Cassazione penale Sez. V sentenza n. 2136 del 11 giugno 1999

(4 massime)

(massima n. 1)

In tema di giudizio di appello, appartiene al giudice di secondo grado (ed anche al giudice di rinvio che debba decidere su di un appello in materia di provvedimenti restrittivi della libertà) il potere di sostituire, integrare e modificare la motivazione del provvedimento impugnato; invero, la sua cognizione, anche se circoscritta, quanto all'estensione, ai punti in contestazione, è piena e gli consente di esprimere compiutamente il suo convincimento. (Nella fattispecie, la Corte ha rigettato il ricorso dell'indagato che aveva sostenuto la manifesta illogicità della motivazione del tribunale, il quale aveva valorizzato le dichiarazioni di un soggetto, dichiarazioni che il Gip non aveva posto a base del provvedimento coercitivo impugnato).

(massima n. 2)

In tema di giudizio di rinvio a seguito di annullamento per vizio di motivazione, il giudice è vincolato sia dall'obbligo di esaminare le questioni di diritto che, a seguito di indicazione della cassazione, devono essere affrontate, sia dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici dalla Suprema Corte. Ciò non toglie che egli possa pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità, nonché integrando e completando quelle già svolte, alla stessa decisione precedentemente annullata. (Fattispecie in tema di reiterazione dei comportamenti sintomatici di appartenenza ad associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, in relazione ai quali la cassazione aveva riscontrato incompletezza della motivazione ed imprecisa indicazione dei fatti dai quali erano derivate le nuove contestazioni. In sede di rinvio, il tribunale del riesame aveva integrato ed arricchito la precedente motivazione. La Corte, enunciando il principio sopra riportato ha rigettato il ricorso dell'indagato, che aveva nuovamente dedotto il vizio di motivazione).

(massima n. 3)

In tema di misure cautelari coercitive, il divieto di «contestazione a catena» di cui al terzo comma dell'art. 297 c.p.p. (che, in caso di reati connessi, stabilisce la retrodatazione del termine iniziale della custodia cautelare, commisurata alla imputazione più grave, all'epoca di emissione del più antico provvedimento restrittivo) trova il suo limite nel caso in cui i reati oggetto delle nuove contestazioni non siano stati desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio, relativo al fatto con il quale sussiste la connessione. Tale precisazione va tuttavia intesa nel senso che la retrodatazione della misura cautelare opera soltanto con riferimento ad episodi (desumibili dagli atti) che avrebbero giustificato l'adozione del provvedimento di rigore prima del rinvio a giudizio, intervenuto per i fatti oggetto della misura già applicata. Invero, lo scopo della norma è quello di evitare che la artificiosa separazione dei procedimenti, con rinvii a giudizio opportunamente frazionati nel tempo, possa essere destinata ad una protrazione della durata delle misure, che viceversa non si avrebbe se, disposto contestualmente il rinvio a giudizio per tutti i reati, il processo risultasse unico anche nelle fasi successive. (Fattispecie nella quale i nuovi reati sono stati commessi, ed, a maggior ragione, portati a conoscenza del P.M., dopo la esecuzione della misura cautelare, ma prima del rinvio a giudizio relativo agli episodi criminosi per i quali fu disposta la carcerazione).

(massima n. 4)

In tema di reato associativo, la permanenza cessa anche con la privazione della libertà personale dell'agente, con la conseguenza che, se - successivamente alla instaurazione dello stato di detenzione - risulti provata ulteriore adesione al sodalizio criminoso, deve ravvisarsi nuovo ed autonomo reato, per il quale può essere emesso nuovo provvedimento cautelare coercitivo, dalla cui notifica decorre nuovo termine di custodia cautelare.

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