Cassazione penale Sez. Unite sentenza n. 9 del 8 giugno 1999

(3 massime)

(massima n. 1)

L'applicazione della confisca non determina l'estinzione del preesistente diritto di pegno costituito a favore di terzi sulle cose che ne sono oggetto quando costoro, avendo tratto oggettivamente vantaggio dall'altrui attività criminosa, riescano a provare di trovarsi in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole. In siffatta ipotesi la custodia, l'amministrazione e la vendita delle cose pignorate devono essere compiute dall'ufficio giudiziario e il giudice dell'esecuzione deve assicurare che il creditore pignoratizio possa esercitare il diritto di prelazione sulle somme ricavate dalla vendita. (Nell'affermare detto principio la Corte - giudicando in fattispecie di usura - ha altresì precisato che la tutela del diritto di pegno e la sua resistenza agli effetti della confisca non comporta l'estinzione delle obbligazioni facenti capo al condannato, che in tal modo trarrebbe comunque un vantaggio dall'attività criminosa, bensì determina la sola sostituzione del soggetto attivo del rapporto obbligatorio in virtù delle disposizioni sulla surrogazione legale di cui all'art. 1203 c.c., dato che al creditore garantito subentra lo Stato, il quale può esercitare la pretesa contro il debitore-reo per conseguire le somme che non ha potuto acquistare perché destinate al creditore munito di prelazione pignoratizia).

(massima n. 2)

La Corte di appello chiamata a deliberare la novità degli elementi di prova a sostegno di una istanza di revisione ai fini della manifesta infondatezza deve, in osservanza dell'obbligo generale stabilito dall'art. 125, comma 3, c.p.p., fornire una sia pur sommaria giustificazione logica con cui dimostri di aver esaminato le risultanze sottoposte alla sua decisione. Laddove si limiti ad affermare in modo generico ed apodittico che le prove sopravvenute, specificamente indicate con la richiesta, o sono già state valutate nel precedente giudizio di cognizione o non sono idonee a dimostrare che il condannato deve essere prosciolto, la motivazione è soltanto apparente, e quindi inesistente, allorché essa non sia preceduta dalla doverosa indicazione di quali prove sarebbero già state valutate ovvero delle ragioni per cui esse sarebbero inidonee a smentire le prove su cui si è basata la sentenza di condanna.

(massima n. 3)

Nel procedimento di esecuzione avente ad oggetto la confiscabilità di un bene, l'amministrazione dello Stato è titolare di un interesse alla decisione dalla quale può derivarle, in modo diretto e immediato, un pregiudizio o un vantaggio giuridicamente apprezzabile; alla predetta amministrazione compete pertanto l'avviso dell'udienza in camera di consiglio fissata per la deliberazione dell'incidente, posto che il termine «parti» che figura nell'art. 666, comma 3, c.p.p., deve essere inteso in senso sostanziale e non in senso formale, e dunque riferito a tutti i soggetti titolari di posizioni giuridiche sulle quali la decisione è idonea ad esplicare diretta incidenza. Dall'omessa notificazione dell'avviso di udienza deriva una nullità generale a regime intermedio di cui all'art. 178, lett. c), c.p.p., come tale soggetta al regime di rilevabilità e deducibilità di cui agli artt. 180 e 182 c.p.p. (Nel caso di specie la Corte ha escluso, ai sensi dell'art. 182, comma 1, c.p.p., che la nullità derivante dall'omissione predetta potesse essere eccepita dal condannato i cui beni erano stati confiscati, in quanto soggetto privo di interesse all'osservanza della disposizione violata; ed ha ritenuto altresì, ai sensi dell'art. 180 c.p.p., che la rilevabilità d'ufficio nel giudizio di cassazione di tale invalidità dovesse considerarsi preclusa in quanto, inerendo essa ad attività preparatorie dell'udienza in camera di consiglio, avrebbe potuto essere rilevata dal giudice dell'esecuzione, indipendentemente dall'eccezione di parte, sino al momento della deliberazione).

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