Cassazione penale Sez. I sentenza n. 10795 del 22 settembre 1999

(6 massime)

(massima n. 1)

Ai fini dell'individuazione dell'ambito di cognizione attribuito al giudice di secondo grado dall'art. 597, primo comma, c.p.p., per punto della decisione deve ritenersi quella statuizione della sentenza che può essere considerata in modo autonomo, non anche le argomentazioni esposte in motivazione, che riguardano il momento logico e non già quello decisionale del procedimento. Ne deriva che, in ordine alla parte della sentenza suscettibile di autonoma valutazione che riguarda una specifica questione decisa in primo grado, il giudice dell'impugnazione può pervenire allo stesso risultato cui è pervenuto il primo giudice anche sulla base di considerazioni e argomenti diversi da quelli considerati dal primo giudice o alla luce di dati di fatto non valutati in primo grado, senza, con ciò, violare il principio dell'effetto parzialmente devolutivo dell'impugnazione.

(massima n. 2)

Allorchè nel giudizio di appello si sia provveduto, a norma dell'art. 6 della L. n. 267 del 1997, al recupero, mediante conferma proveniente da altri elementi di prova, del contenuto narrativo di dichiarazioni rese precedentemente da soggetti compresi nelle categorie indicate dall'art. 513 c.p.p., non v'è più spazio per l'operatività, nel processo, del meccanismo di recupero introdotto dalla sentenza 2 novembre 1998 n. 361 della Corte costituzionale, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale del citato art. 513, in quanto gli specifici obiettivi perseguiti dall'intervento demolitorio e manipolativo di detta sentenza risultano già compiutamente realizzati.

(massima n. 3)

Gli artt. 416 c.p.p. e 130 att. c.p.p., delegando al P.M. l'onere di formare il fascicolo da trasmettere al giudice per le indagini preliminari insieme con la richiesta di rinvio a giudizio degli imputati, attribuiscono in via esclusiva al potere delibativo dell'organo di accusa il compito di individuare e allegare quegli atti che attengono, strettamente, ai soggetti e all'oggetto del rinvio a giudizio, con la conseguenza che non può ipotizzarsi, a carico dello stesso P.M., alcun obbligo di allegazione di atti che riguardino persone estranee a tale oggetto ovvero afferiscano a indagini diverse o ancora in corso di sviluppo. (In motivazione, la S.C. ha osservato che l'obbligo del P.M. di trasmissione, nei limiti sopra precisati, dell'intera documentazione raccolta nel corso delle indagini è presidiato, in caso di inosservanza, solo dalla sanzione dell'inutilizzabilità degli atti non trasmessi, non essendo prevista un'autonoma sanzione di invalidità per il mancato deposito degli atti, indipendentemente dalla loro utilizzazione).

(massima n. 4)

Il fondamento della particolare ipotesi di concorso nel reato di cui all'art. 116 c.p., deve essere ravvisato nel fatto che, mentre colui il quale commetta da solo il reato è in grado, in ogni momento, di controllare lo sviluppo della sua condotta e dirigere la stessa verso l'evento previsto e voluto, invece colui il quale si unisce ad altri per porre in essere un'azione criminosa è costretto ad affidarsi anche alla condotta e alla volontà dei complici, quale che ne sia il grado di partecipazione e il ruolo, per il compimento dell'azione stessa. Ne deriva che in tale situazione egli non deve sottovalutare il pericolo che i compartecipi o taluno di essi abbiano a deviare dall'azione principale con l'assumere iniziative per fronteggiare eventuali difficoltà sopravvenute improvvisamente, così eccedendo dai limiti del concordato concorso e realizzando un reato diverso e più grave di quello inizialmente dovuto. (Fattispecie concernente rapina a mano armata, seguita da omicidio, in relazione alla quale la S.C., dato atto che l'evento diverso e più grave materialmente cagionato da uno dei concorrenti non era rimasto nel campo della mera prevedibilità, ma era stato accettato come rischio per realizzare l'obiettivo da tutti concordato, ha ritenuto che ricorresse un'ipotesi di concorso ex art. 110 c.p., e non un'ipotesi di concorso anomalo).

(massima n. 5)

In tema di elemento psicologico del reato, l'azione posta in essere con accettazione del rischio dell'evento può implicare per l'autore un maggiore o minore grado di adesione della volontà, secondo che egli consideri maggiore o minore la probabilità dell'avverarsi dell'evento. Se questo viene ritenuto certo o altamente probabile, l'autore non si limita ad accettare il rischio, ma accetta l'evento stesso che vuole; se l'evento, oltre che accettato, è perseguito, il dolo si colloca in un più elevato livello di gravità. Sicché, in relazione a tali diversi gradi di intensità, il dolo va qualificato come eventuale nel caso di accettazione del rischio e come diretto negli altri casi, con la precisazione che, se l'evento è perseguito come scopo finale, si ha il dolo intenzionale.

(massima n. 6)

Poiché l'art. 468, primo comma, c.p.p. ha soprattutto lo scopo di consentire alla controparte di dedurre la prova contraria, qualora le altre parti già conoscano i fatti sui quali deve vertere la testimonianza, essendo essi analiticamente contenuti nel capo di imputazione e avendo costituito oggetto di esami regolarmente depositati, le esigenze difensive risultano soddisfatte anche se la deduzione testimoniale faccia generico riferimento ai fatti del processo, ben potendo ciascuno di tali fatti essere correlato senza equivoci alle circostanze. (In motivazione, la S.C. ha osservato che in ogni caso non è prevista alcuna nullità per l'eventuale ammissione di prove non tempestivamente indicate dal P.M., nelle liste di cui all'art. 468 c.p.p. o con indicazione generica quanto al tema, e che rientra comunque tra i poteri del giudice assumere d'ufficio, a norma dell'art. 507 c.p.p., i mezzi di prova che la parte ha indicato, sia pure intempestivamente o irritualmente).

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