Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 649 del 19 gennaio 1996

(3 massime)

(massima n. 1)

L'inutilizzabilità dibattimentale delle dichiarazioni rese dall'arrestato alla polizia giudiziaria stabilita dall'art. 350 comma 7 (con la salvezza relativa alla possibilità di contestazioni) è determinata da specifiche finalità di tutela del diritto di difesa, ma non può estendersi a ciò che travalica tale diritto, pur inteso nella sua più ampia latitudine, e particolarmente al contenuto calunnioso di esse nei confronti di altri soggetti. Di tali dichiarazioni è inibita la utilizzazione nel dibattimento relativo alla imputazione per cui il procedimento era già sorto, non già nel dibattimento in cui esse vanno considerate come un fatto penalmente rilevante. (Nella specie è stato rigettato il motivo di ricorso che deduceva violazione dell'art. 350 comma 7 c.p.p. per essere stata fatta utilizzazione, nel procedimento per calunnia, delle dichiarazioni rese dall'imputato alla polizia giudiziaria, quando era stato arrestato in flagranza del reato di furto).

(massima n. 2)

La richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. non implica ammissione di responsabilità né tantomeno confessione per fatti concludenti, ma solamente rinuncia a difendersi e accettazione di una pena «scontata» in cambio delle energie e del tempo fatto risparmiare nell'interesse generale dell'amministrazione della giustizia. Il patteggiamento definisce in modo negoziale il procedimento e dalla «equiparazione» di cui all'art. 445 c.p.p. non può derivare alcuna ammissione di responsabilità da far valere fuori del procedimento così definito. La sentenza di patteggiamento, pertanto, non è utilizzabile in altro procedimento per reato collegato o probatoriamente connesso come prova di responsabilità penale dell'imputato che ha richiesto o consentito l'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (Nel caso di specie è stata annullata sentenza di condanna per calunnia, che aveva utilizzato, a prova della responsabilità dell'imputato, il pregresso patteggiamento in ordine al reato di furto, per il quale egli era stato arrestato in flagranza ed aveva dichiarato che il delitto gli era stato commissionato dal proprietario della refurtiva, a fine di conseguire il risarcimento danni dalla compagnia di assicurazione).

(massima n. 3)

Le dichiarazioni spontaneamente rese dall'indagato alla polizia giudiziaria, all'atto dell'arresto in flagranza di reato (nella specie furto), sono documentate in verbale, a norma dell'art. 357 comma 2 lett. b) c.p.p., e che tale verbale, allorquando contiene dichiarazioni (ritenute) calunniose, costituisce cosa pertinente al reato di calunnia, di cui sono ammessi il sequestro (art. 253 c.p.p.), l'inserimento nel fascicolo per il dibattimento (art. 431) e la conseguente utilizzabilità dibattimentale nel procedimento per calunnia. Il verbale delle predette dichiarazioni è, in ogni caso, un documento a norma dell'art. 234 c.p.p. e, come tale, può essere acquisito a norma dell'art. 190 c.p.p. e utilizzato come prova nel processo per calunnia. (Nella specie è stato rigettato il motivo di ricorso che deduceva violazione dell'art. 350 comma 7 c.p.p. per essere stata fatta utilizzazione, nel procedimento per calunnia, delle dichiarazioni rese dall'imputato alla polizia giudiziaria, quando era stato arrestato in flagranza del reato di furto).

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