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Lavoratore in pausa pranzo senza timbrare il cartellino, nuova sentenza di Cassazione: ecco l'errore da non commettere

Lavoro - -
Lavoratore in pausa pranzo senza timbrare il cartellino, nuova sentenza di Cassazione: ecco l'errore da non commettere
Dipendente pubblico non timbra il cartellino prima di andare in pausa pranzo: per la Cassazione è licenziabile
In Italia, si sa, esiste il mito del "posto fisso". Un tempo essere dipendente pubblico non era un lavoro così ambito, ma sempre più giovani ormai cercano di sfruttare le loro lauree per vincere concorsi e "sistemarsi per la vita".
Le motivazioni sono le solite: stabilità, stipendio fisso, pochi pensieri. È diffusissima la condizione che il dipendente pubblico faccia la "bella vita", ma in verità non è proprio così.
Su un piano della bilancia, troviamo infatti la stabilità economica e di contratto ma, sull'altro, vi sono regole e leggi a cui il dipendente pubblico deve attenersi, perché anche una distrazione può costargli il posto di lavoro.
Fondamentale, ad esempio, è timbrare il cartellino ogni qualvolta è necessario, anche e soprattutto quando si va in pausa pranzo.
Difatti, come recentemente affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 30418/2023, il lavoratore che va in pausa pranzo senza timbrare il cartellino è licenziabile.
La Corte, in particolare, è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso di una donna, collaboratrice amministrativa presso l’Istituto “A. Ghisleri” di Cremona, al quale, in data 4 aprile 2019, era stato irrogato dal MIUR il licenziamento disciplinare.
In particolare, alla lavoratrice era stato contestato che, nell'anno 2017, in cinque occasioni si era allontanata dall’istituto per tutta la durata della pausa pranzo, senza timbrare il badge, sia all'uscita che al rientro.
Il licenziamento era stato quindi impugnato dalla donna, risultata soccombente sia dinnanzi al Tribunale che alla Corte di Appello.

Come si legge nella predetta sentenza, in particolare, nel proprio ricorso, la lavoratrice affermava che la Corte d’Appello aveva applicato l’art. 55 quater, commi 1, lett. a), 1-bis e 3 del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Testo Unico sul pubblico impiego) e ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui è da escludere qualsiasi automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva, ma erroneamente non avrebbe considerato gli elementi diretti ad attenuare l’intensità dell’elemento soggettivo e la gravità del comportamento assunto dalla lavoratrice in relazione alla sanzione disciplinare comminata.

In particolare, secondo la lavoratrice, che evidenziava altresi che non vi era stata alcuna disfunzione del servizio lavorativo, non poteva ravvisarsi la gravità della condotta illecita che, ai sensi degli artt. 2106, 2119 e 1455 del Codice Civile, può consentire il licenziamento.
Ebbene, la Corte di Cassazione non ha accolto il ricorso della donna che, anche all'esito del terzo grado di giudizio, si è ritrovata soccombente. Dai giudici della Suprema Corte, il licenziamento è stato infatti considerato legittimo. Ma scopriamo il perché.
La Cassazione ha specificato che, in tale vicenda, viene in rilievo il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente”, ossia la mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata.
Ha quindi richiamato precedenti giurisprudenziali (Cass. n. 17367 del 2016 e Cass. n. 25750 del 2016), evidenziando che la Corte, nell’interpretare il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un'attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall'altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l'allontanamento dall'ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale.

Per quanto riguarda, invece, il comma 1 bis dell'art. 55 quater, introdotto con il decreto n. 116 del 2016, la Suprema Corte ha evidenziato che tale norma statuisce che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso.
I giudici di Roma hanno poi evidenziato come la giurisprudenza avesse già chiarito che, con l'art. 55 quater, il legislatore, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, ha introdotto e tipizzato alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi, ritenute idonee a fondare un licenziamento. La disposizione ha, dunque, introdotto una tipizzazione di illecito disciplinare da sanzionarsi con il licenziamento.
E, in particolare, il comma 1bis della predetta norma, non avrebbe una portata innovativa, ma soltanto di interpretazione chiarificatrice del concetto di "falsa attestazione di presenza".
Falsa attestazione, secondo la Cassazione, non è solo la alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche il non registrare le uscite interruttive del servizio.
Nell'irrogare la sanzione, va poi considerato l'elemento soggettivo, ossia l'intenzionalità o colpevolezza del comportamento, nonché l'adeguatezza e proporzionalità della sanzione.
La Suprema Corte ha condiviso quanto affermato dalla Corte di Appello.
In particolare, ha evidenziato che il CCNL, laddove afferma il diritto alla pausa pranzo, non esonera il dipendente dall’incombenza di effettuare la timbratura quando interrompe il servizio per usufruire della pausa pranzo e, in particolare, il CCNL relativo al comparto scuola per il quadriennio 2006-2009 ha previsto l’obbligo di rispettare l’orario di lavoro e di adempiere alle formalità previste per la rilevazione delle presenze e di non assentarsi dal luogo di lavoro senza l’autorizzazione del dirigente scolastico.
Infatti, nel caso di dimenticanza del badge bisognava segnalare tempestivamente la cosa al DGSA e, senza autorizzazione, il dipendente sarebbe stato considerato assente ingiustificato.
Per quanto riguarda il personale ATA dell'istituto coinvolto, risultava che fosse stato specificamente informato delle modalità di utilizzo del badge e dell’obbligo di procedere alla timbratura in ogni occasione di assenza dal luogo di lavoro per motivi personali.
Pertanto, la Corte d’Appello aveva affermato che le condotte tenute dalla lavoratrice non potevano essere giustificate o comunque valutate con minor rigore solo perché poste in essere in coincidenza dell’orario della pausa pranzo, atteso che era chiara a tutto il personale l’esistenza dell’obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo.
Pertanto, secondo la Cassazione, la Corte di Appello aveva correttamente effettuato l'esame degli elementi dedotti dalla lavoratrice, affermando che la condotta negligente della donna, reiterata e grave per le modalità di realizzazione, lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con l’amministrazione datrice di lavoro e giustifica la massima sanzione espulsiva.
Al riguardo, i giudici di Roma hanno evidenziato che tali deduzioni risultano coerenti con la giurisprudenza di legittimità, secondo cui la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro.
Sulla base di tutte queste considerazioni, la Cassazione ha quindi rigettato il ricorso della lavoratrice, confermando la legittimità del licenziamento.


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