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Il concorso del commercialista nella dichiarazione fraudolente del cliente

Fisco - -
Il concorso del commercialista nella dichiarazione fraudolente del cliente
Per la Cassazione il commercialista può concorrere nel reato tributario del contribuente anche a titolo di dolo eventuale.
Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è previsto all’art. 2 della Legge sui reati tributari.
Tale fattispecie criminosa, in particolare, è integrata quando taluno, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. Il fatto, peraltro, si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria.
La pena prevista dal legislatore per tale reato è quella della reclusione da quattro a otto anni, che si riduce a quella della reclusione da un anno e mezzo a sei anni se l'ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 100.000.

Tanto chiarito in relazione alle linee essenziali del reato, è possibile porsi alcune domande ulteriori: solo il contribuente può essere colpevole di dichiarazione fraudolenta? Oppure è possibile ravvisare la responsabilità penale anche del commercialista che lo assiste? E, in tal caso, qual è l’intensità dell’elemento soggettivo che deve accertarsi in capo ad esso?

Di recente, tali questioni sono state affrontate dalla Corte di Cassazione, la quale ha fornito risposta alle suindicate domande ponendosi in linea di continuità con alcuni orientamenti già affermati nella giurisprudenza di legittimità.

In particolare, gli Ermellini si sono espressi favorevolmente circa
  • la configurabilità del concorso del commercialista ex art. 110 c.p.: la Suprema Corte ha richiamato a riguardo diversi precedenti giurisprudenziali (cfr., ex multis, Cass. c.d. Caldarelli n. 28158/2019 o Cass. c.d. Di Carlo n. 7384/20189) in base ai quali “risulta pacifica la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente, in generale, nei reati previsti dal D. lgs. 74/2000 e, più in particolare, nei reati connessi a dichiarazioni”. Il contributo del commercialista, infatti, è penalmente rilevante non solo quando rappresenta la condicio sine qua non dell’evento lesivo, ma anche quando si connoti semplicemente come “agevolatore”: affinchè il commercialista sia ritenuto concorrente nel reato del contribuente, dunque, è sufficiente che abbia posto in essere un comportamento che ne abbia rafforzato il proposito criminoso o agevolato l’opera, aumentando così le possibilità di produzione del reato;
  • la punibilità del commercialista per dolo eventuale: anche a tale proposito il Supremo Collegio si è posto in linea di continuità con alcuni importanti precedenti (si veda, ad esempio, Cass., n. 52411/2018), affermando che “il dolo richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti…è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte”. In particolare, sussiste dolo eventuale in capo al commercialista che, essendo a conoscenza di alcune anomalie relative alla contabilità di una società (quali, ad esempio, la presenza di numerose autofatture a il prelievo di ingenti somme di denaro), non segnali dette irregolarità ad Agenzie delle Entrate e Guardia di Finanza ma continui a prestare assistenza fiscale al cliente, per timore di perderlo.

Il caso di specie, in particolare, riguardava un commercialista imputato del reato di cui all’art. 2 Legge sui reati tributari per aver consentito al proprio cliente, in qualità di professionista e depositario delle scritture contabili, di indicare delle passività fittizie nelle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi e all’IVA, nonostante fosse consapevole dell’attività illecita.
Il Tribunale aveva condannato il commercialista e la Corte d’appello aveva poi confermato la sentenza.
L’imputato, pertanto, aveva proposto ricorso, evidenziando – con esclusivo riferimento agli aspetti che qui rilevano – di non esser stato a conoscenza della frode e dei propositi illeciti del proprio cliente e di non aver mai dubitato della genuinità della documentazione a questa prodotta. Per tali ragioni, secondo la prospettazione difensiva, la mancanza dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice avrebbe dovuto portare all’assoluzione dell’imputato.
Ritenendo infondate tali censure per le ragioni sopra riassunte, la Cassazione ha tuttavia rigettato il ricorso.


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