Corte costituzionale sentenza n. 10 del 19 gennaio 1993

(1 massima)

(massima n. 1)

Nella configurazione del diritto all'interprete, l'innovazione introdotta dall'art. 143 c.p.p. rispetto alla disciplina previgente, pur mantenendo all'interprete le funzioni tipiche del collaboratore dell'autorità giudiziaria, assegna primariamente allo stesso una connotazione ed un ruolo propri di istituti preordinati alla tutela della difesa, nell'ambito di un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile, in sintonia con i principi contenuti nelle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia in materia di diritti della persona non può pertanto art. 143 configurarsi come norma di stretta interpretazione. Al contrario, trattandosi di una garanzia essenziale al godimento di un fondamentale diritto di difesa, va interpretato come clausola generale, di ampia applicazione, destinata ad espandersi e a specificarsi, nell'ambito dei fini normativi riconosciuti, di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano. Il diritto all'interprete quindi deve essere estensivamente applicato a tutte le ipotesi in cui l'imputato straniero, ove non possa giovarsi dell'ausilio dell'interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del processo penale, in ordine a tutti gli atti a lui indirizzati, sia scritti che orali. Tale garanzia si estende a qualsiasi persona, di qualunque nazionalità, che non risulti essere in grado di comprendere la lingua italiana, tanto se tale circostanza sia evidenziata dallo stesso interessato, quanto se, in difetto di ciò, sia accertata dall'autorità procedente.

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