Cassazione penale Sez. V sentenza n. 24711 del 26 giugno 2002

(2 massime)

(massima n. 1)

In tema di dichiarazioni provenienti da collaboratore di giustizia che abbia militato all'interno di un'associazione mafiosa, occorre tenere distinte le informazioni che lo stesso sia in grado di rendere in quanto riconducibili ad un patrimonio cognitivo comune a tutti gli associati di quel determinato sodalizio dalle ordinarie dichiarazioni de relato, che non sono utilizzabili se non attraverso la particolare procedura prevista dall'art. 195 c.p.p., in quanto l'impossibilità di esperire, nel primo caso, l'anzidetta procedura rende le stesse propalazioni meno affidabili e, come tali, inidonee di per sè a giustificare un'affermazione di colpevolezza; nondimeno, le stesse possono assumere rilievo probatorio a condizione che siano supportate da validi elementi di verifica in ordine al fatto che la notizia riferita costituisca, davvero, oggetto di patrimonio conoscitivo comune, derivante da un flusso circolare di informazioni attinenti a fatti di interesse comune per gli associati, in aggiunta ai normali riscontri richiesti per le propalazioni dei collaboratori di giustizia.

(massima n. 2)

Non è abnorme il procedimento di appello nel quale, a seguito della disciplina transitoria dettata dall'art. 4 ter del D.L. 7 aprile 2000, n. 82, introdotto dalla legge di conversione 5 giugno 2000, n. 144 (che ha reso applicabile il rito abbreviato anche nei processi di appello a beneficio degli imputati che, secondo la normativa previgente, non avevano potuto formulare la relativa istanza), il rito speciale coesista con quello ordinario per gli imputati che non ne abbiano fatto richiesta. La mancata previsione da parte del legislatore della possibilità di una tale coesistenza non può essere intesa come espressione di volontà di esclusione, ma anzi può essere interpretata come ammissione di una possibile convivenza tra i due riti, anche alla luce della norma contenuta nel comma settimo del citato art. 4 ter, nella parte in cui esclude la forma camerale. La coesistenza dei procedimenti comporta solo la necessità che, al momento della decisione, siano tenuti rigorosamente distinti i regimi probatori rispettivamente previsti per ciascuno di essi: sono utilizzabili, in entrambi, le prove già acquisite in precedenza (e per gli imputati ammessi al rito abbreviato anche gli atti contenuti nel fascicolo di cui all'art. 416, comma secondo, del codice di rito), ma non possono essere utilizzate da questi ultimi le prove acquisite al dibattimento in epoca successiva all'ammissione al nuovo rito, mentre per chi ha mantenuto il rito ordinario non sono, invece, utilizzabili le prove contenute nel fascicolo del P.M. (Nel caso di specie, la Suprema Corte, dopo avere affermato che soltanto l'erronea applicazione dell'indicata disciplina delle prove può essere causa di annullamento della sentenza, ha rilevato che non risultava in atti, né era stato eccepito dalle parti, alcun errore nell'applicazione del regime probatorio).

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