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Telecamere sul posto di lavoro: quando è reato?

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Telecamere sul posto di lavoro: quando è reato?
Il datore di lavoro può installare telecamere di videosorveglianza sul posto di lavoro senza commettere reato?
A questa domanda ha risposto recentemente la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 22148/17, pronunciandosi sui divieti posti dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori.

Nella sua formulazione originaria, l'articolo citato (poi modificato dall’art. 23 del D. lgs. N. 151 del 2015), al primo comma, stabiliva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Al secondo comma, invece, il divieto cadeva, soltanto a condizione che il datore avesse osservato quanto ivi tassativamente previsto, in quanto era stabilito che gli impianti e le apparecchiature di controllo “richieste da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro” potevano essere installati previo accordo con le Rappresentanze Sindacali presenti in Azienda (in mancanza delle quali non si poteva ricercare un accordo con una RSA di una qualsiasi altra unità produttiva della medesima azienda, ma il datore avrebbe potuto avanzare l’istanza direttamente all’Ispettorato provinciale del lavoro, che poteva eventualmente essere impugnata dalle associazioni sindacali individuate dall’art. 19 dello Statuto) o, in caso di mancato accordo, previa autorizzazione della DTL territorialmente competente.

Fino ad oggi, quindi, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario non prevedeva la configurazione del reato nel caso in cui il datore di lavoro si fosse preventivamente assicurato il consenso espresso di ciascun lavoratore operante all’interno dei luoghi di lavoro in cui fossero installate le videocamere.

Secondo la recente pronuncia della Corte, invero, da oggi l'unico requisito richiesto per la legittima installazione delle telecamere di videosorveglianza è proprio la presenza di un accordo previamente stipulato con i sindacati ovvero, alternativamente, la presenza di espressa autorizzazione da parte della Direzione Territoriale del Lavoro.

Non conta più quindi il mero consenso, seppur unanime, di tutti i lavoratori dell’impresa.

Le ragioni sottese alla questione rispondono, in primo luogo, all'esigenza di rispettare il principio di legalità, a rigor del quale il datore di lavoro è obbligato ad osservare le norme di legge per agire nella sfera della liceità.

In secondo luogo, ciò che mira a tutelare la norma, anche in sede penale, è l’interesse collettivo e superindividuale, in quanto “la condotta datoriale, che pretermette l'interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all'installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l'oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici”.

Si potrà, infine, sottolineare che la condotta del datore di lavoro che agisca senza previo accordo sindacale e/o autorizzazione della DTL sarà anche censurabile ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, nonché alla luce del Codice in materia di riservatezza e tutela dei dati personali.


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