Cassazione penale Sez. V sentenza n. 2642 del 19 marzo 1993

(1 massima)

(massima n. 1)

Né la convenzione europea sui diritti dell'uomo, né il codice di rito impongono la traduzione nella lingua dell'imputato straniero degli atti che gli vengono notificati. L'unica eccezione alla regola generale dell'uso esclusivo della lingua italiana, stabilita dall'art. 109 c.p.p., è costituita dall'art. 169, terzo comma, c.p.p., secondo il quale l'invito a dichiarare o ad eleggere domicilio nel territorio dello Stato dev'essere redatto nella lingua dell'imputato straniero, cui la raccomandata contenente la notizia del procedimento e l'invito in questione debba essere notificata all'estero, quando dagli atti non risulti che egli conosce la lingua italiana. Siffatta esplicita previsione conferma la regola generale, che è quella dell'uso della lingua italiana, senza necessità di traduzioni per lo straniero che si trovi in Italia, di tutti gli altri atti scritti del procedimento, salvo il diritto, per l'imputato che non conosca la lingua italiana, di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di comprendere l'accusa formulata contro di lui e di seguire il compimento degli atti cui partecipa (art. 143 c.p.p.).

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