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Articolo 77 Costituzione

[Aggiornato al 22/10/2023]

Dispositivo dell'art. 77 Costituzione

Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.

Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.

I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.

Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti].

Ratio Legis

Così come nell'art. 76 Cost. emerge anche qui la tendenza del costituente a consentire la delega della funzione legislativa da parte del Parlamento al Governo solo in presenza di precisi presupposti, in attuazione del principio della divisione dei poteri.

Brocardi

Decreta
Ex tunc

Spiegazione dell'art. 77 Costituzione

Il Governo, in via eccezionale, nei casi, nei modi ed entro i limiti stabiliti dalla Costituzione, può esercitare la funzione legislativa, che istituzionalmente speta al Parlamento.

La norma in esame regolamenta il decreto legge.

L'emanazione del decreto esige l'esistenza di un fatto eccezionale (straordinario) che impone in modo inevitabile (necessità) e immediato (urgenza) di provvedere. Esso soffre, inoltre, i limiti imposti dall'art. 15 della l. 23 agosto 1988, n. 400 sul piano formale, contenutistico e strutturale. Il rispetto dei vincoli è garantito da una serie di controlli da parte di soggetti diversi.

Essi spettano alle Camere, cui viene anche riconosciuto il potere di emendare il testo (senza stravolgerlo), ed al Presidente della Repubblica in sede di promulgazione. Altresì, la Corte Costituzionale ha affermato di poter sindacare tanto il decreto legge che la legge di conversione in caso di palese assenza dei presupposti costituzionali.

In ordine a questi ultimi si deve registrare come nel tempo il loro significato sia stato, di fatto, esteso a dismisura, ciò che ha portato ad un abuso della decretazione che da strumento di carattere eccezionale è divenuto mezzo (quasi) ordinario per legiferare, tanto da suscitare frequenti richiami, nel periodo recente, da parte del Presidente della Repubblica Napolitano.

Il procedimento di formazione del decreto legge è il seguente: la sua adozione viene deliberata dal Consiglio dei ministri ed esso è subito emanato e pubblicato (accompagnato dalla clausola di presentazione al Parlamento), con contestuale entrata in vigore. Lo stesso giorno il Governo lo presenta all'organo legislativo (indifferentemente ad una delle Camere) che deve convertirlo in legge entro 60 giorni.

In tale sede, esso può anche subire emendamenti e modifiche, purché non ne venga alterato il contenuto di fondo. Quindi, la legge di conversione è promulgata e pubblicata ed entra in vigore (art. 73 Cost.).

Rispetto al dettato costituzionale la prassi ha creato il fenomeno diverso della reiterazione dei decreti non convertiti. La legge ordinaria impedisce la riproduzione di disposizioni per le quali una Camera abbia negato la conversione (art. 15, l. 23 agosto 1988, n. 400). A sua volta, la Corte Costituzionale ha cenurato questa tendenza, ammettendo la reiterazione solo se emergono nuovi presupposti di straordinaria necessità ed urgenza.

Massime relative all'art. 77 Costituzione

Corte cost. n. 198/2021

Ad avviso del giudice rimettente, le norme censurate - artt. 1, 2 e 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, e degli artt. 1, 2 e 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35 - avrebbero sostanzialmente delegato la funzione legislativa in materia di contenimento della pandemia da COVID-19 all’autorità di Governo per il suo esercizio tramite meri atti amministrativi – i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri – in violazione degli artt. 76, 77 e 78 della Costituzione, atteso che, al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante, quella dello stato di guerra di cui all’art. 78 Cost., sarebbe stato alterato il principio di tipicità delle fonti di produzione normativa, segnatamente «il principio cardine di cui agli articoli 76 e 77 Cost., per cui la funzione legislativa è affidata al Parlamento, che può delegarla solo con una legge-delega e comunque giammai ad atti amministrativi».

Tramite l’evocazione degli artt. 76, 77 e 78 Cost., il giudice a quo ha inteso denunciare la violazione del principio di legalità delle sanzioni amministrative non in sé, ma quale riflesso dell’alterazione del sistema delle fonti, a suo dire determinata dall’impropria sequenza tra decreti-legge e D.P.C.M.
Il nucleo della denuncia è chiaro: le norme primarie censurate (decreti-legge) avrebbero “delegato” le fonti subprimarie (D.P.C.M.) a definire nuovi illeciti amministrativi, sicché – come recita l’ordinanza di rimessione – sarebbe stato «aggirato il principio cardine di cui agli articoli 76 e 77 Cost., per cui la funzione legislativa è affidata al Parlamento, che può delegarla solo con una legge-delega e comunque giammai ad atti amministrativi».
Come la Corte ha avuto modo di sottolineare, quando è ben individuato il nucleo essenziale della censura, l’eventuale inconferenza dei parametri costituzionali evocati non integra un motivo di inammissibilità della questione, semmai una ragione di non fondatezza (sentenze n. 286 del 2019 e n. 290 del 2009). Ovviamente, la selezione dei parametri operata dal giudice a quo, mentre non rende inammissibili le questioni così come sollevate, ne delimita tuttavia l’oggetto, che resta pertanto circoscritto al sistema delle fonti, quale delineato dagli artt. 76, 77 e 78 Cost., senza attingere specificamente il problema delle riserve di legge, né quelle poste dagli artt. 23 e 25 Cost.
La Corte ha evidenziato che l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 19 del 2020 stabilisce che, «[p]er contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus COVID-19, su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso, possono essere adottate, secondo quanto previsto dal presente decreto, una o più misure tra quelle di cui al comma 2»; e il comma 2 precisa, appunto, che, «[a]i sensi e per le finalità di cui al comma 1, possono essere adottate, secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso», una o più tra le misure ivi elencate, da intendersi come tipiche, per l’assenza di una clausola di apertura verso indefinite «ulteriori misure», analoga a quella contenuta nell’art. 2, comma 1, del d.l. n. 6 del 2020. Il d.l. n. 19 del 2020 ha invero disposto la temporaneità delle misure restrittive, adottabili solo «per periodi predeterminati», e reiterabili non oltre il termine finale dello stato di emergenza (art. 1, comma 1) e che la tipizzazione delle misure di contenimento operata dal d.l. n. 19 del 2020 è stata corredata dall’indicazione di un criterio che orienta l’esercizio della discrezionalità attraverso i «principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso» (art. 1, comma 2). La fonte primaria, pertanto, non soltanto ha tipizzato le misure adottabili dal Presidente del Consiglio dei ministri, in tal modo precludendo all’autorità di Governo l’assunzione di provvedimenti extra ordinem, ma ha anche imposto un criterio tipico di esercizio della discrezionalità amministrativa, che è di per sé del tutto incompatibile con l’attribuzione di potestà legislativa ed è molto più coerente con la previsione di una potestà amministrativa, ancorché ad efficacia generale. In sostanza, il d.l. n. 19 del 2020, lungi dal dare luogo a un conferimento di potestà legislativa al Presidente del Consiglio dei ministri in violazione degli artt. 76 e 77 Cost., si limita ad autorizzarlo a dare esecuzione alle misure tipiche previste.
Al riguardo, non può non ricordarsi che, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20 del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (Approvazione del testo unico della legge comunale e provinciale), sollevata in riferimento – tra gli altri – agli artt. 76 e 77 Cost., a proposito delle ordinanze prefettizie contingibili e urgenti, questa Corte ha fatto richiamo alla distinzione corrente tra «“atti” necessitati» e «“ordinanze” necessitate», aventi entrambi come presupposto l’urgente necessità del provvedere, «ma i primi, emessi in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto; le altre, nell’esplicazione di poteri soltanto genericamente prefigurati dalle norme che li attribuiscono e perciò suscettibili di assumere vario contenuto, per adeguarsi duttilmente alle mutevoli situazioni» (sentenza n. 4 del 1977). Ebbene, la tassatività delle misure urgenti di contenimento acquisita dal d.l. n. 19 del 2020 induce ad accostare le stesse, per certi versi, agli «“atti” necessitati», in quanto «emessi in attuazione di norme legislative che ne prefissano il contenuto», sicché non è dato riscontrare quella delega impropria di funzione legislativa dal Parlamento al Governo che il rimettente ipotizza nel denunciare la violazione degli artt. 76 e 77 Cost.

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