Cassazione penale Sez. III sentenza n. 3712 del 5 dicembre 1996

(4 massime)

(massima n. 1)

Il delitto di evasione ha natura di reato istantaneo ad effetti permanenti. L'art. 385 prevede, infatti, come circostanza attenuante la costituzione in carcere dell'evaso prima della condanna. Il comportamento de quo coincide con il venire meno dell'effetto permanente. L'art. 3 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 convertito con modifiche in legge 12 luglio 1991, n. 203, inoltre, stabilendo la possibilità dell'arresto fuori flagranza, indica che il delitto si perfeziona al momento dell'allontanamento dal luogo di detenzione (sia pure il domicilio domestico) o del mancato rientro per l'ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale (diversamente si sarebbe sempre nella flagranza).

(massima n. 2)

In tema di misure cautelari disposte da giudice incompetente, il termine di venti giorni entro il quale, ai sensi dell'art. 27 c.p.p., il giudice competente deve provvedere ad emettere la nuova ordinanza applicativa della misura va computato secondo i criteri ordinari e decorre solo dal momento in cui l'ordinanza di trasmissione degli atti perviene alla cognizione del detto giudice.

(massima n. 3)

L'art. 3 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 convertito con modifica in legge 12 luglio 1991, n. 203 («provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata») non pone limiti all'arresto fuori flagranza, che può sempre essere eseguito. È, quindi, irrilevante che esso sia effettuato a distanza di alcuni giorni dalla verifica da parte della polizia giudiziaria dell'allontanamento dagli arresti domiciliari. Esso è stato previsto, proprio perché il comportamento dell'evaso dimostra che sussiste - salvo casi eccezionali - il pericolo concreto di fuga e di reiterazione della condotta, come è dimostrato dalla previsione della possibilità di applicare la misura coercitiva al di fuori dei limiti di pena stabiliti dall'art. 280 c.p.p. e, conseguentemente, di quelli attualmente stabiliti dall'art. 274 c.p.p., che, in subiecta materia, va letto unitariamente al dettato dell'art. 280 stesso. La statuizione di cui al menzionato art. 3 ha, d'altronde, una specifica finalità e, cioè, quella di assicurare che l'evaso sia nuovamente ristretto in carcere, pur se in precedenza agli arresti domiciliari, proprio per l'evidente presenza del suddetto pericolo di fuga. Soltanto nell'ipotesi di arresto in flagranza - che diversamente dal primo (fuori flagranza) consente l'introduzione del rito direttissimo - il soggetto è trattenuto nelle cosiddette camere di sicurezza. Anche in quest'ultimo caso, però, la finalità legislativa è concretamente conseguita per la sostanziale equiparabilità dei due mezzi di detenzione.

(massima n. 4)

Posto che, secondo l'art. 27 c.p.p., la misura coercitiva disposta dal giudice dichiaratosi incompetente cessa di aver effetto se, «entro venti giorni dall'ordinanza di trasmissione degli atti», il giudice competente non provvede a riemettere la misura, ne consegue che la decorrenza del termine in questione non può che avere inizio dal momento in cui detta ordinanza ed i relativi atti pervengono alla cognizione del giudice competente ed egli è posto concretamente in grado di esercitare il suo compito. Una conferma di tale interpretazione si rinviene peraltro nella normativa in materia di risoluzione di conflitti di competenza (art. 32 c.p.p.), laddove viene disposto che il termine di venti giorni - di cui all'art. 27 c.p.p. - decorre dalla comunicazione dell'estratto della sentenza risolutiva del conflitto ai giudici interessati. Ed anche in linea generale deve affermarsi che, comunque, il computo di un termine perentorio - qual è quello ex art. 27 c.p.p. - non si sottrae alla disciplina dell'art. 172 c.p.p. ed al principio secondo il quale l'inizio della decorrenza coincide con la possibilità giuridica di esercitare concretamente il diritto.

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