Cassazione civile Sez. Unite sentenza n. 11353 del 17 giugno 2004

(2 massime)

(massima n. 1)

Nel rito del lavoro il ricorrente deve - analogamente a quanto stabilito per il giudizio ordinario dal disposto dell'art. 163, n. 4, c.p.c. - indicare ex art. 414, n. 4 c.p.c. nel ricorso introduttivo della lite gli elementi di fatto e di diritto posti a base della domanda. In caso di mancata specificazione ne consegue la nullità del ricorso, da ritenersi però sanabile ex art. 164, comma quinto, c.p.c. (norma estensibile anche al processo del lavoro). Corollario di tali principi è che la mancata fissazione di un termine perentorio da parte del giudice, per la rinnovazione del ricorso o per l'integrazione della domanda, e la non tempestiva eccezione di nullità da parte del convenuto ex art. 157 c.p.c., del vizio dell'atto, comprovano l'avvenuta sanatoria della nullità del ricorso dovendosi ritenere raggiunto lo scopo ex art. 156, comma secondo, c.p.c. La sanatoria del ricorso non vale, tuttavia, a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati né specificati in ricorso, sicché il convenuto può eccepire, in ogni tempo e in ogni grado del giudizio, il mancato rispetto da parte dell'attore della norma codicistica sull'onere della prova, in quanto la decadenza dalle prove riguarda non solo il convenuto (art. 416, terzo comma, c.p.c.), ma anche l'attore (art. 414, n. 5, c.p.c.), dovendo ambedue le parti, in una situazione di istituzionale parità, esternare sin dall'inizio tutto ciò che attiene alla loro difesa e specificare il materiale posto a base delle reciproche istanze, alla stregua dell'interpretazione accolta da Corte Cost. 14 gennaio 1977, n. 13.

(massima n. 2)

Nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 c.p.c., l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere-dovere, sicché il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo l'obbligo — in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c., ed al disposto di cui all'art. 111, primo comma, Cost. sul «giusto processo regolato dalla legge» — di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova, o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d'ufficio una prova diretta a sminuirne l'efficacia e la portata. (Nella specie, relativa a riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della malattia dalla quale il lavoratore era affetto, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C. in base al principio di cui in massima, aveva motivato il mancato esercizio dei poteri istruttori, in sede di gravame, tenendo conto del mancato assolvimento, da parte del lavoratore, dell'onere di provare non solo il tipo di mansioni svolte e il suo concreto atteggiarsi, ma pure la sussistenza di tutte le condizioni — vibrazioni, scuotimenti, inclemenze atmosferiche, sottoposizione a turni irregolari — cui addebitava in relazione di causalità la malattia di cui era risultato affetto, e delle carenze dell'atto introduttivo non superate neanche per effetto dell'espletamento della consulenza medico-legale e del contenuto dell'anamnesi lavorativa in essa riportata).

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