Cassazione penale Sez. IV sentenza n. 4821 del 28 aprile 1992

(2 massime)

(massima n. 1)

Il c.d. «patteggiamento» non comporta ammissione di colpevolezza né costituisce richiesta di condanna, l'una non potendosi ritenere e l'altra ammettere senza un giudizio formale di accertamento e altresì senza le normali conseguenze (spese processuali, pene accessorie, efficacia nei giudizi civili o amministrativi) espressamente escluse dall'art. 445 c.p.p.; esso costituisce però, impegno ad accettare ed eseguire — salvo il caso di sospensione condizionale — la sanzione concordata con il pubblico ministero e ritenuta equa dal giudice, con rinuncia ad ogni questione od obiezione di qualsiasi natura. Pertanto non è possibile proporre al giudice dell'impugnazione eccezioni che sono state superate dall'applicazione della pena richiesta, né devolvere allo stesso il potere di conoscerne; soltanto su quelle rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del dibattimento egli può pronunciarsi in ogni caso, anche indipendentemente da una doglianza sul punto, ai sensi dell'art. 609, comma 2 c.p.p., disposizione che, costituendo un'eccezione al principio di devoluzione è insuscettibile di estensione.

(massima n. 2)

Nel caso in cui i motivi prospettati dal ricorrente riguardino esclusivamente la dichiarazione di contumacia e non anche la sentenza di applicazione della pena richiesta, pure impugnata, la Corte di cassazione si trova di fronte non già a due distinti ricorsi, bensì ad un'unica impugnazione, poiché la legge non riconosce autonomia al ricorso avverso l'ordinanza, tanto che ne subordina l'impugnazione alla contemporanea richiesta di controllo della sentenza che ha deciso il merito del processo. Ciò comporta l'unitarietà dell'esame dell'impugnazione, sicché, pur dovendosi valutare autonomamente i motivi di doglianza sui singoli capi, non si può nel controllo dell'ordinanza prescindere dalle successive vicende di merito regolate dalla sentenza, anche nel caso in cui non siano state affatto contestate.

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