Cassazione penale Sez. I sentenza n. 11453 del 25 novembre 1988

(2 massime)

(massima n. 1)

La prova della sussistenza dell'animus necandi sia pure sotto il profilo del dolo eventuale nella fattispecie del tentato omicidio, deve essere desunta dal comportamento del colpevole e dagli accadimenti reali e non dall'eventuale e possibile comportamento della vittima, ricorrendo ad argomenti che sono estranei al contenuto ed alla prova del dolo e che potrebbero e dovrebbero essere eventualmente utilizzati ai fini della sussunzione del fatto nell'ambito di altre fattispecie delittuose, prevedute dal codice, ove l'evento si fosse verificato (artt. 83, 584, 586 c.p.).

(massima n. 2)

Nell'ipotesi di omicidio tentato, la prova del dolo — in mancanza di esplicite ammissioni dell'imputato — ha natura essenzialmente indiretta, poiché è tratta da elementi esterni, che devono essere considerati alla stregua di indizi. Ad evitare, quindi, che il libero convincimento del giudice, trattandosi di prova indiretta, si traduca in arbitrio, o in un convincimento meramente soggettivo, astratto dalla prova, è necessario che l'indizio sia certo, e non meramente ipotetico o congetturale; che la deduzione del fatto noto rientri in un procedimento logico ispirato al massimo rigore ed alla più assoluta correttezza e nel caso di pluralità di fatti indizianti, questi siano concordanti, nel senso che valutati nel loro insieme confluiscano univocamente in una ricostruzione logica unitaria del fatto ignoto, che non deve avere contro di sé alcun ragionevole dubbio.

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