Cassazione penale Sez. V sentenza n. 2381 del 11 marzo 1993

(2 massime)

(massima n. 1)

Il valore sintomatico della paternità dell'azione, nella causale, è connaturato alla sua diretta partecipazione al processo formativo della volontà di una condotta. Come tale, il movente ha non solo la capacità di esaltare gli elementi indiziari di carattere oggettivo, facendoli convergere in un quadro unitario di riferimento, ma è esso stesso dotato dell'autonoma capacità di manifestare ciò che senza la sua corretta valutazione resterebbe sconosciuto. Né il sistema processuale vigente pone limiti al giudice nella scelta della prova atipica o nell'apprezzabilità della sua capacità rivelatrice di un fatto o di un aspetto dello stesso. Pertanto, la prova del coinvolgimento di un soggetto in un delitto può anche essere la causale, quando questa, per la sua specificità, converge in una direzione univoca. (In tema di omicidio, è stato ritenuto che l'interesse di alcuni imputati all'eliminazione fisica di un ufficiale dei carabinieri sorreggeva l'ipotesi della riferibilità del fatto all'associazione criminosa di cui essi imputati erano esponenti, rafforzando nel contempo la valenza probatoria degli altri indizi).

(massima n. 2)

Nell'ambito di un'associazione per delinquere di stampo mafioso l'omicidio eseguito materialmente da alcuni affiliati in attuazione del programma criminoso non può essere addebitato sotto il profilo del concorso morale ai componenti della struttura di vertice denominata «commissione» in quanto tali, dovendosi verificare per ciascuno di essi la causale, individuabile nel diretto e pressante interesse alla soppressione della vittima del gruppo criminale rappresentato. (Sulla scorta del principio enunciato in massima la Suprema Corte ha annullato con rinvio la condanna nei confronti di uno dei membri della «commissione» mafiosa, evidenziando un suo incipiente esautoramento, oltre allo stretto rapporto esistente fra gli autori materiali del delitto ed altri membri della «commissione»).

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