Cassazione civile Sez. I sentenza n. 15177 del 24 novembre 2000

(2 massime)

(massima n. 1)

Le due ipotesi revocatorie previste dall'art. 67 L. fall. sono poste tra loro in via alternativa, nel senso che l'accertata prova dei presupposti di una sola delle due è sufficiente per la revoca dell'atto. Ne consegue che, avendo il giudice accertato l'esistenza dei presupposti sia del primo, che del secondo comma della menzionata disposizione, in fase d'impugnazione si verifica che, allorquando è respinto il gravame relativo ad uno dei due accertamenti, il ricorrente è privo d'interesse all'impugnazione relativa all'altro accertamento, poiché, anche se quell'impugnazione fosse accolta, nessun esito favorevole deriverebbe alla sua posizione. (Nella specie la sentenza impugnata aveva dichiarato revocato l'atto dispositivo in considerazione della notevole discrepanza esistente tra il valore del bene dichiarato in compravendita e quello reale, come riconosciuto in altro coevo atto posto in essere dal fallito. La stessa sentenza s'era poi diffusa nel ritenere accertata la consapevolezza dello stato d'insolvenza del fallito. La S.C., respinto il motivo d'impugnazione proposto relativamente al primo accertamento, ha dichiarato inammissibile il motivo relativo al secondo, rilevando la mancanza d'interesse del ricorrente all'impugnazione, conseguente al menzionato rigetto).

(massima n. 2)

Nella comunione legale dei beni, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni stessi, ed il consenso dell'altro (richiesto dal modulo dell'amministrazione congiuntiva adottato dall'art. 180, comma secondo, c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione) non è un negozio (unilaterale) autorizzativo, nel senso di atto attributivo di un potere, ma è piuttosto un atto che rimuove un limite all'esercizio di un potere; sicché, esso è un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto dispositivo, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio (cfr. Corte cost. 10 marzo 1988, n. 311). Da tale premessa consegue che l'atto di disposizione del bene in comunione, posto in essere da uno solo dei coniugi, esplica i suoi effetti anche in relazione alla «quota» di comunione spettante al coniuge che sia eventualmente fallito, successivamente al compimento del menzionato atto, senza avere proposto l'azione d'annullamento prevista dal comma secondo dell'art. 184 c.c.; con l'ulteriore conseguenza che è ammissibile l'azione revocatoria fallimentare, quale unico rimedio esperibile dalla curatela per ottenere la declaratoria d'inefficacia dell'atto in relazione alla quota di bene spettante al fallito. All'ammissibilità di tale azione non osta, infatti, la circostanza che il coniuge fallito non abbia partecipato all'atto, in quanto egli, non avendo proposto la menzionata azione d'annullamento, ha assunto, attraverso l'implicita convalida, la posizione di contraente occulto in relazione alla propria quota.

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