Cassazione penale Sez. V sentenza n. 7583 del 11 giugno 1999

(2 massime)

(massima n. 1)

In tema di bancarotta fraudolenta, concorrono alla consumazione del delitto tutti coloro che abbiano, con la loro attività, apportato un concreto contributo causale alla produzione del dissesto dell'azienda; pertanto, pur rappresentando la sentenza dichiarativa di fallimento elemento costitutivo della fattispecie (in quanto accertativa dello stato di insolvenza e della qualifica di imprenditore o di amministratore del soggetto attivo), anche l'eventuale amministratore di fatto può essere chiamato a rispondere del reato, in concorso, appunto, con il soggetto dichiarato fallito.

(massima n. 2)

La mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti radicale difformità tra i due dati, in modo che possa derivarne incertezza sull'oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei diritti della difesa. Pertanto, l'indagine volta ad accertare la eventuale sussistenza di tale violazione non può esaurirsi in un'analisi comparativa, meramente letterale, tra imputazione e sentenza, dal momento che il contrasto non sarebbe ravvisabile se l'imputato, attraverso l'iter del processo, fosse comunque venuto in concreto a trovarsi in condizione di difendersi in ordine all'oggetto della contestazione. (Fattispecie in tema di concorso, tra amministratore «di fatto» e «di diritto», in bancarotta fraudolenta). In alcuni atti processuali, per mero errore materiale, le due qualifiche risultano invertite, senza tuttavia che mai possa equivocarsi sulla identità dell'imprenditore dichiarato fallito e su quella del gestore di fatto dell'azienda)

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