Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 1542 del 20 agosto 1994

(1 massima)

(massima n. 1)

L'effetto abrogativo del D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 — che ha concluso la procedura referendaria diretta all'abrogazione di talune norme del testo unico in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope approvato con il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 — ha comportato, rispetto alla detenzione di sostanze stupefacenti e psicotrope per uso personale, una vera e propria abolitio criminis, quale prevista dall'art. 2, comma 2, c.p. e rilevante ai sensi dell'art. 673 c.p.p., una norma che opera non soltanto quando una fattispecie legale criminosa nel suo complesso sia eliminata dal sistema penale, ma anche quando venga resa inapplicabile la norma incriminatrice in uno dei casi che, in precedenza, rientravano nell'area dei fatti penalmente sanzionati come reati. Ove, dunque, ci si trovi in presenza di una condanna definitiva, la procedura prevista dall'art. 673 c.p.p. non può essere assimilata ad una impugnazione, per cui è da intendere precluso qualsiasi nuovo esame delle prove e degli elementi raccolti emersi nella precedente fase di cognizione, ormai del tutto esaurita; compito del giudice dell'esecuzione è, infatti, quello di interpretare il giudicato e di renderne esplicito il contenuto ed i limiti, ricavando dalla decisione irrevocabile tutti gli elementi, ancorché non chiaramente espressi, che si rendano necessari ai fini della disciplina prevista dal più volte ricordato art. 673. Quindi, pur dovendosi tenere fermo il principio che il giudicato si è formato in corrispondenza delle statuizioni racchiuse nel dispositivo della sentenza, qualora non sia possibile individuare già dal capo di imputazione contestato la finalità per la quale la sostanza stupefacente era detenuta, al fine di escludere la ipotesi della detenzione per uso personale, ben può essere utilizzata la motivazione della decisione, quando si tratti, non di modificare il dispositivo, ma di stabilire il significato e la portata di esso, nell'indiscusso presupposto che il rapporto tra parte motiva e parte dispositiva della sentenza non può che essere di integrazione.

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