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Licenziamento discriminatorio per una lavoratrice neomamma

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Licenziamento discriminatorio per una lavoratrice neomamma
E' illegittimo e discriminatorio il licenziamento se applicato ad una lavoratrice che al rientro della maternità rifiuta il trasferimento non giustificato da ragioni organizzative.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15435 del 26 luglio 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in tema licenziamento discriminatorio.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d'appello, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato la nullità "del trasferimento, delle sanzioni disciplinari e del licenziamento disposti nei confronti dell'appellante", con condanna della società datrice di lavoro alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.

La Corte d'appello, infatti, aveva rilevato "come le decisioni datoriali fossero riconducibili ad un disegno discriminatorio nei confronti di una lavoratrice madre", in quanto la donna, dopo un'astensione di un anno e quattro mesi per maternità, era stata trasferita in un altro punto vendita, a oltre 150 km di distanza, senza che la ditta necessitasse di una riduzione del personale.

Secondo la Corte, infatti, all'inizio dell'assenza per maternità, erano stati assunti altri due dipendenti e non sussistevano ragioni concrete che giustificassero il trasferimento.

Alla luce di tali elementi, dunque, la Corte era giunta alla conclusione che il trasferimento e il successivo licenziamento avessero assunto carattere discriminatorio, ai sensi dell'articolo. 40 del decreto legislativo n. 198 del 2006, "con la conseguenza che sarebbe spettato al datore di lavoro provare l'insussistenza della discriminazione".

Secondo la Corte d'appello, inoltre, "il rifiuto della lavoratrice colpita da discriminazione di riprendere l'attività lavorativa - condotta, questa, alla base delle sanzioni disciplinari e del licenziamento", doveva considerarsi "giustificato ai sensi dell'art. 1460 del c.c., valutati comparativamente i reciproci inadempimenti e la loro proporzionalità, alla stregua della funzione economico-sociale del contratto e la loro incidenza sugli interessi delle parti".

La società datrice di lavoro provvedeva a proporre ricorso in Cassazione, che, tuttavia, veniva rigettato.

Secondo la ricorrente, in particolare, il giudice di secondo grado avrebbe erroneamente ritenuto che non fossero state rispettate le norme dettate in tema di licenziamento giustificato e che la medesima avesse posto in essere un comportamento discriminatorio nei confronti della lavoratrice.

A dire della società ricorrente, infatti, in sede di trasferimento, erano state attribuite alla lavoratrice delle mansioni equivalenti a quelle svolte in precedenza ed era stata, altresì, provata "la sussistenza di comprovate ragioni organizzative, tecniche e produttive" alla base del trasferimento.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle argomentazioni svolte dalla società datrice di lavoro, osservando come la Corte d'appello avesse adeguatamente valutato gli elementi emersi in corso di giudizio, giungendo ad una conclusione che non poteva essere oggetto di censura.

Il giudice di secondo grado, infatti, aveva proceduto "in primo luogo, all'analisi o esame dei singoli elementi di fatto, che caratterizzano la vicenda, e alla considerazione della loro portata indiziante, per poi farne una valutazione complessiva e di sintesi, diretta a stabilire se essi fossero concordanti e se la loro combinazione fosse in grado di fornire una valida prova presuntiva".

La Cassazione, dunque, ribadiva come "spettasse al datore di lavoro provare, ai sensi dell'articolo. 40 cit., l'insussistenza della discriminazione, posto che tale conclusione è stata raggiunta sulla base della motivata ricognizione di elementi di fatto idonei a fondare, con i requisiti di legge, l'accertamento della sua esistenza".

Conseguentemente, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, condannando la medesima al pagamento delle spese processuali.


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