Cassazione penale Sez. V sentenza n. 1739 del 27 gennaio 1993

(1 massima)

(massima n. 1)

Il disposto dell'art. 596, ultimo comma c.p., nella parte in cui esclude la punibilità dell'autore della diffamazione, ove la persona cui il fatto è attribuito venga condannata per il fatto stesso, non pone alcuna questione di pregiudizialità, poiché considera la sentenza di condanna come fatto giuridico destinato a svolgere effetti specifici in virtù della suddetta norma sostanziale e non già per il suo riferimento e collegamento alla definizione di questioni risolte in altro procedimento, secondo l'ottica propria della disciplina contenuta nell'art. 18 del codice di rito abrogato e nell'art. 2 dell'attuale codice di procedura. Ciò non esclude, peraltro, che il giudice del processo di diffamazione adotti provvedimento di sospensione — espressamente previsto dall'art. 509 c.p.p. vigente — ove la condanna del soggetto diffamato per il fatto attribuito si prospetti quale fatto giuridico anche solo virtuale. (La Suprema Corte ha ritenuto abnorme l'ordinanza di sospensione del dibattimento, assunta dal giudice senza considerare che nel caso di specie si profilava l'altra causa di esclusione della punibilità, ipotizzata dall'art. 596, terzo comma n. 1 c.p., della prova della verità del fatto dedotto nella diffamazione, consentita in ragione della qualità di pubblico ufficiale della persona diffamata, nel momento in cui l'istruzione dibattimentale non era ancora esaurita, dovendo essere escusso un teste, addotto in proposito).

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