Cassazione civile Sez. III sentenza n. 9244 del 18 aprile 2007

(3 massime)

(massima n. 1)

Nel giudizio di appello - che non è un novum iudicium - la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso specifici motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Ne consegue che, nell'atto di appello, ossia nell'atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d'ufficio e non sanabile per effetto dell'attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l'atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata.

(massima n. 2)

Nell'ordinario giudizio di cognizione, la portata precettiva della sentenza deve essere individuata tenendo conto non soltanto del dispositivo ma anche della motivazione, cosicché, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento, da interpretare in base all'unica statuizione che, in realtà, esso contiene. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell'enunciato principio, ha ritenuto insussistente la contraddizione dedotta con il ricorso in ordine alla sentenza impugnata laddove, in motivazione, si era affermato che dall'esito del giudizio conseguiva la compensazione delle spese del doppio grado in ragione della metà con la condanna dell'attrice a rimborsare alla controparte la rimanente metà, nel mentre, in dispositivo, si era provveduto, per un verso, a dichiarare compensate tra le parti le spese del doppio grado e, per altro verso, era stata pronunciata la condanna della ricorrente al rimborso della metà delle spese in favore della parte vittoriosa, risultando evidente, in via interpretativa, sulla scorta della combinazione tra motivazione e dispositivo, che la statuizione finale dovesse intendersi nel senso della compensazione delle spese complessive nella misura della metà e della condanna a carico della parte soccombente alla refusione dell'altra metà a vantaggio della parte vittoriosa).

(massima n. 3)

Il potere discrezionale che l'art. 1226 c.c. conferisce al giudice del merito è rigorosamente subordinato al duplice presupposto che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che sia impossibile, o molto difficile, la dimostrazione del loro preciso ammontare, non già per surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza. (Nella specie, alla stregua dell'enunciato principio, la S.C., in una controversia risarcitoria esperita per gli assunti danni dipendenti dalla rinnovazione di un'iscrizione ipotecaria sui beni della ricorrente effettuata da un istituto di credito mutuante, ha confermato l'impugnata sentenza di appello che aveva riformato quella di primo grado, con la quale si era provveduto al riconoscimento del risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa, pur in assenza del presupposto principale di cui al citato art. 1226 c.c. riconducibile alla preventiva dimostrazione dell'esistenza di danni risarcibili).

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