Cassazione civile Sez. III sentenza n. 6551 del 22 marzo 2011

(2 massime)

(massima n. 1)

Ai fini della liquidazione del danno ambientale, i parametri (gravità della colpa individuale, costo necessario per il ripristino e profitto conseguito dal trasgressore) richiamati all'art. 18, co. 6 della L. 8 luglio 1986, n. 349 (oggi sostituito dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 113) non integrano ciascuno un'autonoma voce di danno, ma costituiscono i criteri da tenere presente per la valutazione equitativa, che rimane complessiva e riferita alla lesione nel suo complesso. Ai fini della liquidazione del danno ambientale, è erronea l'esclusione del criterio dei costi di ripristino allorché questo sia escluso, o per obiettiva impossibilità o per libera determinazione del danneggiato; il bene giuridico costituito dall'ambiente - infatti - rimane oggettivamente danneggiato anche se il titolare di quello ritenga impossibile o non conveniente il ripristino, sicché il controvalore di tale diminuzione spetta comunque al danneggiato, in base a principi affatto generali della responsabilità civile. Spetta incoercibilmente al danneggiato, che abbia conseguito un risarcimento per equivalente, ogni determinazione sulla sua concreta destinazione al ripristino effettivo della situazione preesistente, ovvero sul trattenimento ed il reimpiego di quella riparazione - attesa appunto l'assoluta fungibilità del denaro in cui essa consiste - mediante sua destinazione al soddisfacimento di fini ritenuti egualmente satisfattivi. Ai fini della liquidazione del danno ambientale, posto che il profitto conseguito dal trasgressore non costituisce una autonoma voce di danno ma è un semplice parametro per la liquidazione equitativa richiesta, non può applicarsi meccanicisticamente il concetto di prescrizione quinquennale elaborato per danni che maturano giorno per giorno dal protrarsi della permanenza della situazione illegittima determinata dall'immutazione dei luoghi; infatti, per la connotazione latamente punitiva di tale parametro, la riscontrata permanenza dell'illegittimità della situazione comporta che il danno ambientale, consistito nel permanente sconvolgimento dei luoghi con irreversibile illegittima antropizzazione di un vasto sito costiero, non si limiti ai soli profitti che giorno per giorno abbia conseguito il danneggiarne nel solo periodo dei cinque anni anteriori alla domanda, ma anche alla redditività delle somme percepite dal danneggiarne in precedenza per la pregressa condotta illegittima fin dal suo insorgere e, quindi, in sostanza a tutti i profitti già conseguiti. Il giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della L. 20 novembre 2009, n. 166, deve provvedere alla liquidazione del danno applicando, in luogo di qualunque criterio previsto da norme previgenti, i criteri specifici come risultanti dal nuovo testo del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 311, commi 2 e 3, come modificato dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 5-bis, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 20 novembre 2009, n. 166: individuandosi detti criteri direttamente quanto meno nelle previsioni del punto 1.2.3. dell'Allegato 2 alla direttiva 2004/35/CE e solo eventualmente, ove sia nelle more intervenuto, come ulteriormente specificati dal decreto ministeriale previsto dall'ultimo periodo dell'art. 311, comma 3 cit.

(massima n. 2)

Per i giudizi non definiti con sentenza passata in giudicato il risarcimento del danno ambientale va determinato applicando, in luogo di qualunque parametro stabilito da norme precedenti, i criteri specificati dal nuovo testo dell'art. 311, commi 2 e 3, del codice dell'ambiente - D.Lgs. n. 152/2006, così come modificato dall'art. 5-bis del D.L. n. 135/2009.

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