Cassazione penale Sez. I sentenza n. 11353 del 25 novembre 1992

(2 massime)

(massima n. 1)

Ferma la nozione di interesse all'impugnazione, ai sensi dell'art. 568, quarto comma, c.p.p., è da escludere una sua personalizzazione nei confronti del pubblico ministero - ufficio tipicamente impersonale - nel senso di un interesse proprio della persona (soggetto fisico) che tale ufficio ha rappresentato nel procedimento e nel dibattimento, presentandovi le conclusioni: l'interesse non può che essere riferito all'ufficio, nella sua interezza, e semmai alla persona del suo capo, che può agire personalmente o per mezzo dei sostituti, ognuno dei quali deriva la propria legittimazione dall'appartenenza all'ufficio e dalla designazione da parte del capo, che mantiene la sua validità per l'intero procedimento, salva eventuale revoca. Sicché la distinzione fra interesse personale del rappresentante del pubblico ministero nell'udienza ed interesse personale del capo dell'ufficio, che singolarmente deriverebbero dal primo e secondo comma, dell'art. 570, c.p.p., è del tutto erronea, unico essendo l'interesse all'impugnazione, inevitabilmente riferito all'ufficio ed alle determinazioni del suo capo. In tale prospettiva, il secondo comma, dell'art. 570 deve essere letto come accrescitivo, e non limitativo, dei poteri del rappresentante del P.M. che abbia presentato le conclusioni, conferendogli una propria legittimazione (e non un interesse personale) all'impugnazione, che, resta dilatata ad ogni possibile soluzione e non vincolata dalle conclusioni assunte.

(massima n. 2)

Una volta stabilita la non impugnabilità autonoma delle ordinanze dibattimentali, rispetto alle quali una parte sia rimasta soccombente, non può negarsi il suo interesse ad impugnarle, coattivamente con impugnazione anche della sentenza, indipendentemente dalle conclusioni finali formulate, che da quelle ordinanze siano state direttamente influenzate. (Nella specie, relativa ad annullamento di statuizione di inammissibilità dell'appello del P.M. fondata sul difetto di interesse del proponente, la Suprema Corte ha ritenuto la sussistenza «dell'indubbio interesse ad appellare, che doveva essere riconosciuto al P.M. d'udienza, bensì indottosi alla conclusiva richiesta di assoluzione degli imputati, nei cui confronti l'appello fu poi proposto, ma soltanto per effetto della reiezione — da parte della corte d'assise — di istanze dibattimentali dirette all'introduzione nella stessa sede di prove nuove a sostegno dell'accusa: di guisa che allo stesso organo non rimaneva altra forma di protesta, avverso le relative decisioni, che l'impugnazione congiunta a quella della sentenza, ai sensi dell'art. 586 c.p.p.»).

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