Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 9476 del 22 ottobre 1997

(1 massima)

(massima n. 1)

Il giudice di rinvio, dopo l'annullamento per vizio di motivazione, può, senza violare l'obbligo di conformarsi al cosiddetto giudicato interno, pervenire nuovamente all'affermazione di responsabilità dell'imputato sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle già censurate in sede di legittimità e con l'unico limite di non ripetere i vizi della motivazione rilevati nella sentenza impugnata; ma, risolvendo la Corte di cassazione una questione di diritto anche quando giudica sull'adempimento del dovere di motivazione, egli è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunziato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato ad una determinata valutazione delle risultanze processuali ovvero al compimento di una particolare indagine — in precedenza omessa — di determinante rilevanza ai fini della decisione, o, ancora, all'esame non effettuato di specifiche istanze difensive incidenti sul giudizio conclusivo. (Fattispecie in tema di associazione per delinquere contestato ad appartenenti all'organizzazione «Chiesa di scientologia» di cui il giudice di rinvio doveva accertare il carattere di confessione o associazione religiosa: la Suprema Corte ha ritenuto che la valutazione della religiosità di tale organizzazione condotta nel merito e sul metro di opinioni in qualche misura personali e di una definizione fondata, in violazione di norme di diritto costituzionale, esclusivamente sulle concezioni religiose ebraiche, cristiane e musulmane invece che alla stregua dei referenti formali e oggettivi indicati nella sentenza di rinvio comporta non soltanto l'elusione del giudicato intervenuto circa la scelta delle metodiche di valutazione applicabili in fattispecie, ma anche un inammissibile sindacato sull'esigenza religiosa di una fede o di un culto, sindacato a propria volta illegittimo perché risoltosi nell'esercizio — da parte dei giudici del rinvio — di una potestà non consentita ai pubblici poteri della voluta ed estrema genericità della nozione di religione utilizzata nella Costituzione).

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