Cassazione penale Sez. VI sentenza n. 2985 del 11 dicembre 1993

(2 massime)

(massima n. 1)

La norma di cui all'art. 317 c.p. non richiede che la datio avvenga prima che il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) esaurisca i suoi poteri, essendo sufficiente ad integrare il reato anche la semplice induzione alla promissio, dovendo solo quest'ultima intervenire allorché l'agente abusa dei suoi poteri. Infatti il reato di concussione si perfeziona con la promessa che normalmente precede il compimento dell'atto. Il tempo in cui avviene il pagamento del denaro o la dazione di utilità non ha quindi alcun valore sintomatico; anzi il fatto che l'agente accetti che la concreta realizzazione del suo disegno sia posticipata rispetto al compimento dell'atto, dimostra che vi è un'assoluta sicurezza della completa soggezione psicologica del soggetto passivo piuttosto che una situazione paritaria, in cui liberamente si dà e si riceve.

(massima n. 2)

Nella concussione per «induzione» la condotta incriminata non è vincolata a forme predeterminate e tassative, essendo sufficiente che essa sia in concreto idonea ad influenzare l'intelletto e la volontà della vittima convincendola, anche solo con frasi indirette e persino con il mero sintomatico atteggiamento, dell'opportunità di provvedere alla immediata o differita esecuzione dell'ingiusta dazione per evitare conseguenze dannose. La condotta di «induzione», quindi, nell'irrilevanza della circostanza che il soggetto attivo sia stato contattato ad iniziativa della vittima, può essere realizzata anche attraverso comportamenti surrettizi, concretizzantisi in suggestione tacita, ammissioni o silenzi, ed anche se la vittima ha la convinzione di adeguarsi ad una prassi ineluttabile, confermata dal comportamento del pubblico ufficiale. (Fattispecie in cui ad un sanitario in servizio presso il reparto di ginecologia di un ospedale civile era stato contestato il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 317 c.p. per aver indotto alcune pazienti, abusando della suddetta qualità, a dargli indebitamente somme di denaro per l'assistenza al parto nella struttura ospedaliera; la Cassazione ha ritenuto sussistere l'elemento materiale del reato in questione, sul rilievo che le pazienti si sentivano obbligate a versare le somme al sanitario, sia pur dopo il parto, in quanto dal comportamento del medesimo la gestione dell'assistenza pubblica veniva prospettata secondo criteri privatistici, nel senso che la accorta e diligente assistenza dello stesso — suo dovere inderogabile — meritava adeguata ricompensa sull'ovvio presupposto che diversamente ci si esponeva al pericolo di incurie e disattenzione).

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