Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 12729 del 17 ottobre 1994

(3 massime)

(massima n. 1)

L'art. 130 norme att. fa conseguire, «di fatto», una separazione del procedimento, nel senso che una parte di esso, cioè quella rimessa al giudice, passa nella fase processuale in senso proprio, mentre l'altra resta nella fase procedimentale. Si tratta, però, di una scelta operativa in relazione allo sviluppo progressivo delle indagini rimessa all'autonomia e alla discrezionalità del P.M., non soggetta neppure al dovere di enunciare le ragioni che possono averla giustificata, in sintonia con la particolare funzione assegnata alla fase processuale, preordinata allo svolgimento delle «indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale» (art. 326 c.p.p.). La norma in parola costituisce uno dei cardini del nuovo sistema proiettato alla realizzazione di un generale favor separationis, proteso, quindi, verso l'esigenza di favorire, quando una frazione del procedimento sia ormai pervenuta al punto di consentire l'adozione dell'atto che segna il passaggio dalla fase delle indagini alla fase del processo, quelle scomposizioni di res iudicandae in grado di permettere una pronta decisione. Un'opera che resta affidata all'utilizzazione di moduli che - ovviamente, nel rispetto dei criteri stabiliti dalla legge anche in tema di connessione - appartengono all'esclusivo potere procedimentale del P.M., autorizzato così a verificare quando, in presenza di indagini connesse o collegate, sia necessario - alla stregua dei principi che concernono l'esercizio dell'azione penale - disporre lo stralcio di talune posizioni relative allo stesso imputato ovvero di quelle riguardanti imputati diversi, in modo da non ritardare la presa di contatto con il giudice.

(massima n. 2)

La separazione dei processi è istituto tipicamente processuale, governato da precise regole di rito anche in vista di consentire alle parti di avanzare le loro ragioni e che, dunque, può scaturire solo da un vero e proprio provvedimento giurisdizionale adottato dal giudice, nella forma dell'ordinanza e nel rispetto del contraddittorio e che, per sua natura, non può riferirsi alla fase delle indagini preliminari.

(massima n. 3)

E' manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 24 comma 2 e 76 cost., la questione di legittimità dell'art. 210 c.p.p. nella parte in cui non prescrive che una persona che si assume essere concussa ma che potrebbe rivelarsi un corruttore venga esaminata quale coimputato di un reato connesso. Il sistema, infatti, in tal modo strutturato, oltre a rivelarsi in tutto ragionevole proprio alla stregua dei principi che governano le diverse tipologie di dichiarazioni aventi rilevanza processuale e che restano designate, sul piano della loro provenienza, dalle qualifiche formali di volta in volta attribuite, risulta pure assolutamente rispettoso del diritto di difesa dell'imputato, considerando i principi che danno regolamentazione alle modalità di verifica sia delle dichiarazioni testimoniali sia delle dichiarazioni rese da imputato in procedimento connesso o collegato. Peraltro, se un epilogo sfavorevole all'imputato sia la conseguenza di pregresse dichiarazioni falsamente rivolte contro di lui, non potrà non derivarne, in osservanza del principio di obbligatorietà dell'azione penale, il perseguimento per un diverso reato (calunnia, falsa testimonianza, etc.). Nè, d'altro canto, può essere utilmente chiamato in causa l'art. 2 n. 73 della l. 16 febbraio 1987 n. 81 (e, quindi, l'art. 76 cost.), perchè il parametro invocato concerne non l'utilizzazione della prova ma la sua assunzione.

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