Cassazione penale Sez. Unite sentenza n. 4265 del 7 aprile 1998

(2 massime)

(massima n. 1)

In tema di istruzione dibattimentale, le disposizioni di cui all'art. 6, L. 7 agosto 1997, n. 267, che contengono la disciplina transitoria della nuova normativa posta dall'art. 513, c.p.p., in ordine alla lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, trovano applicazione in tutti i processi in corso, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità; con la precisazione che, in quest'ultimo caso, detta applicazione deve avvenire con le forme imposte dalla peculiare natura di tale giudizio, ossia mediante il passaggio obbligato dell'annullamento della sentenza pronunciata in base a prove divenute inutilizzabili e del rinvio al giudice di merito, dinanzi al quale le parti potranno richiedere la rinnovazione parziale del dibattimento, secondo quanto dispone il quarto comma della norma in parola, per ottenere la citazione di coloro che avevano reso le dichiarazioni per le quali è sopravvenuto il divieto di uso. (Nell'affermare detto principio la Corte ha altresì precisato come non sia sufficiente, perché in sede di legittimità possa essere pronunciato l'annulamento della sentenza basata su letture non più consentite, la mera circostanza della sopravvenienza della nuova disciplina bensì, ricollegandosi la sanzione dell'inutilizzabilità alla mancata acquiescenza delle parti, come sia a tal fine necessario, innanzitutto, che gli originari motivi di ricorso abbiano rimesso alla cognizione della Corte di cassazione il controllo della motivazione sul punto relativo alla valutazione delle dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in procedimenti connessi; che quindi la questione relativa all'applicazione della normativa transitoria sia stata introdotta, conformemente alle regole generali in materia di impugnazioni, con la presentazione, nelle forme prescritte dall'art. 585, quarto comma, c.p.p., di motivi nuovi, la cui proponibilità è ammessa dal combinato disposto degli artt. 606, terzo comma, e 609, secondo comma, c.p.p.; che infine sia accertata, da parte della Corte, la rilevanza sul dictum contenuto nella sentenza impugnata degli elementi probatori desunti dalle letture delle dichiarazioni predibattimentali non più consentite).

(massima n. 2)

Qualora nel corso del processo si verifichino innovazioni legislative in materia di utilizzabilità o inutilizzabilità della prova, il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento della decisione e non a quello dell'acquisizione della prova, atteso che il divieto di uso, colpendo proprio l'idoneità di questa a produrre risultati conoscitivi valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, interviene allorché il procedimento probatorio non ha trovato ancora esaurimento, di modo che il divieto inibisce che i dati probatori, pur se acquisiti con l'osservanza delle forme previste dalle norme previgenti, possano avere un qualsiasi peso nel giudizio. (Nell'occasione la Corte, pronunciandosi in tema di modifica dell'art. 513 c.p.p. introdotta con L. 7 agosto 1997, n. 267, ha altresì precisato che tale principio trova applicazione anche nel giudizio di legittimità, e ciò in quanto il procedimento probatorio deve considerarsi ancora in fieri allorquando la Corte di cassazione sia stata investita del sindacato sulla motivazione relativa alla valutazione delle prove compiuta dal giudice di merito, con la conseguenza che, nell'esercizio dei suoi compiti istituzionali, la stessa Corte ha il potere-dovere di rilevare che la decisione impugnata si fonda su prove colpite da un sopravvenuto difetto di utilizzazione).

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