Cassazione penale Sez. I sentenza n. 3493 del 27 marzo 1991

(3 massime)

(massima n. 1)

Il delitto tentato è una fattispecie di reato autonomo che la legge (art. 56 c.p.) ha disciplinato autonomamente, definendola come condotta (compiuta o non) univocamente diretta alla realizzazione dell'evento. Ne consegue che l'elemento soggettivo può assumere soltanto qualificazione di dolo diretto.

(massima n. 2)

In tema di omicidio volontario, l'immediata e spontanea opera di soccorso della vittima da parte dell'agente non è di per sé incompatibile con l'intenzione di uccidere. Tale incompatibilità nella comune esperienza non esiste affatto quando l'azione è determinata da uno stato d'ira e sorretta da un dolo d'impeto, che facilmente si risolve e lascia spazio alla pronta risipiscenza non appena si manifestino le conseguenze negative della condotta.

(massima n. 3)

La non menzione della condanna non riveste alcun carattere di «premialità», ma consiste nella sospensione a tempo indeterminato di un effetto della pena finalizzato alla risocializzazione del condannato mediante l'eliminazione del pregiudizio che il suo buon nome può subire dall'annotazione della condanna sul certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati. Il parametro al quale il giudice deve fare riferimento è quello delle circostanze indicate dall'art. 133 c.p., espressamente richiamato dall'art. 175 c.p., e non la paternalistica considerazione sull'opportunità o meno di un premio.

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