Cassazione penale Sez. II sentenza n. 42789 del 10 novembre 2003

(2 massime)

(massima n. 1)

Il delitto previsto dall'art. 611 c.p. (violenza o minaccia per costringere a commettere un reato) è un reato di pericolo che si consuma nel momento stesso dell'uso della violenza e della minaccia, indipendentemente dal reato fine; comunque, secondo gli ordinari principi in tema di concorso di persone nel reato, l'autore della violenza o della minaccia risponde del reato eventualmente commesso dal soggetto coartato, a prescindere dalla punibilità di quest'ultimo.

(massima n. 2)

L'elemento oggettivo comune della fattispecie di estorsione e di quella di violenza e minaccia per costringere a commettere un reato è l'uso della violenza o minaccia come strumento di coartazione dell'altrui volere. Tuttavia, nel delitto di estorsione, l'autore mira a che la vittima compia una condotta «innominata» — ossia generica come quella della fattispecie di violenza privata — che procuri all'autore stesso o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno; invece, nel reato di cui all'art. 611 c.p., l'autore mira a che la vittima compia una condotta qualificata da un elemento specializzante, ossia una condotta integrante gli elementi costitutivi di un reato. Ne consegue che il delitto di cui all'art. 611 c.p. è integrato senza la sussistenza del «profitto» per l'autore e del correlativo «danno» per la vittima, elementi che possono, semmai, riferirsi alla struttura del fatto tipico dello specifico reato-fine, che rappresentando l'obiettivo dell'autore della violenza e della minaccia, la vittima di essa può «strumentalmente» realizzare. (Nel caso di specie, la Corte ha riqualificato l'originaria imputazione di estorsione nell'ipotesi di cui all'art. 611 c.p. in relazione alla condotta di minaccia grave con l'uso delle armi e di violenza, posta in essere nei confronti di un soggetto per costringerlo ad impossessarsi di numerose schede telefoniche prepagate, sottraendole alla società della quale egli era dipendente).

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