Cassazione penale Sez. I sentenza n. 5389 del 7 giugno 1997

(1 massima)

(massima n. 1)

Nell'ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo — ove manchino esplicite ammissioni da parte dell'imputato — ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità semantica sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente. Ciò che ha valore determinante per l'accertamento della sussistenza dell'animus necandi è l'idoneità dell'azione la quale va apprezzata in concreto, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, perché altrimenti l'azione, per non aver conseguito l'evento, sarebbe sempre inidonea nel delitto tentato: il giudizio di idoneità è una prognosi, formulata ex post, con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell'azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare. (Nella fattispecie la Suprema Corte ha ritenuto corretta la motivazione della corte di merito che aveva desunto la volontà omicida dell'imputato dalla natura del mezzo usato — una pistola calibro 38 «special» — dalla zona corporale attinta dal proiettile — regione lombare sinistra con penetrazione nel pacco intestinale e fuoriuscita dal fianco sinistro — dalla distanza ravvicinata tra lo sparatore e la vittima, nonché dalla oggettiva gravità delle lesioni essendosi il ferito salvato solo a seguito di un tempestivo intervento chirurgico).

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