Cassazione penale Sez. II sentenza n. 3513 del 22 maggio 1997

(6 massime)

(massima n. 1)

Il processo verbale è nullo qualora non vi sia almeno in sigla la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha compilato, e non quando il nome e cognome di questo non risultino in alcuna parte del verbale medesimo; ed è irrilevante che attraverso detta sigla non possa individuarsi il nome del sottoscrittore, salvo che si contesti con una precisa accusa di falsità l'effettiva partecipazione del pubblico ufficiale all'atto documentato. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto insussistente la nullità del verbale di una perquisizione, denunciata sotto il profilo che in esso mancava l'indicazione nominativa degli agenti operanti, dei quali non era peraltro possibile rilevare immediatamente le generalità per la indecifrabilità delle sottoscrizioni apposte in calce all'atto, ed ha rilevato altresì come da ciò non derivasse incertezza assoluta sulle persone intervenute, alla cui identificazione poteva risalirsi aliunde, anche attraverso gli atti del reparto di appartenenza degli operatori stessi).

(massima n. 2)

In tema di garanzie di libertà del difensore, l'autorizzazione del giudice prevista dal quarto comma dell'art. 103 c.p.p. costituisce una deroga alla disciplina ordinaria relativa al compimento di perquisizioni e sequestri nel corso delle indagini preliminari; tuttavia, una volta che detta autorizzazione sia intervenuta, il pubblico ministero rimane dominus delle indagini, sicché egli può dar corso o meno al compimento dell'atto investigativo o comunque scegliere i tempi della sua esecuzione sulla base di proprie valutazioni discrezionali vincolate esclusivamente dal fine cui devono essere orientate (art. 358 c.p.p.). Ne deriva che la perquisizione presso lo studio di un difensore non deve necessariamente essere eseguita senza soluzione di continuità, dovendosi viceversa ritenere che il pubblico ministero sia legittimato, ove ne ravvisi la necessità o solamente l'opportunità, a completare le operazioni anche in tempi diversi, senza che ciò comporti l'obbligo di munirsi di nuova autorizzazione per ogni accesso, sempre che l'attività di ricerca si svolga nello stesso luogo e con riferimento al medesimo indagato ed alle medesime imputazioni indicate nel decreto del Gip.

(massima n. 3)

In tema di garanzie di libertà del difensore, la disposizione di cui all'art. 103, quarto comma, c.p.p., secondo cui all'attività di ispezione, perquisizione e sequestro da compiersi presso gli studi professionali legali deve procedere personalmente il giudice ovvero il pubblico ministero, non può essere interpretata nel senso che le relative operazioni debbano essere materialmente e fisicamente effettuate dall'autorità giudiziaria; la ratio della norma, infatti, non è quella di precludere alla polizia giudiziaria l'accesso alle carte ed ai documenti dei difensori, come se per ciò stesso si verificasse la compromissione del segreto professionale, bensì quella, assai diversa, di assicurare la presenza agli atti de quibus del magistrato che, anche in virtù della sua preparazione tecnica, sappia individuare con precisione i limiti che l'art. 103 c.p.p., al primo ed al secondo comma, pone all'attività di ispezione, ricerca ed apprensione. Non esiste alcuna preclusione legislativa, pertanto, né tantomeno da ciò può derivare sanzione processuale alcuna, a che il giudice o il pubblico ministero il quale, partecipando all'atto, ne assume la responsabilità, si limiti a dirigere e controllare le operazioni esecutive materialmente svolte in funzione di ausilio dalla polizia giudiziaria, secondo i compiti istituzionali a questa assegnati dal codice di rito (art. 56 c.p.p.).

(massima n. 4)

In tema di garanzie di libertà del difensore, non può ritenersi che tutte le «carte» e i «documenti» che si trovino presso lo studio ovvero l'abitazione di un professionista iscritto all'albo degli avvocati siano perciò stesso da considerarsi «oggetto della difesa» e pertanto sequestrabili solo se «corpo di reato». Per «oggetto della difesa», come indicano il senso letterale delle parole e la ratio della norma, deve intendersi infatti inerenza ad un procedimento giudiziario, anche eventualmente concluso, in relazione al quale il professionista espleti o abbia espletato un mandato difensivo espressamente conferito dall'interessato; rimane escluso da tale definizione, pertanto, tutto ciò che, pur attenendo in genere all'attività professionale del legale, esula dall'espletamento di un mandato difensivo come sopra inteso, e che può dunque essere legittimamente sequestrato anche se rientrante solamente fra le «cose pertinenti al reato», salva in ogni caso la tutela del segreto professionale, opponibile anche in tali ipotesi nelle forme di legge (art. 256, primo comma, c.p.p.).

(massima n. 5)

In tema di mezzi di ricerca della prova, una volta che sia stata legittimamente disposta dal giudice ovvero dal pubblico ministero la perquisizione locale, la riservatezza dell'indagato subisce una compressione che include necessariamente, anche in assenza di espressa indicazione nel provvedimento del magistrato, il sacrificio derivante dalla documentazione fotografica delle operazioni esecutive e dei luoghi in cui esse si sono svolte; l'esecuzione della perquisizione, infatti, implica e comprende per definizione l'attività di ispezione e di documentazione, e la fotografia, mezzo tecnico idoneo a fissare ed a prolungare la visione, altro non è che una modalità in cui può atteggiarsi la doverosa descrizione dei luoghi perquisiti.

(massima n. 6)

L'elusione, da parte del giudice del riesame, del suo compito istituzionale di controllo «in concreto» del provvedimento impugnato integra una violazione di legge - nel cui limitato ambito è consentito il ricorso per cassazione avverso la decisione di riesame in tema di misure cautelari personali ai sensi dell'art. 325, primo comma, c.p.p. - riconducibile alla prescrizione dell'obbligo di motivazione di cui all'art. 125, terzo comma, c.p.p., sanzionato a pena di nullità, e dunque deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, lett. c), c.p.p.; nel caso di specie non ci si trova in presenza, infatti, di uno dei vizi presi in considerazione dall'art. 606, lett. e), dello stesso codice, configurabili con riferimento alla manifestazione del convincimento del giudice sui fatti comunque rilevanti per la decisione, dei quali egli abbia trascurato l'esame o dato una valutazione illogica o contraddittoria, bensì di un'omissione della pronuncia derivante dall'erronea interpretazione delle proprie funzioni da parte dell'organo giudicante e dalla conseguente elusione del ruolo di garanzia caratterizzante la speciale istanza di secondo grado costituita dal riesame delle misure cautelari. Un tale sostanziale rifiuto di provvedere si traduce in una peculiare mancanza di motivazione riconducibile alla violazione tipica di una norma processuale prevista a pena di nullità (art. 125, terzo comma, c.p.p.) e pertanto deducibile con il ricorso per cassazione anche nella limitata estensione consentita dall'art. 325 c.p.p.

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