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Legge 104, può essere licenziato il lavoratore che supera il limite massimo di non lavoro: il periodo di comporto

Legge 104, può essere licenziato il lavoratore che supera il limite massimo di non lavoro: il periodo di comporto
La protezione speciale connessa allo stato di disabilità viene meno una volta superato il limite massimo di non lavoro? La questione è finita sotto la lente della giustizia europea
La protezione speciale connessa allo stato di disabilità viene meno una volta superato il limite massimo di non lavoro.

Il periodo di comporto è quel periodo massimo di non lavoro dovuto a malattia o infortunio, nel quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento. Trascorso tale periodo, è possibile recedere dal contratto. La disposizione è contenuta all'interno dell'art. 2110 del codice civile. Sembra molto chiara la norma; tuttavia non di rado è stata controversa la questione della computabilità (o meno) nel periodo di comporto delle assenze per malattia riconducibili all’invalidità del dipendente e, spesso, le decisioni sposate dal giudice ordinario hanno finito per escludere la discriminazione indiretta nella scelta del datore di computare nel periodo di comporto anche le assenze legate alla disabilità del lavoratore.

A riguardo si cita l’ordinanza del 4 gennaio 2024, con cui il Tribunale di Ravenna ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il giudizio sulla legislazione italiana in merito alla computabilità, nel periodo di comporto, delle assenze dal lavoro causate da patologie invalidanti.
Il quesito posto alla Corte di Giustizia Europea può essere così sintetizzato: se il periodo di comporto di 180 giorni - previsto nella fattispecie dal CCNL Confcommercio (che trova applicazione senza distinzioni tra soggetti disabili e non) - possa considerarsi un "ragionevole accomodamento", idoneo a escludere la discriminazione indiretta dei lavoratori disabili.

Si ricorda che, in linea di massima, lo stato di disabilità riceve dalla legge una protezione speciale. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti della persona con disabilità, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, riconosce il diritto al lavoro delle persone con disabilità e il diritto di potersi mantenere con il lavoro. Il D. Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 fa divieto di discriminazioni dirette e indirette in danno anche dei disabili, ai quali deve essere garantito di accedere a un lavoro, di svolgerlo mediante la previsione di adattamenti che si basano su "soluzioni ragionevoli", anche se comportano oneri finanziari - purché proporzionati - a carico del datore di lavoro.
Tali precetti vanno poi integrati con la nozione di disabilità introdotta dalla direttiva comunitaria n. 2000/78/CE, che non prevede una tutela assoluta in favore del soggetto disabile, dovendosi salvaguardare il bilanciamento degli interessi contrapposti: da un lato l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro adeguato al suo stato di salute e, dall’altro, l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa. La stessa direttiva 2000/78/CE, al suo considerando 17, “non prescrive il mantenimento dell’occupazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”. L’interesse del lavoratore disabile a conservare il posto di lavoro deve essere contemperato con quello del datore di lavoro: se assolutizzato, infatti, verrebbe compresso (e quindi compromesso) il potere datoriale di recedere dal contratto di lavoro di un dipendente disabile.

Allora deve considerarsi non discriminatorio il licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto?

In merito al recesso per tale motivazione, è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la sentenza 31 marzo 2023 n. 9095, ha affermato la nullità di un licenziamento per superamento del periodo di comporto nei confronti di un lavoratore disabile, qualora il CCNL non abbia differenziato tale periodo per i lavoratori affetti da patologie correlate alla disabilità, in quanto ciò si presta a forme di discriminazione indiretta. In particolare, l’articolo 2, comma 1, lett. b), del citato D. Lgs. 216/2003 riconduce tra le forme di discriminazione indiretta le disposizioni e i comportamenti apparentemente neutri che mettono, tuttavia, le persone portatrici di handicap in una situazione oggettiva di svantaggio rispetto ad altre persone (cfr. anche art. 2 bis). L'indirizzo è stato ribadito nell'ordinanza 21-12-2023, n. 35747.

A fronte di una normativa nazionale o di una condotta datoriale che non prevedano lo scomputo dal comporto dei giorni di malattia dovuti alla disabilità spetta, in ogni caso, al giudice nazionale verificare:
  1. se il datore di lavoro non abbia previamente messo in atto, nei confronti di tale lavoratore, soluzioni ragionevoli al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento;
  2. la legittimità della finalità perseguita dalla normativa interna, ovvero che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e che essi non vadano oltre quanto necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore.
Dunque, non è possibile rinvenire nella parità di disciplina del comporto, tra disabili e non, alcun elemento di discriminazione, sul presupposto che, ove risultino osservate le disposizioni in materia di assunzioni obbligatorie e adottati gli accomodamenti ragionevoli, la prestazione resa dal disabile è adeguata alle sue capacità lavorative, allo stesso modo di qualsiasi altro lavoratore non affetto da disabilità.


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