Cassazione civile Sez. III sentenza n. 14488 del 29 luglio 2004

(3 massime)

(massima n. 1)

Nel caso di responsabilità del sanitario per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza nei casi previsti dalla legge 22 maggio 1978, n. 194, il danno risarcibile è rappresentato non solo da quello dipendente dal pregiudizio della salute fisio-psichica della donna specificamente tutelata dalla predetta legge, ma anche da quello più genericamente dipendente da ogni pregiudizievole conseguenza patrimoniale dell'inadempimento del sanitario nonché del danno biologico in tutte le sue forme.

(massima n. 2)

In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, l'inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di determinati presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto. Ne consegue che la possibilità per la madre di esercitare il suo diritto ad una procreazione cosciente e responsabile interrompendo la gravidanza assume rilievo sotto il profilo del nesso di causalità, e non anche come criterio di selezione dei (tipi di) danni risarcibili; e che non sono danni che derivano dall'inadempimento del medico quelli che il suo adempimento non avrebbe evitato: una nascita che la madre non avrebbe potuto scegliere di rifiutare; una nascita che non avrebbe in concreto rifiutato; la presenza nel figlio di menomazioni o malformazioni al cui consolidarsi non avrebbe potuto porsi riparo durante la gravidanza in modo che il figlio nascesse sano.

(massima n. 3)

L'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la «non nascita », essendo pertanto (al più) configurabile un «diritto a nascere » e a «nascere sani », suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da «contatto sociale », nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso) ; sotto il profilo altamente pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell'ambito delle umane possibilità) al concepito di nascere sano. Non è invece in capo a quest'ultimo configurabile un «diritto a non nascere » o a «non nascere se non sano », come si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978, in base al quale si evince che: a) l'interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza ) o grave (successivamente a tale termine ) ; b ) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre ; c ) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sé e per sé considerate (con riferimento cioè al nascituro ). E come emerge ulteriormente: a ) dalla considerazione che il diritto di «non nascere » sarebbe un diritto adespota (in quanto ai sensi dell'art. 1 c.c. la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita e i diritti che la legge riconosce a favore del concepito artt. 462, 687, 715 c.c. sono subordinati all'evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita ), sicché il cosiddetto diritto di «non nascere » non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più; b ) dalla circostanza che ipotizzare un diritto del concepito a «non nascere » significherebbe configurare una posizione giuridica con titolare solamente (ed in via postuma ) in caso di sua violazione, in difetto della quale (per cui non si fa nascere il malformato per rispettare il suo «diritto di non nascere » ) essa risulterebbe pertanto sempre priva di titolare, rimanendone conseguentemente l'esercizio definitivamente precluso. Ne consegue che è pertanto da escludersi la configurabilità e l'ammissibilità nell'ordinamento del c.d. aborto «eugenetico », prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, atteso che l'interruzione della gravidanza al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 legge n. 194 del 1978 (accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8 ), oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 c.c., costituisce reato anche a carico della stessa gestante (art. 19 legge n. 194 del 1978 ), essendo per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie, ad essere propriamente anche mediante sanzioni penali tutelato dall'ordinamento. Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d'informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all'aborto ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall'art. 54 c.p. ) prevista dall'art. 4 legge n. 194 del 1978, risultando in tale ipotesi comunque esattamente assolto il dovere di protezione in favore di esso minore, così come configurabile e tutelato (in termini prevalenti rispetto anche ad eventuali contrarie clausole contrattuali: art. 1419, secondo comma, c.c. ) alla stregua della vigente disciplina.

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