giudice di legittimità, unitamente agli altri atti di causa, ai fini dell'individuazione dell'oggetto del giudizio, ed in particolare della verifica in ordine all'osservanza del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. (cassa e decide nel merito, Comm. Trib. Reg. Milano, 13 Dicembre 2000).

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.