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Diritto penale -

L’incriminazione della parola “pericolosa” dalle origini alle prospettive "de iure condendo"

AUTORE:
ANNO ACCADEMICO: 2021
TIPOLOGIA: Tesi di Laurea Magistrale
ATENEO: Università degli Studi di Milano
FACOLTÀ: Giurisprudenza
ABSTRACT
La tesi analizza il difficile rapporto tra la libertà fondamentale di manifestazione del pensiero e le fattispecie incriminatrici previste dal nostro Codice Penale che intervengono per reprimere forme di pensiero ritenute pericolose.
Nel caso specifico dell’Ordinamento italiano, è stato esaminato come tale libertà sia destinata a collidere con i beni della personalità, quali l’onore, la reputazione, la riservatezza, e i contro-interessi dell’ordine pubblico e della dignità. Infatti, una limitazione della libertà di espressione può così essere giustificata solo in forza della tutela di tali ulteriori beni.
Dal punto di vista penalistico sono state esaminate le norme incriminatrici che reprimono particolari manifestazioni del pensiero ritenute pericolose in ragione delle conseguenze pregiudizievoli che da tale manifestazione possono sorgere.
I reati aventi per oggetto la parola pericolosa sono stati identificati come "reati di pericolo", in relazione ai quali la legislazione penale, sulla base di una prognosi di pericolosità in astratto e alla condizione che sia possibile rinvenire nelle fattispecie - di volta in volta considerate - elementi che permettano di ritenere sussistente l’attitudine offensiva della condotta illecita, dovrebbe intervenire per tutelare beni di rilievo costituzionale.
L’aspetto più problematico che è emerso riguarda il dibattito circa i limiti dell’intervento penale, in un settore in cui bisogna tener necessariamente conto dei suoi principi e del rischio di provocare indebite limitazioni della libertà di manifestazione del pensiero.
È stato possibile verificare come ogni fattispecie incriminatrice, avente ad oggetto la parola pericolosa, vada esaminata in relazione a tale libertà fondamentale.
Particolare attenzione è stata prestata al fenomeno dei discorsi e reati d’odio, basati ancora oggi su pregiudizi e stereotipi, per ragioni legate all’origine etnica o geografica, il credo religioso, e - più di recente - all’orientamento sessuale e all'identità di genere, dove la libertà di manifestazione del pensiero rischia di subire le più forti limitazioni. In tale ambito il maggior problema che è stato sollevato è dato dal fatto che il diritto penale non può mai intervenire per reprimere un semplice pensiero che, per quanto odioso e spregevole segno di intolleranza, rientra nei confini della libertà di manifestazione. Per contrastare realmente i discorsi d’odio, ed in particolare la discriminazione razziale, etnica, religiosa e omofobica, bisognerebbe sempre partire dalla consapevolezza che tali fenomeni non si manifestano solo in forme violente, ma si rivelano in modo sottile e subdolo, procedendo alla creazione di un clima culturale “ostile” all’eguaglianza. Ciò significa che se da un lato il ricorso allo strumento penale risulta assolutamente necessario per combattere tali fenomeni discriminatori e per garantire la tutela della pari dignità di ciascun individuo in uno Stato di diritto, dall’altro lato il suo utilizzo deve necessariamente essere accompagnato da misure di prevenzione e politiche di inclusione, idonee ad agire sul tessuto culturale e sociale, volte a prevenire la diffusione dell’odio e delle discriminazioni.

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