Cassazione penale Sez. I sentenza n. 35 del 21 febbraio 1996

(3 massime)

(massima n. 1)

La disposizione contenuta nell'art. 409, comma sesto, c.p.p., che riconosce espressamente alla parte offesa la legittimazione a ricorrere per cassazione avverso l'ordinanza di archiviazione, pronunciata all'esito dell'udienza in camera di consiglio senza che di tale udienza sia stato dato avviso alla medesima parte offesa, non può ragionevolmente essere interpretata nel senso di non riconoscerle tale rimedio allorché, nonostante abbia ritualmente chiesto di essere preavvertita dell'eventuale richiesta di archiviazione da parte del P.M., non le sia stato notificato il relativo avviso, previsto dal secondo comma dell'art. 408 stesso codice. Ed invero, si tratta di un vizio ancora più grave di quello conseguente all'omesso avviso dell'udienza dinanzi al giudice per le indagini preliminari alla persona offesa che abbia proposto opposizione, in quanto colpisce la stessa potenziale instaurazione del contraddittorio prevista dalla legge. Ne consegue che tale omissione dà luogo a nullità del decreto di archiviazione emesso de plano, deducibile in sede di legittimità ai sensi del comma quinto dell'art. 127 c.p.p. (Fattispecie relativa a notificazione dell'avviso della richiesta di archiviazione del P.M. eseguita successivamente all'emissione, da parte del Gip, del decreto di archiviazione e ritenuta dalla S.C. equivalente ad omessa notificazione di detto avviso).

(massima n. 2)

Nel procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, secondo il combinato disposto degli artt. 660, secondo comma, c.p.p., 181 e 182 disp. att. c.p.p., il compito del pubblico ministero, nelle ipotesi in cui la procedura di recupero — cui è preposta istituzionalmente la cancelleria del giudice dell'esecuzione — abbia avuto esito negativo, consiste soltanto nel controllo formale dell'attività svolta dalla cancelleria predetta; pertanto, una volta ricevuti gli atti della procedura risoltasi negativamente, egli deve limitarsi ad accertare se le ragioni di tale esito diano luogo ad un'effettiva impossibilità di esazione della pena pecuniaria ovvero se risultino in qualche modo superabili, rivolgendosi quindi, nella prima ipotesi, come espressamente previsto dal secondo comma dell'art. 660 c.p.p., al magistrato di sorveglianza — cui è demandata l'attività di accertamento del passaggio della situazione fisiologica di insolvibilità per impossibilità a quella di insolvenza effettiva e concreta — perché provveda alla conversione della pena pecuniaria, previo accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato; ovvero restituendo gli atti, nella seconda, alla cancelleria del giudice dell'esecuzione che li aveva inviati, perché riprenda la procedura di riscossione. (Nella specie la Corte ha altresì precisato che il magistrato di sorveglianza al quale devono essere trasmessi gli atti nell'ipotesi in cui l'impossibilità di esazione riguardi un condannato irreperibile è quello del luogo in cui fu pronunciata la sentenza di condanna, individuato ai sensi dell'art. 677, secondo comma, ultima parte, c.p.p.).

(massima n. 3)

Qualora il magistrato di sorveglianza, investito dal pubblico ministero della procedura per la conversione della pena pecuniaria, riscontri, nell'ambito dell'accertamento sulla sussistenza o meno dello stato di insolvenza, l'irreperibilità del condannato e, quindi, l'impossibilità di dichirarne l'effettiva insolvibilità, non può dar luogo al provvedimento di conversione e deve restituire gli atti al pubblico ministero; il quale, a sua volta, deve restituirli alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, affinché quest'ultimo ufficio, il quale è istituzionalmente preposto, ai sensi dell'art. 181 disp. att. c.p.p., alla riscossione delle pene pecuniarie, provveda a rinnovare periodicamente la procedura esecutiva.

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