Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 3052 del 22 marzo 1995

(2 massime)

(massima n. 1)

Ai fini della configurabilità del delitto di corruzione propria previsto dall'art. 319 c.p. sono da considerare atti contrari ai doveri di ufficio sia quelli illeciti o illegittimi che siano cioè vietati da norme imperative o che si pongano in contrasto con norme giuridiche dettate per la loro validità ed efficacia, sia quelli che, se pure formalmente regolari, siano posti in essere dal pubblico ufficiale prescindendo volutamente — in costanza di trama corruttiva — dall'osservanza dei doveri a lui incombenti: doveri da rispettare vuoi che traggono fondamento da norme primarie, vuoi che si ricolleghino invece a disposizioni secondarie o interne o a istruzioni di servizio dettate al fine di assicurare e promuovere il regolare e più corretto svolgimento dell'azione penale.

(massima n. 2)

Per stabilire se un atto sia contrario o meno ai doveri di ufficio e se conseguentemente debba configurarsi l'ipotesi criminosa dell'art. 319 c.p. (corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio) piuttosto che quella dell'art. 318 c.p. (corruzione per un atto di ufficio), occorre avere riguardo non soltanto all'atto in sé per verificarne la legittimità o l'illegittimità, ma anche alla sua conformità a tutti i doveri di ufficio o di servizio che possono venire in considerazione, con il risultato che un atto può essere in sé stesso non illegittimo e ciò nondimeno essere contrario ai doveri di ufficio. Del resto, che in materia di corruzione la legittimità dell'atto non sia sufficiente ad escludere la più grave figura criminosa dell'art. 319 c.p. quando sia accompagnato dalla inosservanza di un dovere d'ufficio, si evince chiaramente dalla stessa articolazione della suddetta norma che contempla, tra le ipotesi di corruzione propria, anche quella che si concreta nella retribuzione ricevuta per ritardare l'emissione di un atto dovuto, e cioè nella violazione di un dovere (quale quello di provvedere senza dolosi ritardi) che fa presumere e presuppone la legittimità dell'atto tardivamente emesso.

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