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Articolo 1361 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Atti di amministrazione

Dispositivo dell'art. 1361 Codice Civile

L'avveramento della condizione non pregiudica la validità degli atti di amministrazione compiuti dalla parte a cui, in pendenza della condizione stessa, spettava l'esercizio del diritto.

Salvo diverse disposizioni di legge o diversa pattuizione, i frutti percepiti sono dovuti dal giorno in cui la condizione si è avverata(1).

Note

(1) Pertanto, la parte che è tenuta a consegnare un bene a causa del verificarsi della condizione deve consegnare solo i frutti maturati dal giorno in cui la stessa si è avverata.

Ratio Legis

Il legislatore fa salvi, in caso di avveramento della condizione, gli atti di amministrazione compiuti medio tempore proprio perchè essi sono volti a cosalvaguardare il bene o il diritto di cui si tratta.
Il secondo comma fa salvi anche i frutti percepiti da chi aveva la disponibilità del bene, considerando che le parti erano consapevoli della loro spettanza nel periodo di pendenza della condizione.

Spiegazione dell'art. 1361 Codice Civile

Avveramento reale

Con l'avveramento della condizione ha termine la pendenza e si esaurisce il rapporto di aspettativa: gli effetti del negozio si producono o cadono a seconda della funzione assegnata dalle parti all'evento.

L'avveramento della condizione si ha in primo luogo quando si verifica l'evento previsto dalle parti. Si ha in questo caso quello che suole essere chiamato avveramento reale della condizione.

In proposito occorre distinguere varie ipotesi:
1) Se le parti hanno fissato un termine entro il quale l'evento previsto debba verificarsi, questo fatto deve sopravvenire prima della scadenza del termine (cfr. art. 1167 cod. civ. del 1865). L'avveramento fuori termine sarebbe irrilevante.
2) Se invece un termine non sia stato preventivamente fissato, l'avveramento della condizione può seguire in qualunque momento (art. 1167 cit.).
3) Se si tratta di condizione negativa, essa potrà dirsi verificata quando il termine fissato sia decorso senza che l’evento previsto (negativamente) si sia verificato, o, in mancanza di termine, quando si sia raggiunta la certezza che esso non potrà mai verificarsi. E’ chiaro che deve trattarsi di una certezza assoluta e definitiva, che, facendo venir meno uno degli elementi caratteristici della condizione — la probabilità del verificarsi dell'evento ponga fine alla pendenza (art. #1168# codice civ. del 1865). Così ad es. nel caso di condizione potestativa negativa, questa è da ritenere sempre verificata con la morte della parte che si sarebbe dovuta astenere dal compiere un determinato atto.

Se la certezza che l'evento non si verificherà si raggiunge prima della scadenza del termine fissato, è chiaro che la condizione negativa dovrà ritenersi verificata, senza bisogno di attendere la decorrenza del termine (art. cit.).
4) Se la condizione è alternativa, essa dovrà ritenersi verificata quando l'uno o l'altro dei fatti previsti si sia avverato secondo le regole precedenti.
5) Se invece essa è divisibile, si dirà verificata quando l'evento sia seguito anche in parte;
6) mentre occorre che l'evento si verifichi in toto, se la condizione è indivisibile;
7) infine qualsiasi condizione affermativa, si deve ritenere avverata, quando indipendentemente dal suo concreto avveramento, si sia raggiunta la certezza che l'evento dovrà necessariamente verificarsi. La ragione è la medesima già messa in evidenza sub 3).


Avveramento per equipollente

Accanto all'avveramento reale, si suole parlare anche di un avvenimento per equipollente, cioè non in forma specifica, ma basato su fatti equivalenti a quello previsto.

Tale principio si è ricavato dall'art. #1166# codice civ. del 1865, che non è stato riprodotto nel nuovo codice, secondo cui «Qualunque condizione deve essere adempiuta nel modo verisimilmente voluto ed inteso dalle parti». In base a questa norma si è affermato che, qualora risalendo alla volontà negoziale, si possa concludere che, secondo questa, non sia necessario che l'evento previsto, si verifichi in tutte le singole circostanze o modalità indicate, possa farsi luogo all'avveramento per equipollenti.

Ma come è stato ben rilevato, in tali casi si tratta di una semplice questione di interpretazione, diretta ad accertare la vera entità della volontà delle parti, e cioè il vero significato della clausola condizionale ed individuare la vera essenza del fatto dedotto in condizione. Più che di una finzione di avveramento, come normalmente è inteso il cosiddetto avveramento per equipollente, si avrebbe invece un normale caso di avveramento reale.

Ad ogni modo, la questione del cosiddetto avveramento per equipollenti si suole agitare particolarmente a proposito delle condizioni potestative e delle miste, per i casi in cui il soggetto che deve mettere in essere il fatto volontario previsto, abbia compiuto tutto quanto era in suo potere, ma non abbia potuto concretare l'evento voluto per circostanze fortuite o per forza maggiore, ovvero per la mancata cooperazione del terzo.

Una parte della dottrina ha deciso la questione distinguendo il testamento dai negozi tra vivi, e affermando che rispetto al primo, nella ipotesi suindicata possa ritenersi avverata la condizione, non ostante il mancato avveramento del fatto specifico previsto.

Ciò non varrebbe invece per i negozi tra vivi. La distinzione tuttavia viene giustamente criticata e, nel silenzio della legge, si ritiene che debba indagarsi caso per caso, per decidere sempre secondo la vera intenzione delle parti, in modo cioè da affermare l'avveramento della condizione, se, come tale, più che il fatto specifico indicato si sia voluto aver di mira il comportamento del soggetto tendente a mettere in essere quel fatto stesso; il mancato avveramento invece nell'ipotesi in cui si sia voluto il fatto specifico.


Finzione di avveramento

Un vero e proprio caso di avveramento per equipollenti si riteneva previsto dall'art. #1169# codice civ. del 1865, secondo cui «la condizione si ha per adempiuta, quando lo stesso debitore obbligato sotto condizione, ne abbia impedito l'adempimento». Più che di un avveramento per equipollenti nel senso sopra indicato, si ha tuttavia in questa ipotesi una vera e propria finzione di avveramento, la quale sostanzialmente rappresenta una sanzione per il comportamento della parte, che ha impedito il libero corso della pendenza, pregiudicando la legittima attesa dell'altra parte.

L'art. 1169 cit. dava luogo a due questioni:
1) se cioè in ogni caso la finzione di avveramento dovesse aver luogo nei confronti del solo debitore, ovvero anche nei confronti del creditore, che avesse impedito l'avverarsi della condizione;
2) se il fatto impeditivo della condizione dovesse essere doloso ovvero bastasse che fosse colposo.

La prima questione veniva risoluta nel senso che normalmente la finzione di avveramento riguardasse il comportamento del debitore, ma eccezionalmente potesse estendersi anche a colpire il comportamento del creditore, qualora l'impedimento della condizione da parte di questo si risolvesse nell'impedimento della produzione di un effetto favorevole per il debitore, per un miglioramento della situazione di questo.

Per quanto riguarda la seconda questione, la dottrina e la giurisprudenza oscillano tra l'una e l'altra soluzione, ma in complesso può dirsi prevalente la prima, che richiede nel comportamento impeditivo della condizione la presenza del dolo.

L'art. 1359 nuovo cod. adopera una formula più ampia di quella del corrispondente art. 1169 cit. affermando che la condizione si considera come avverata «qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa».

Di tale disposizione tuttavia possono darsi due interpretazioni:
1) che cioè la finzione di avveramento si applichi quando impedimento della condizione dipenda dal fatto di colui a cui sfavore si verificherebbe la condizione;
2) che essa tenda a colpire l'ingerenza dell'una o dell'altra parte, purché agente in base ad un interesse contrario all'avveramento della condizione.

La relazione (n. 620), nell'esporre le ragioni giustificative dell'articolo 1359, fa apparire la norma come un completamento del precedente art. 1358, che, come si è visto, determina la posizione del soggetto passivo del rapporto di aspettativa, del soggetto cioè a cui sfavore si verifica la condizione, rilevando come il dovere di comportarsi in buona fede per non pregiudicare le ragioni dell'altra parte importi quello di non «ostacolare il libero svolgimento del fatto da cui dipende l'efficacia o la risoluzione del contratto».

Da questo punto di vista la sanzione dell'art. 1359 sembrerebbe colpire il comportamento di uno solo dei soggetti del rapporto, per quanto non il «debitore» — secondo l'equivoca espressione dell'articolo #1169# codice civ. del 1865 — ma il soggetto passivo del rapporto di aspettativa è cioè, a seconda dei casi, colui che ha assunto un'obbligazione o ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero colui che ha acquistato un diritto sotto condizione risolutiva (cfr. articolo 1358).

Ma se si pensa che il corso della pendenza deve essere in ogni caso libero da qualsiasi ingerenza delle parti, la limitazione suddetta appare ingiustificata e deve riconoscersi che la finzione di avveramento opera nei confronti di entrambe le parti.

Per quanto riguarda i caratteri del comportamento, che dà luogo alla finzione di avveramento, la tesi secondo cui basta che l'impedimento della condizione sia dovuto a semplice colpa di una delle parti, non sembra ammissibile di fronte alla formula adottata dall'art. 1359 che richiede «un interesse contrario all'avveramento della condizione».

Tale presupposto implica logicamente la necessità del dolo. La relazione (n. cit.) conferma implicitamente questa conclusione, quando configura l'impedimento della condizione come una violazione dell'obbligo di comportamento in buona fede posto dall'art. 1358.

Può dirsi tuttavia che il dolo possa presumersi quando l'impedimento dipende dalla parte a cui sfavore la condizione si sarebbe verificata, perché questa si trova già in una situazione oggettiva di interesse contrario all'avveramento della condizione. Ma ciò non toglie che anche l'altra parte possa, in concreto, avere un interesse contrario a tale fatto e che basti la dimostrazione di questo per caratterizzare come doloso l'impedimento della condizione.

Il codice non prevede l'ipotesi contraria dell'adempimento della condizione per fatto dell'interessato. Spiega la relazione (n. cit.) che «non è contemplata tale ipotesi per applicarsi una sanzione, perché non può dirsi a priori che sia normalmente illecito simile comportamento: potrà dipendere dalle circostanze».

E’ tuttavia opinione comune che l'illiceità debba ritenersi, quando il comportamento della parte sia per sè illecito, o, per essere più precisi, quando la condizione si avveri attraverso un atto illecito della parte, per es. collusione col terzo, il cui fatto sia stato dedotto in condizione, o attraverso una violazione dei patti negoziali.

In una ipotesi del genere, la sanzione, com'è ovvio, è quella della finzione di mancato avveramento. Essa non ha invece ragione di essere quando i1 favorire l'avveramento della condizione si profili come un fatto lecito.


Effetti dell’avveramento della condizione: retroattività

Quali siano in generale gli effetti dell'avveramento della condizione, si è già avuto più volte occasione di accennare. L'art. #1170# codice civ. del 1865 stabiliva che tali effetti retroagivano al giorno in cui fu contratta l'obbligazione. Onde la retroattività degli effetti veniva, di solito, considerata come un carattere essenziale della condizione.

Tuttavia si era dovuto constatare che tale carattere non aveva senso rispetto a certe specie di rapporti (in particolare quelli con prestazioni continuative). E, d'altra parte, si era finito con l'ammettere che alla regola della retroattività potessero i soggetti del negozio di volta in volta derogare, o escludendo del tutto la retroattività stessa, ovvero stabilendo che gli effetti dell'avveramento della condizione retroagissero a momento diverso da quello stabilito come normale dal citato art. #1170#.

In tal modo la retroattività della condizione, più che un carattere normale di questa, appariva come un semplice elemento naturale, che poteva accompagnare la condizione, in quanto non fosse escluso dalla natura del rapporto ovvero dalla volontà delle parti.

II nuovo codice ha acceduto a questo punto di vista (v. Rel. n. 621) e l'art. 1360, corrispondente all'art. #1170# codice civ. del 1865, ha sancito la normale retroattività della condizione al tempo della conclusione del contratto salvo che per volontà delle parti o per la natura del rapporto gli effetti del contratto o della risoluzione non debbano essere riportati a un momento diverso.

Normalmente pertanto si ha che:
1) verificatasi la condizione sospensiva, i1 rapporto tipico si instaura come se si fosse prodotto immediatamente al momento in cui negozio causale è venuto ad esistenza;
2) verificatasi la condizione risolutiva, gli effetti prodottisi immediatamente al momento della conclusione del contratto, si risolvono e vengono considerati come mai prodottisi.


Significato pratico della retroattività

Occorre adesso esaminare quale sia il significato pratico della retroattività della condizione, sospensiva e risolutiva, rispetto alle singole categorie di negozi e, quindi, di rapporti che dalla stessa dipendono.

La logica della retroattività vorrebbe che il periodo della pendenza fosse completamente cancellato, come se non fosse mai esistito. Ciò tuttavia non sempre avviene in pratica, perché da una parte durante la pendenza si verificano dei fatti che storicamente non si possono eliminare, e perché, d'altra parte, la stessa legge pone al rigore della retroattività dei limiti o addirittura delle deroghe, che finiscono in qualche caso col negarla.

La retroattività della condizione è, perciò, un concetto meramente relativo, che trova applicazione in pieno in certe ipotesi; non ha invece significato in altre.

Due punti in particolare sono degni di considerazione:
1) la soggezione al rischio della pendenza;
2) la sorte degli atti di disposizione compiuti da parte del soggetto passivo del rapporto di aspettativa, che, durante la pendenza, è stato titolare del diritto oggetto della negoziazione e ne ha perciò avuto l'esercizio.

Ora, mentre per quest'ultimo punto, la retroattività agisce uniformemente in tutti i casi, non altrettanto può dirsi rispetto al primo.


Rischio della pendenza

Con una norma apparentemente generica, ma che in realtà doveva essere messa in relazione con l'art. #1125# e, perciò, trovava applicazione soltanto nei negozi di alienazione, l'art. #1163#, 1° cpv. codice civ. del 1865 stabiliva che, in caso di condizione sospensiva, qualora durante la pendenza la cosa fosse perita interamente senza colpa del debitore (alienante), l'obbligazione si sarebbe dovuta intendere come non contratta.

Il rischio della cosa durante la pendenza faceva quindi in tal modo interamente carico all'alienante, sebbene per effetto della retroattività della condizione, il diritto di proprietà della cosa perita dovesse passare all'acquirente sin dal momento anteriore al perimento, cioè dalla conclusione del contratto (art. #1125#), e, secondo i principi generali, il perimento dovesse logicamente far carico all'acquirente stesso (res perit emptori).

In tal caso pertanto l'effetto della retroattività della condizione poteva dirsi nullo.

Diversamente invece il terzo capoverso dello stesso articolo disponeva per la perdita parziale della cosa senza colpa del debitore (alienante), perdita che accollava al creditore senza diminuzione del valore della controprestazione. Qui dunque la retroattività della condizione agiva in pieno, così come nei casi di perdita totale o parziale per colpa del debitore (art. #1163#, II e IV cpv.).
Per quanto tale diversità di trattamento potesse sembrare illogica, vi era una disposizione di legge esplicita, che poneva in un caso una eccezione ai principi normali della retroattività e non poteva che prendersene atto.

Nel capo relativo alla condizione nel contratto, il nuovo codice nulla ha disposto a proposito del rischio della pendenza. All'art. 1465 ult. cpv. tuttavia ha stabilito, sempre a proposito dei contratti traslativi o costitutivi della proprietà o di altri diritti reali, «che l'acquirente è in ogni caso liberato dalla sua obbligazione se il trasferimento era sottoposto a condizione sospensiva e l'impossibilità è sopravvenuta prima che si verifichi la condizione».

Indubbio anzitutto che, parlando di impossibilità, in questo caso la norma faccia riferimento al perimento totale dell'oggetto, perché appunto questa ipotesi è contemplata in tutti i casi regolati nei capoversi precedenti.

La norma dell'art. #1163#, I° comma codice civ. del 1865, ha trovato quindi accoglimento anche nel nuovo codice. Le ragioni addotte nella relazione (n. 664) per giustificare tale accoglimento sono per altro assai poco convincenti. Si dice infatti in essa: «il rischio è accollato all'alienante per tutto il tempo della pendenza... nel riflesso che al momento in cui si verifica la condizione e il contratto acquista efficacia, manca l'oggetto e il contratto è nullo». «L'ipotesi qui contemplata è il rovescio di quella dell'art. 1347».

Ora è anzitutto da osservare che le ipotesi degli articoli 1465 ult. cpv. e 1347, proprio in quanto opposte, non possono essere riaccostate.

Nell'ultima, come si è visto (sopra, n. 8), si ha una eccezione non al principio della retroattività, come vuole la relazione (n. 664), ma alla norma che fa elemento essenziale del contratto un oggetto attualmente possibile, e tale eccezione vale per l'ipotesi di condizione sospensiva e di termine a quo, per evidenti ragioni di analogia, essendo, in entrambi i casi, differito l'intervento degli effetti del negozio. Per l'art. 1465, invece, quanto vale per l'impossibilita sopravvenuta prima dell'avveramento della condizione sospensiva, non vale per il caso che l'effetto traslativo del negozio sia differito sino allo scadere di un termine, quasi che tale clausola non rappresentasse una deroga al principio posto dall'art. 1376 che sancisce l'immediata efficacia reale dei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà, o la costituzione oil trasferimento di altro diritto reale, per i quali quindi trova applicazione in generale il principio res perit emptori, mentre le ragioni addotte nella relazione per giustificare il primo caso, sarebbero valide anche per l'altro.

Ad ogni modo sono appunto tali ragioni che non convincono. Non si può infatti affermare che il negozio è nullo perché al momento in cui si verificano i suoi effetti non esiste l'oggetto. Sulla validità del negozio tale fatto non potrebbe mai influire, bensì sulla eventuale estinzione o risoluzione del rapporto conseguenziale. Ed a evitare l'una, e l'altra sarebbe intervenuta appunto la retroattività della condizione, che avrebbe messo in evidenza quell'innegabile carattere di aleatorietà insito nel concetto di negozio condizionato, carattere che, tuttavia, avrebbe potuto essere anche limitato o escluso dalle parti attraverso la espressa esclusione della retroattività.

Non resta quindi che continuare a considerare la norma dell'articolo 1465 ult. cpv., al pari di quella corrispondente del vecchio codice, come una anomalia. Essa è tuttavia prevista per l'ipotesi di perimento totale della cosa. Per quanto invece riguarda il perimento parziale o il deterioramento della stessa, nel silenzio della legge deve applicarsi in pieno in principio della retroattività: l'acquirente quindi subisce il rischio senza poter pretendere una diminuzione della sua controprestazione o l'eventuale risoluzione del rapporto non trovando applicazione nei suoi confronti per effetto dell’art. 1376, la norma dell'articolo 1464, relativa alla impossibilità parziale sopravvenuta, che non si riferisce al negozio di alienazione della proprietà o di altro diritto reale.

Naturalmente quanto su esposto vale per l'impossibilità (totale o parziale) non derivante da colpa del soggetto passivo. Se colpa vi sia, si applicano i principi generali della risoluzione per inadempimento (art. 1453 nuovo cod., #1163#, 2 ° e #40# cpv. codice civ. del 1865).

Per quanto riguarda l'ipotesi di condizione risolutiva, ci si può domandare se l'eccezione al principio della retroattività prevista dall'art. 1465 ult. cpv., si applichi anche a favore dell'alienante sotto condizione risolutiva. Il fatto che la posizione di questo, per molti rispetti, può essere accomunata a quella dell'acquirente sotto condizione sospensiva, dovrebbe far propendere per la soluzione affermativa perito quindi l'oggetto del trasferimento durante la pendenza, tale fatto dovrebbe far carico, verificatasi la condizione, all'acquirente e l'alienante dovrebbe ritenersi liberato. Ma l'aver l'art. 1465 ult. cpv. previsto soltanto l'ipotesi di un acquisto sotto condizione sospensiva e non quella più generale di un trasferimento sotto condizione induce a credere che per l'ipotesi in esame la retroattività esplichi i suoi effetti normali. Il perimento fortuito durante la pendenza, sia esso totale o parziale, in caso di avveramento della condizione risolutiva, farà quindi carico all'alienante, che sarà tenuto a restituire il corrispettivo all'altra parte.

Per gli altri rapporti obbligatori, nell'ipotesi di impossibilità fortuita totale o parziale della prestazione del soggetto passivo sopravvenuta in pendenza della condizione sospensiva, si applicano le disposizioni generali degli articoli 1256, 1258 e 1463, 1464. Poiché infatti la retroattività della condizione farà apparire il rapporto come instaurato prima del momento in cui si è verificata la impossibilità totale o parziale della prestazione del soggetto passivo, non vi sarebbe ragione per derogare alla disciplina normale. La regola è quindi che mentre per i rapporti unilaterali e il soggetto attivo che subisce il rischio, per quelli bilaterali esso fa carico al soggetto passivo, mentre il soggetto attivo è eventualmente liberato se l'impossibilità della prestazione del soggetto passivo sia totale; può invece chiedere una congrua diminuzione della controprestazione se l'impossibilità sia parziale, ovvero la risoluzione del rapporto se non abbia più interesse al mantenimento dello stesso.

Lo stesso avviene sostanzialmente nel caso di condizione risolutiva, salvo che qui il rischio viene subito dal creditore, che è il sog-getto passivo del rapporto di aspettativa, e per effetto dell'avveramento della condizione è tenuto a restituire, e se non può restituire l'oggetto della prestazione ricevuta, deve l'equivalente.


Sorte degli atti di disposizione compiuti durante la pendenza

Con l'avveramento della condizione gli atti di disposizione dell'oggetto del rapporto condizionato, compiuti durante la pendenza dal soggetto passivo (debitore o alienante sotto condizione sospensiva, creditore o acquirente sotto condizione risolutiva) si risolvono, come normale conseguenza della retroattività della condizione, che li fa apparire come compiuti da chi non poteva disporre sul diritto, in quanto non titolare del medesimo. Posta la retroattività della condizione, la norma dell'art. 1357, già esaminata, è superflua. Essa invece, come si dirà, esplica una importante funzione nell'ipotesi in cui la condizione non sia retroattiva.

Il trasferimento del diritto di aspettativa da parte del soggetto attivo (acquirente o creditore sotto condizione sospensiva, alienante o debitore sotto condizione risolutiva) produce invece a favore del nuovo titolare, in seguito all'avveramento della condizione, l'acquisto del diritto oggetto del rapporto condizionato, perché il nuovo titolare assume nel rapporto la posizione del suo dante causa. Questo concetto suole esprimersi affermando che gli atti di disposizione sull'oggetto del rapporto condizionale compiuti dal soggetto attivo, in virtù dell'avveramento della condizione, si consolidano, poiché la retroattività della condizione fa apparire il disponente come titolare ab origine del diritto trasmesso.
E’ bene tuttavia tener presente che il soggetto attivo del rapporto di aspettativa non può compiere alcun atto di disposizione sull'oggetto sul quale egli non ha alcun diritto (sopra n. 7), ma può soltanto disporre della sua aspettativa e quindi della eventualità del suo diritto sull'oggetto, creando nel nuovo titolare il presupposto per l'eventuale acquisto del diritto dipendente dalla condizione.

La retroattività della condizione non si riflette quindi sulla efficacia dell'atto di disposizione del titolare del diritto di aspettativa; ma opera soltanto in quanto fa apparire il nuovo titolare della aspettativa come acquirente del diritto ab origine, così come apparirebbe il soggetto attivo originario del rapporto.


Limiti generali alla retroattività della condizione

A parte i limiti derivanti alla normale retroattività della condizione dalla natura del rapporto o dalla volontà delle parti, due aspetti del rapporto di aspettativa di fronte ai quali normalmente si arresta la retroattività, della condizione, sono specificati dall'art. 1361 del nuovo codice che non aveva corrispondenti nel codice civile del 1865.

A) Rispetto agli atti di amministrazione compiuti dal soggetto passivo del rapporto di aspettativa
Il primo punto riguarda gli atti di amministrazione compiuti dalla parte a cui, in pendenza della condizione, spettava l'esercizio del diritto oggetto del rapporto, in altri termini del soggetto passivo di questo (alienante o debitore sotto condizione sospensiva; acquirente o creditore condizione risolutiva).

In quanto questi atti, come afferma la relazione (n. 621) «attuano il diritto condizionato sono da ritenere validamente compiuti» e non vengono distrutti dalla retroattività della condizione (art. 1361 prima parte).

Perché si applichi tale norma occorre tuttavia che si tratti di atti di gestione ordinaria, che sostanzialmente rappresentano una espressione dell'adempimento dell'obbligo di cui all'art. 1358, atti di conservazione della cosa e del suo valore, che ad ogni modo non importino limitazioni all'eventuale facoltà di disposizione del futuro titolare del diritto.

Da questo punto di vista ad esempio non potrebbe ritenersi immune dagli effetti della retroattività un eventuale deposito vincolato della somma pattuita.

B) Rispetto alla restituzione dei frutti da parte del soggetto passivo del rapporto di aspettativa.
Così come la questione della validità degli atti di amministrazione compiuti dal soggetto passivo durante la pendenza, era questione controversa sotto il vecchio codice, anche quella relativa all'obbligo dello stesso soggetto di restituire, dopo l'avveramento della condizione, i frutti percepiti durante la pendenza stessa, nella quale egli aveva l'esercizio e quindi il godimento del diritto.

Anche in proposito la dottrina distingueva l'ipotesi di condizione sospensiva da quella di condizione risolutiva, e, mentre affermava essere dovuta nella prima la restituzione dei frutti, anche percetti, da parte dell'alienante, salva corresponsione degli interessi sul prezzo da parte dell'acquirente, negava invece che tale restituzione, e relativa corresponsione, avesse luogo nella seconda ipotesi, rispettivamente da parte dell'acquirente e dell'alienante.

Una parte della dottrina invece affermava questa ultima tesi per entrambe le ipotesi, particolarmente nei negozi giuridici onerosi, giustificandola, in tali casi, come una compensazione tra il godimento dei frutti della cosa e il mancato godimento della somma o dell'altra cosa dovuta come corrispettivo; e negli altri casi o in base alla presunta intenzione delle parti o con l'affermata impossibilità di considerare come non avvenuto il possesso.

Il nuovo codice ha troncato la questione e, accogliendo il principio che «il godimento dei frutti, nei contratti a titolo oneroso compensa il mancato godimento del corrispettivo dovuto per tutto il tempo anteriore all'avverarsi della condizione»; e che «per i contratti gratuiti l'obbligo di restituire i frutti contrasterebbe con i limiti normali della liberalità o con lo scopo che essa intende realizzare» (relaz. n. 621), ha stabilito in via generale all'art. 1361 cpv. che «i frutti percepiti sono dovuti dal giorno in cui la condizione si è avverata», a meno che, tuttavia, le parti non abbiano stabilito altrimenti ovvero la legge non disponga diversamente.

L'obbligato alla restituzione in conseguenza dell'avveramento della condizione viene dunque trattato come un possessore di buona fede (cfr. art. 1148).


Spostamento ed esclusione della retroattività: A) Spostamento della retroattività; B) Esclusione della retroattività

Come già si è visto, la retroattività rappresenta un carattere normale non essenziale della condizione.

Ad esso possono essere apportati due ordini di limitazioni:
1) in quanto la condizione venga fatta retroagire a un momento diverso da quello normale, e cioè da quello della conclusione del negozio;
2) in quanto la retroattività sia del tutto esclusa.

Queste limitazioni possono dipendere dalla volontà delle parti ovvero dalla natura del negozio (art. 1360 e relaz. n. 621).

A) Spostamento della retroattività
La retroattività ad un momento diverso da quello normale, non altera sostanzialmente la funzione della condizione sospensiva o risolutiva. Essa significa che il negozio condizionato contiene, oltre la condizione, un termine rispettivamente a quo ovvero ad quem.

a) Se la presenza di questo non influisce sul rapporto di aspettativa può però, in qualche caso, notevolmente influire sulla soggezione al rischio della pendenza.

Ciò avviene ad esempio nelle ipotesi in cui il soggetto a favore del quale si verifica la condizione, per effetto della retroattività di questa dovrebbe subire il rischio della pendenza; e cioè, come si è visto, nelle ipotesi di perdita totale o parziale dell'oggetto nei confronti dell'alienante sotto condizione risolutiva; e nell'ipotesi di perimento parziale nei confronti dell'acquirente sotto condizione sospensiva.

Sebbene infatti la pendenza cominci a correre dal momento della conclusione del contratto, il soggetto al cui favore si verifica la condizione nelle ipotesi su accennate, ne sopporterà i rischi soltanto a partire dal momento al quale retroagisce la condizione stessa.

Ciò si spiega nell'ultima delle due ipotesi accennate, perché soltanto dal momento al quale retroagisce la condizione sospensiva l'acquirente può considerarsi titolare del diritto. Se quindi il deterioramento o la perdita parziale dell'oggetto è avvenuto prima di tale momento, a favore dell'acquirente si applica l'art. 1464: egli cioè può chiedere una diminuzione della propria controprestazione o lo scioglimento del rapporto se non abbia più interesse apprezzabile al mantenimento dello stesso.

Nell'ipotesi di spostamento della condizione risolutiva, la soggezione al rischio della pendenza da parte dell'acquirente, in vece che dell'alienante, relativamente alla perdita totale o parziale dell'oggetto avvenuta prima del momento al quale retroagisce la condizione, è conseguenza implicita del fatto che, poiché la retroattività non copre tutta la pendenza, per una frazione di questa resta impregiudicata la posizione dell'acquirente, che, perciò, come mantiene i vantaggi, così subisce il periculum.

Pertanto se la cosa è perita interamente nel periodo suddetto, il perimento farà carico all'acquirente che non potrà ripetere la controprestazione (arg. ex art. 1463); e se il perimento è parziale, l'alienante potrà ottenere una congrua diminuzione nella restituzione della controprestazione (arg. ex art. 1464).

b) potrebbe dubitarsi che lo spostamento della retroattività della condizione ad un momento diverso da quello della conclusione del contratto, possa modificare quanto vale in genere circa l'efficacia degli atti di disposizione compiuti dal soggetto passivo durante la pendenza, in modo che, ad esempio, se il soggetto passivo tra la conclusione del negozio e il momento a cui deve retroagire la condizione, disponga del diritto a favore di un terzo, l'atto di disposizione, verificata la condizione sia pienamente valido ed efficace perche non raggiunto dalla retroattività della condizione.

Sostanzialmente in tal caso il soggetto passivo avrebbe violato l'obbligo di cui all'art. 1358 e sarebbe tenuto al risarcimento del danno verso l'altra parte.

Con il nuovo codice, tale conclusione, logica secondo il codice abrogato, viene esclusa dall'art. 1357 che, come si è visto, impone agli atti di disposizione, compiuti durante la pendenza, la stessa condizione che accompagna il diritto oggetto della disposizione. Tale norma integra sotto questo aspetto, l'insufficienza della retroattività della condizione a fa sì che, a qualunque momento retroagisca la condizione, gli atti di disposizione compiuti durante la pendenza non possano portare pregiudizio all'aspettativa del soggetto attivo.

B) Esclusione della retroattività
a) L'esclusione della retroattività della condizione importa che gli effetti dell'avveramento di questa (nascita o caduta del rapporto conseguenziale tipico) si producano non ex tunc, ma ex nunc.

Perciò l'esclusione della retroattività pone in ogni caso a carico della parte che durante la pendenza ha avuto l'esercizio del diritto, tutti i rischi della pendenza stessa. Da questo punto di vista anche la norma dell'art. 1465 ult. capoverso cessa di essere una anomalia. Posta poi la irretroattività della condizione, il soggetto che durante la pendenza ha avuto l'esercizio del diritto e che, per effetto dell'avveramento della condizione, lo perde automaticamente, fa suoi non solo i frutti percepiti a norma dell'art. 1361 capoverso, ma anche quelli maturati, pur se non percepiti al momento in cui si verifica l'evento condizionante, poiché tale fatto lascia sostanzialmente integro il pieno godimento esercitato durante la pendenza (arg. ex art. 984).

L'irretroattività della condizione non ha invece alcuna influenza sugli atti di disposizione compiuti durante la pendenza, per i quali vale sempre la regola dell'art. 1357, che opera, come si è detto, indipendentemente dalla retroattività o meno della condizione.

b) come già si è detto, la mancanza di retroattività della condizione non influisce sulla funzione della condizione sospensiva. Essa invece modifica quella della condizione normalmente risolutiva, dando a questa carattere di fatto meramente estintivo.

La condizione estintiva — che può dar luogo ad una interessante serie di questioni — deve essere ben distinta da quella risolutiva vera e propria, perché, mentre questa cancella (salvi i limiti accennati) il rapporto tipico immediatamente prodottosi, la prima invece lo fa cessare, e, in tanto, opera come un termine finale, lasciando perciò integri gli effetti prodottisi nel frattempo.

La differenza tra condizione risolutiva e estintiva si coglie facilmente in tutti i casi di rapporti a carattere continuativo o periodico. Per questi è espressamente previsto dall'art. 1360 capoverso che l'avveramento della condizione «risolutiva» se le parti non hanno espressamente disposto diversamente, non tocca le prestazioni già eseguite. Essa pertanto fa cessare il rapporto per l'avvenire, in altri termini, lo estingue.

In altri casi è la stessa natura del rapporto (art. 1360, I parte) che, rendendo praticamente impossibile la retroattività della condizione, dà a questa funzione di fatto semplicemente estintivo. Ciò vale ad esempio in caso di costituzione di diritti reali di godimento, per i quali una vera e propria risoluzione con effetto retroattivo sarebbe inconcepibile, in quanto non potrebbero essere annullati gli effetti del godimento stesso, che si esauriscono con ogni singolo atto di godimento.

Lo stesso è a dire, tra l'altro, per la locazione, che del resto rientra nel novero dei rapporti previsti dall'art. 1360 capoverso, e per altri rapporti in cui le prestazioni una volta eseguite si consumano e non potrebbero perciò essere restituite (ad esempio prestazione di servizi).

c) Una situazione tutta particolare si può avere qualora sia esclusa (per volontà delle parti) la retroattività della condizione risolutiva apposta ad un negozio di alienazione. Qui infatti si producono contemporaneamente gli effetti della condizione risolutiva e quelli della estintiva. Da un lato infatti si ha il riacquisto della titolarità del diritto da parte dell'alienante, dall'altro però, poiché questo fatto si verifica non ex tunc, ma ex nunc, avviene che il godimento della res da parte dell'acquirente non può essere cancellato: l'acquirente è bensì soggetto al rischio della pendenza, ma fa suoi gli incrementi della cosa e i frutti maturati sino all'avveramento della condizione. In questo momento egli deve restituire la cosa non come si trova ma come si trovava al momento in cui l'ha ricevuta: deve quindi integrarne il valore se questo è diminuito nel frattempo anche fortuitamente e corrisponderne il valore intero se la cosa è perita totalmente.

d) Si afferma anche che la irretroattività della condizione possa derivare oltre che dalla natura del rapporto, anche da quella della condizione stessa. Ciò, per esempio, avverrebbe a proposito della condizione potestativa. E’ bene tuttavia ricordare che qualora si tratti di condizione meramente potestativa a parte debitoris, non è questione di retroattività o meno della condizione, perché il negozio non esiste. Per tutti gli altri casi, poiché la legge non fa un trattamento speciale alla condizione potestativa essa cade sotto la regola generale dell'art. 1360 ha perciò efficacia retroattiva, a meno che questa sia esclusa dalla volontà delle parti, ovvero dalla natura del rapporto.


Prova dell’avveramento della condizione

La prova dell'avveramento della condizione deve essere data, in generale, da chi su tale fatto fonda la sua richiesta, in conformità ai principi generali sull'onere della prova: e cioè dal creditore o acquirente sotto condizione sospensiva, ovvero dal debitore o alienante sotto condizione risolutiva o estintiva.

Nel caso di condizione negativa, l'onere della prova del suo avveramento subisce però uno spostamento, perché, sebbene chi allega l'avveramento stesso affermi in apparenza un fatto positivo, in realtà, tale fatto si esaurisce nella negazione dell'intervento di una determinata circostanza o che l'onere della prova passa eventualmente sull’altra che eccepisca il mancato avveramento della condizione, proprio perché tale eccezione importa l'affermazione di un fatto positivo.

Trattandosi in ogni caso di provare un fatto esterno al negozio, la prova può essere data con tutti i mezzi, indipendentemente dalle limitazioni che possono invece colpire la prova della clausola condizionale.


Quando la condizione si dice mancata

Il nuovo codice non contiene alcuna norma che stabilisca quando la condizione si possa dire mancata, o regoli gli effetti del mancato avveramento. Entrambi i punti possono quindi essere definiti argomentando a contrario da quanto detto a proposito dell'avveramento della condizione.

Si dice che condicio de-est, quando l'evento condizionante non si verifica. Occorre anzitutto distinguere se vi sia o meno un termine entro cui la condizione debba verificarsi. Nel primo caso essa è mancata se il termine sia decorso inutilmente, nel secondo soltanto quando sia raggiunta l'assoluta certezza che il fatto dedotto in condizione non potrà verificarsi, come avviene ad esempio in tutti i casi di condizione potestativa, nel caso di morte della parte che avrebbe dovuto mettere in essere l'evento condizionante. Naturalmente se tale certezza si raggiungesse prima della scadenza del termine fissato per l'avveramento, la condizione sarebbe mancata anche prima di tale momento.

Occorre anche qui distinguere a seconda che si tratti di condizione affermativa o negativa. Quest'ultima è da ritenere mancata quando si sia verificato il fatto al cui non avveramento l'efficacia o la permanenza degli effetti del negozio erano subordinate, ovvero quando si sia raggiunta la certezza assoluta che il fatto stesso si verificherà necessariamente (articoli #1167#, #1168# cod. civ. del 1865).

Parlando della finzione di avveramento, si è già osservato che può esservi, sebbene non espressamente prevista, anche una finzione di mancato avveramento, la quale si ha quando l'evento si sia bensì verificato, ma attraverso il comportamento illecito della parte a cui favore avrebbe giuocato l'avveramento della condizione. Le ragioni che giustificano tale finzione sono analoghe a quelle che stanno a base dell'opposta finzione di avveramento.


Effetti del mancato avveramento

Se l'evento condizionante non si verifica, gli effetti del negozio con condizione sospensiva non si producono: il negozio diventa inutile e perciò irrilevante. Si dice comunemente che esso è come se non fosse mai stato messo in essere. Cessa il vincolo della pendenza e l'obbligato sotto condizione sospensiva riacquista la piena disponibilità del diritto: gli atti di disposizione da lui compiuti, nel frattempo, si purificano e producono tutti i loro effetti.

Nel caso di condizione risolutiva, gli effetti prodottisi immediatamente diventano definitivi: cessa ogni vincolo derivante dalla pendenza per l'acquirente e gli atti di disposizione da lui compiuti vengono definitivamente convalidati. Lo stesso vale qualora sia mancata la condizione meramente estintiva.

In tutti i casi i rischi della pendenza vengono subiti dal soggetto che, durante la medesima, è stato, e continua ad essere dopo il mancato avveramento della condizione, il titolare del diritto.

Prova del mancato avvera mento della condizione

In linea di massima, secondo i principi generali, chi poggia la sua domanda sul mancato avveramento della condizione, o eccepisce il medesimo, non deve dame la prova. Questa posizione assumerà, normalmente, il debitore o alienante sotto condizione sospensiva, ovvero il creditore o acquirente sotto condizione risolutiva. Spetterà all'altra parte la prova del contrario (avveramento della condizione). Fa eccezione anche qui il caso di affermazione o eccezione di mancato avveramento di condizione negativa, che si risolve nella affermazione di avveramento di un fatto positivo, di cui deve dare la prova chi da esso fa dipendere un effetto a proprio favore. Si tratta in sostanza di uno spostamento dell'onere della prova del tutto analogo a quello già visto sopra.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 1361 Codice Civile

Cass. civ. n. 26079/2005

In tema di riscatto agrario, posto che l'acquisto diretto da parte del retraente del fondo dal proprietario venditore č sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento del prezzo, consegue, in virtų dell'applicabilitā dell'art. 1361 c.c., che la maturazione di un credito per i frutti si determina solo al momento dell'avveramento di detta condizione sospensiva, in quanto all'acquirente spetta il diritto di compiere atti di amministrazione in pendenza del verificarsi della condizione stessa. Infatti, la mera dichiarazione di voler esercitare il riscatto non fa acquistare al retraente il diritto di entrare nel godimento del fondo oggetto della dichiarazione stessa o di farne propri i frutti, prima del pagamento del prezzo, con la conseguenza che, qualora in forza dell'atto di compravendita, l'acquirente sia stato immesso nel possesso del fondo, non esiste titolo, in capo al retraente, di pretendere, nei confronti dell'acquirente, i frutti da quest'ultimo raccolti in epoca anteriore al pagamento del prezzo.

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