Cassazione civile Sez. Lavoro sentenza n. 14143 del 2 ottobre 2002

(1 massima)

(massima n. 1)

A seguito della sentenza n. 459 del 2000 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione, dell'art. 22, trentaseiesimo comma, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, nella parte in cui ha esteso ai crediti di lavoro dei dipendenti da datori di lavoro privati la medesima regola della non cumulabilità tra rivalutazione e interessi già prevista per i crediti previdenziali, gli interessi relativi ai crediti di lavoro dei dipendenti da datori di lavoro privati, maturati in epoca sia precedente che successiva alla entrata in vigore delle leggi n. 412 del 1991 e 794 del 1994 devono essere calcolati sul capitale rivalutato, con scadenza periodica dal momento dell'inadempimento fino a quello del soddisfacimento del creditore, atteso che, da un lato, la rivalutazione ex art. 429 c.p.c., mediante il meccanismo della indicizzazione del credito, tende ad annullare, al pari del «maggior danno» ex art. 1224 c.c., la perdita patrimoniale del creditore soddisfatto tardivamente (danno emergente), mentre gli interessi liquidano in misura forfettaria e senza bisogno di prova il mancato guadagno della liquidità (lucro cessante), e che, dall'altro, per il perseguimento di tale duplice finalità non è necessario né è previsto da alcuna norma, calcolare gli interessi su un credito superiore a quello che via via matura per effetto della svalutazione monetaria. Né il calcolo degli interessi sul capitale comunque rivalutato porta ad un eccesso di tutela del creditore, nel senso che tale calcolo verrebbe ad imporre al debitore un aggravio aggiuntivo – rispetto all'obbligo risarcitorio – incompatibile con la funzione meramente riequilibratrice degli interessi legali (cosiddetto principio di indifferenza), posto che il legislatore, nella formulazione della disposizione di cui al terzo comma dell'art. 429 c.p.c., ha proprio voluto aggiungere ad una ragione risarcitoria una concorrente ragione compulsiva di pena privata, ossia lo scopo di dissuadere il datore di lavoro dalla mora debendi e dalla speranza di investire la somma dovuta e non ancora pagata al lavoratore in impieghi più lucrosi della perdita dipendente dal risarcimento del danno da mora.

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