Brocardi.it - L'avvocato in un click! CHI SIAMO   CONSULENZA LEGALE

Articolo 614 bis Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 02/03/2024]

Misure di coercizione indiretta

Dispositivo dell'art. 614 bis Codice di procedura civile

Con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento(2), determinandone la decorrenza. Il giudice può fissare un termine di durata della misura, tenendo conto della finalità della stessa e di ogni circostanza utile.

Se non è stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza o ritardo nell'esecuzione del provvedimento è determinata dal giudice dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la notificazione del precetto. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni di cui all'articolo 612.

Il giudice determina l'ammontare della somma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione dovuta, del vantaggio per l'obbligato derivante dall'inadempimento, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile(3).

Il provvedimento costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione, inosservanza o ritardo. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'articolo 409(4).

Note

(1) Tale norma è stata inserita dalla legge 69/2009 che ha previsto uno strumento di coercizione indiretta al fine di incentivare l'adempimento spontaneo degli obblighi che non risultano facilmente coercibili. La norma, infatti, prevede in capo al soggetto inadempiente l'obbligo di pagare una somma di denaro, al fine di indurlo a realizzare la sua obbligazione.
(2) Il giudice, previa richiesta della parte, unitamente al provvedimento di condanna ad un fare o a un non facere, fissa una somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento, al fine di esercitare una pressione psicologica sulla parte obbligata in modo tale da indurlo all'adempimento spontaneo.
(3) Nel determinare la somma dovuta per ogni violazione, il giudice dovrà tenere conto di alcuni parametri come il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o quello prevedibile, le condizioni personali e patrimoniali delle parti, accanto ad ogni altra circostanza utile. Tali parametri rappresentano dunque un limite alla discrezionalità del giudicante.
(4) Disposizione riformulata dal D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (c.d. "Riforma Cartabia"), come modificato dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197, il quale ha disposto (con l'art. 35, comma 1) che "Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti".

Spiegazione dell'art. 614 bis Codice di procedura civile

Si deve alla Legge n. 69/2009 l'introduzione nel nostro ordinamento giuridico, per la prima volta con portata generale, della disciplina delle misure di coercizione indiretta.
Nella sua formulazione originaria la norma in esame non poneva limiti alla tipologia di obbligazioni cui era riferibile, mentre la precedente rubrica "Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare", adesso sostituita, riconduceva la sua applicabilità soltanto alle obbligazioni di fare infungibile o di non fare.

Il D.l. n. 83/2015, convertito dalla Legge n. 132/2015, ha integralmente sostituito il testo della norma con quello previgente alla Riforma Cartabia, anche se le modifiche, di fatto, hanno riguardato soltanto la rubrica, che adesso parla più genericamente di "Misure di coercizione indiretta", nonché l'introduzione espressa del riferimento, nel corpo dell'articolo, alle obbligazioni cui è applicabile, ossia tutti gli obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro.
Resta dunque confermato l'originario ambito di operatività della norma, relativo a tutti quei casi in cui i processi di esecuzione forzata previsti dal codice di rito non possono trovare applicazione oppure non sarebbero del tutto satisfattivi per il creditore.
Ci si intende, dunque, ancora una volta riferire innanzi tutto alle obbligazioni di facere infungibili e, comunque, a quelle di non fare, nonchè a tutte le ipotesi di adempimento di obblighi diversi dal pagamento delle somme di denaro (vi si devono ricomprendere, ad esempio, i casi di condanna alla consegna o al rilascio di cose).

Il rimedio di cui si discute ricalca l'istituto, di origine francese e successivamente esteso anche all'ordinamento tedesco (come sanzione, in favore del fisco) dell' astreinte, per mezzo del quale si prevede una sorta di penale per l'inadempimento totale o per il ritardato adempimento a seguito di una pronuncia di condanna.

Discussa è la possibilità di utilizzare la misura compulsiva qui prevista in via cumulativa con l'azione ex art. 2932 del c.c., all’evidente fine di non dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva.
Contro tale cumulo di strumenti si è osservato che esistono forti dubbi circa la possibilità di chiedere contemporaneamente una doppia statuizione, costitutiva e di condanna, e ciò perchè l'obbligo di contrarre non è del tutto infungibile, essendo possibile ricorrere alla pronuncia del giudice che tenga luogo del contratto non concluso (il che significa che è ben possibile l'esecuzione in forma specifica).

Nella determinazione dell'ammontare della somma dovuta dall'obbligato, il giudice deve preliminarmente effettuare una serie di valutazioni, che attengono alla natura dei rapporti rispetto ai quali il rimedio viene invocato.
In particolare, l'organo giudicante deve, innanzitutto, accertare che non si tratti di controversie di lavoro subordinato pubblico e privato, nonché di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'art. 409 del c.p.c., per i quali la disposizione non trova applicazione per espressa esclusione da parte del legislatore (la ratio di tale esclusione non può che individuarsi nella specialità della materia giuslavoristica e nella natura personalissima delle obbligazioni che la stessa, necessariamente, involge).

Affinché il giudice fissi con il provvedimento di condanna la somma di denaro dovuta dall'obbligato occorre un'istanza di parte.
Il D.Lgs. 10.10.2022, n. 149 ha previsto che se la misura coercitiva indiretta non sia stata domandata in seno al processo di cognizione, oppure se il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna, la stessa debba essere determinata dal giudice dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la notificazione del precetto.
Con tale innovazione si intende evitare che il creditore, già titolato, sia costretto a ricorrere ad un processo dichiarativo al solo scopo di ottenere un provvedimento che deve essere ascritto alla giurisdizione esecutiva.

Va detto che il comma aggiunto con la Riforma Cartabia non precisa i criteri a cui il giudice dell'esecuzione deve attenersi nel determinare a quanto la misura coercitiva indiretta dovrà ammontare, limitandosi la disposizione a riprodurre i parametri originariamente previsti dal testo previgente, con la sola precisazione che si deve tenere conto della natura della prestazione dovuta e del vantaggio per l'obbligato derivante dall'inadempimento.
A tale riguardo si ritiene possa essere utile richiamare quanto è dato leggere nella Relazione illustrativa alla stessa riforma, la quale ricorda come sia pacifica la funzione della misura coercitiva indiretta, volta a condurre l'obbligato all'adempimento spontaneo.
E’ proprio per questa ragione che la misura coercitiva, onde poter essere effettiva, deve essere innanzitutto commisurata al parametro del vantaggio che colui che la subisce trarrebbe dall'inadempimento, mentre il danno che l'inadempimento medesimo provoca appare più secondario, in quanto l'esecuzione indiretta non è ovviamente in grado di sostituirsi integralmente al risarcimento del danno causato dall'inadempimento.

Per quanto concerne l'individuazione del giudice competente, il riferimento all'art. 612 del c.p.c., richiamato dalla presente disposizione, vale in generale a disciplinare anche la competenza per territorio per la richiesta misura coercitiva.
Va tuttavia evidenziato che per gli obblighi di fare e di non fare il terzo comma dell’art. 26 del c.p.c. prevede la competenza del giudice del luogo dove l'obbligo deve essere adempiuto.
Dinanzi ad un possibile conflitto tra le due norme, si è dell’idea che la disposizione speciale (ovvero l’art. 26 c.p.c.) debba farsi prevalere su quella generale.

Massime relative all'art. 614 bis Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 19454/2011

Nell'ambito dei rapporti obbligatori, il carattere infungibile dell'obbligazione di cui si è accertato l'inadempimento non impedisce la pronuncia di una sentenza di condanna, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della eventuale esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì produttiva di ulteriori conseguenze risarcitorie, suscettibili di levitazione progressiva in caso di persistente inadempimento del debitore; inoltre, ogni dubbio sull'ammissibilità di una pronuncia di condanna è stato eliminato dal legislatore con l'introduzione dell'art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare), avente valore ricognitivo di un principio di diritto già affermato in giurisprudenza.

Notizie giuridiche correlate all'articolo

Tesi di laurea correlate all'articolo

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.

SEI UN AVVOCATO?
AFFIDA A NOI LE TUE RICERCHE!

Sei un professionista e necessiti di una ricerca giuridica su questo articolo? Un cliente ti ha chiesto un parere su questo argomento o devi redigere un atto riguardante la materia?
Inviaci la tua richiesta e ottieni in tempi brevissimi quanto ti serve per lo svolgimento della tua attività professionale!

Consulenze legali
relative all'articolo 614 bis Codice di procedura civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Bruno P. chiede
mercoledì 21/09/2016 - Veneto
“un muro abusivo costruito anni 70 di lunghezza 120 ml x h2,20, zona vincolo ambientale paesaggistico, ottenuta sanatoria nel 1998 con precrizioni di intonacatura con sabbia di cava e sostituzione grigliato di cemento con rete e pali. Proprietario il mio vicino il quale intenta causa per responsabilità di parziale caduta nei miei confronti, ma per ovvi motivi nel 2014 viene condannato a demolire e ricostruire il muro per adeguarlo ai regolamenti edili e paesaggistici. Con apertura d.i.a.di ristrutturazione realizza adeguamento sismico per una parte del muro, senza intervenire esternamente lasciando inalterata la parte restante compresa quella caduta nel mio terreno.Ora sono preoccupato perchè penso non eseguirà le opere di ripristino come da sentenza, tenuto conto che non ha rispettato nemmeno le prescrizioni in sanatoria.
Come posso fare per obbligarlo fare i lavori di adeguamento, si possono chiedere penali o comunque addebito per le eventuali azioni legali, quali sono i tempi? il muro in questione poteva essere condonato nei termini sopra citati, è soggetto a prescrizione.
Ringrazio per la sua attenzione”
Consulenza legale i 28/09/2016
Dalla lettura del caso che si propone si ritiene che le questioni da affrontare siano essenzialmente due:
A) quella relativa ai rimedi da esperire per costringere un terzo a rispettare le prescrizioni imposte in sede di sanatoria edilizia
B) quali azioni esercitare per ottenere la rimozione della parte di muro caduta nel fondo del vicino

Per quanto riguarda il problema sub A), si ritiene che la strada più celere sia quella di presentare un’istanza ed eventuale atto di diffida, con contestuale assegnazione di un termine per provvedere, al Comune nel cui territorio l’abuso è stato commesso, quale ente preposto alla vigilanza e repressione degli abusi edilizi, chiedendo l’adozione di provvedimenti repressivi dello specifico abuso edilizio compiuto sul terreno limitrofo.
A seguito di tale atto il Comune avrà non solo l’obbligo di rispondere all’istanza, ma anche quello di procedere per la refusione degli abusi edilizi.
La mancata ottemperanza a tale istanza comporterà il formarsi del c.d. silenzio rifiuto da parte dell’amministrazione, impugnabile tramite la speciale procedura di cui all’art. 21 bis legge 6 dicembre 1971 n. 1034 istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, come introdotto dalla legge n. 205 del 2000, secondo quanto anche statuito dalla Sezione V del Consiglio di Stato con la sentenza n. 230 del 16 gennaio 2002.

Va detto, infatti, che il silenzio-rifiuto, come tale, sarà censurabile se da un lato riguardi l’estrinsecazione di un comportamento (potenzialmente) comunque dovuto da parte dell’Amministrazione e, dall’altro sia attivato – come nella fattispecie – non in maniera acritica e generalizzata, ma da chi vanta uno specifico e qualificato interesse.

Deve peraltro rilevarsi che nella fattispecie in esame viene ad essere prospettata una non generica situazione di abusività di interventi edilizi la cui antigiuridicità può essere espressamente specificata nelle varie istanze che l’interessato andrà a produrre, la cui legittimazione attiva è, come prima accennato, particolarmente qualificata dalla titolarità di un diritto di proprietà limitrofo al luogo in cui si sono perpetrati gli abusi denunciati.

Qualora, poi, il comportamento omissivo (silenzio-rifiuto) dell’Amministrazione sia stigmatizzato da un soggetto qualificato (in quanto, per l’appunto, titolare di una situazione di specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile), tale comportamento assumerà una connotazione negativa e censurabile dovendo l’Amministrazione (titolare dei generali poteri-competenze in materia di controllo e di repressione sull’abusivismo edilizio) dar comunque seguito (anche magari esplicitando l’erronea valutazione dei presupposti da parte dell’interessato) all’istanza.

In altri termini si ritiene che sull’accertata sussistenza di una posizione qualificata e legittimante, e di un’istanza circostanziata e specifica relativa a presunte realizzazioni abusive, il Comune sia tenuto a rispondere all’istanza (anche e solo per dimostrarne l’eventuale infondatezza di presupposti), in quanto da un lato tale compartecipazione si conforma all’evoluzione in atto dei rapporti tra Amministrazione e amministrato (titolare di una specifica posizione), e dall’altro perché in tale ipotesi il comportamento omissivo (spesso causa di un’inerte complicità agevolatrice del degrado edilizio), assume una sua sindacabile connotazione negativa.

Per quanto riguarda il termine per dare esecuzione alle prescrizioni imposte in sede di sanatoria, va detto che la concessione in sanatoria deve intendersi subordinata alla realizzazione delle prescritte opere, con l’ineludibile conseguenza che fin quando tali opere non verranno realizzate, la concessione non sarà valida; sarebbe opportuno verificare se per esse sia stato dato un termine, in difetto di che non si potrà parlare di lesione alle prescrizioni vera e propria, ma neppure può dirsi che il manufatto sia regolare (dal che ne discende la legittimazione all’istanza di cui sopra).

Dal punto di vista delle spese da sostenere, si sottolinea che trattasi di semplice istanza instauratrice di un procedimento amministrativo, per la quale non sono previsti costi particolarmente gravosi.

Delle spese un po’ più gravose dovranno invece sostenersi nell’ipotesi di inerzia del Comune ad adottare un provvedimento, nel qual caso si instaurerà un procedimento giurisdizionale amministrativo, nel corso del quale si potrà comune chiedere la condanna della pubblica amministrazione alla refusione delle spese che si è stati costretti a sostenere per il suo comportamento inerte.

Per quanto riguarda la rimozione della parte di muro caduta sul fondo altrui, si ritiene applicabile la norma di cui all’articolo [[n2053c]] codice civile, la quale dispone che il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, dove nel concetto di altra costruzione può senz’altro farsi rientrare il muro in questione.

Ovviamente sarà opportuno valutare se sia più economico eliminare a proprie spese i resti del muro che si trovano sul proprio fondo ovvero esperire tale azione legale.


A. T. chiede
venerdì 06/10/2023
“L’appartamento in cui viviamo, di proprietà di mia moglie, è inserito in un grande edificio costruito negli anni 60 ed inizialmente gestito da un unico condominio che comprendeva i due distinti accessi al fabbricato, posti a due numeri civici diversi il n. 33 ed il n. 35. Il Condominio originario si è costituito in forza del regolamento condominiale contrattuale redatto dal costruttore. Dopo 30 anni circa si è dato vita a due distinti Condomini uno per il civico 33 e l’altro per il civico 35, composti da n.19 condomini ciascuno. Questa suddivisione, ha operato senza grossi problemi sulla base dell’art.1123, 2^ comma CC, ma anche per pacifica consuetudine stante il fatto che i beni comuni sono ben distinti dal piano interrato fino ai lastrici solari.
Il problema nasce ora: quando il terzo Condominio che gestisce i box garage ha deciso di rifare il piazzale di accesso con una nuova asfaltatura. Nei corso dei lavori è venuto fuori che dopo oltre 60 anni di vetustà l’immobile abbisogna di manutenzione straordinaria nei sottosistemi fognari che risiedono interrati nel sedime dell’edificio il cui malfunzionamento avevano causato avvallamenti del piano stradale del cortile in corso di rifacimento. Il sistema fognario unico per tutto l’edificio è per sua natura funzionale non divisibile e/o attribuibile univocamente alle parti di edificio ricadenti nella porzione di sedime dei due distinti Condomini.
Si ritiene quindi di essere in comunione pro-indiviso e tecnicamente non divisibile come attestato anche da due perizie redatte dal Geometra che cura i lavori di rifacimento del piazzale.

Senza richiamare la presunzione legale di comunione pro indiviso di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano in tale momento destinate all’uso comune ovvero a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso (cfr. Cass. Civ., Sez. 2^, Ordinanza n. 5335 del 02/03/2017), questa fattispecie della comunione necessaria, nel nostro caso, è ben recepita e descritta:

- dai contratti di acquisto degli appartamenti dal Costruttore che espressamente danno atto che “nel complesso edificio segnato dai numeri 31-33-35 …. esistono i pozzetti di scarico e le fosse biologiche nonché le tubazioni relative ai servizi condominiali a servizio del complesso edificio”

- dal Regolamento di Condominio, unico per i civici 33 e 35 di XXX (mai modificato o revocato e che si ritiene, ove occorra ancora vigente) nel quale le cose comuni vengono così disciplinate: al Titolo 1^, Capo I^ Cose Comuni, all’Art. 1 – Consistenza della proprietà condominiale, espressamente statuisce:
“E’ condominiale l’intero stabile posto in XXX, Viale XXX n. civico 33 e n. civico 35, costruito nell’area totale di mq 1.480 circa”.

E all’Art 2 – Cose di proprietà comuni indivisibili, espressamente statuisce:
“Costituiscono proprietà comune indivisibile di tutti i condomini:
- l’area su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, le strutture di cemento armato, i portoni di ingresso, il vestibolo, il cortile, le reti di fognatura, i tubi di scarico delle acque e delle materie di rifiuto, il tetto, le scale ed in genere tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune ;
- gli impianti dell’acqua e gli impianti di illuminazione dei locali comuni, gli impianti di gas ed energia elettrica fino al punto di diramazione ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini”.

E all’Art. 14 – Contributo alle spese per le cose di proprietà comune indivisibili.
“Tutti i condomini devono contribuire (….omissis….) in ragione delle rispettive quote di comproprietà”.

Poiché l’Amministratore del Condominio del civico 35 ha fatto pervenire la seguente risposta:

“Buonasera, in qualità di amministratore del civico 35 sono a contestare integralmente la missiva pervenutami a firma di alcuni condomini del civico 33.
Quanto era statuito inizialmente è divenuto privo di fondamento all’avvenuta scissione del primo unico blocco in due condomini separati. Non solo anche nel caso che il blocco fosse ad oggi un singolo condominio, l’art. 1123, 2^ del C.C. è chiarissimo in ordine alla ripartizione delle spese in base all’uso.
Ciò detto confermo che il civico da me amministrato provvederà a partecipare alle spese delle sole strutture al servizio del civico 35 e non anche di quegli impianti suscettibili di utilità separata che non riguardano il condominio di XXX.
Cordialmente”

Come appare evidente la risposta, che per quanto ci concerne, si condivide nella sola parte in cui si afferma che le spese in ogni caso vanno ripartite secondo l’art. 1123, 2^ comma del C.C. (come già fatto peraltro fino ad oggi per le parti distinte e facilmente attribuibili ai singoli Condomini) il criterio risulta non applicabile alle parti comuni pro-indiviso dell’edificio e che funzionalmente non sono, per loro natura, divisibili come già accertato da relazione tecnica del Geom. incaricato dei lavori in corso di riparazione del sistema fognario.

Tutto quanto sopra premesso, nell’auspicare un chiarimento ed un accordo tra i due condomini che riguardi questo particolare aspetto della comunione necessaria, tema mai affrontato prima, vorrei comunque una vostra valutazione legale sui criteri di ripartizione da adottare per il riparto delle spese delle cose comuni condominiali indivisibili (non solo per previsione regolamentare, ma anche tecnica) e nel caso come possa formarsi la volontà decisionale unitaria fra i due distinti condomini.
Ringraziando, distinti saluti

Consulenza legale i 17/10/2023
Sulla base di quello che viene riferito nel quesito, non pare che il complesso edile descritto possa considerarsi un supercondominio, ma piuttosto esso deve considerarsi un condominio parziale ai sensi dell’ult. co. dell’art. 1123 del c.c. I due istituti sono sicuramente affini, ma hanno tratti distintivi significativi che devono essere tenuti ben presenti.

Il supercondominio, figura giuridica oggi prevista dall’ art. 1117 bis del c.c. , si ha nel momento in cui un unico complesso edile è costituito da corpi di fabbrica tra di loro strutturalmente e architettonicamente autonomi, ma che hanno tra di loro in comune ai sensi dell’ art. 1117 del c.c. determinati cespiti, come ad esempio un giardino, una piscina, o il cancello di ingresso. Nel caso del super condominio in corrispondenza dei singoli corpi di fabbrica avremo quindi tanti condomini autonomi, ciascuno con il proprio amministratoree la propria assemblea; affianco ad essi avremo un super condominio, anche lui col proprio amministratore e con la propria assemblea chiamato ad amministrare i soli impianti e opere comuni a tutti i palazzi.

Il condominio parziale invece è un istituto giuridico che è stato teorizzato dalla giurisprudenza partendo dall’ultimo comma dell’art. 1123 del c.c. (tra le tante pronunce sul tema si cita le SS.UU n.7449 del 07.07.1993) e si differenza dal super condominio proprio perché il complesso edile in cui viene applicato non è composto da corpi di fabbrica distinti e autonomi, ma da un unico e grande edificio, nel quale però vi sono opere e impianti destinati a servire solo un gruppo di condomini. Per fare un esempio si pensi al caso, molto frequente nella realtà, in cui siamo innanzi ad un unico edificio suddiviso in tante scale distinte (magari anche con numeri civici autonomi), ciascuna delle quali servita da distinti impianti ascensore.

In una situazione come quella descritta, gli insegnamenti della Corte di Cassazione, facendo applicazione dell’ultimo co. dell’art. 1123 del c.c. ci dicono, tra le altre cose, che saranno tenuti al pagamento delle spese ordinarie relative a quel singolo impianto ascensore solo quei condomini che hanno il proprio appartamento ricompreso nella specifica scala servita da quel singolo e distinto ascensore. In altre parole, pagheranno le spese ordinarie relative all’ascensore “A” solo i condomini della scala “A” e non quelli della scala “B” o “C” i quali hanno a loro volta i loro ascensori “B” e “C” a cui dovranno provvedere. In relazione al condominio parziale la Cassazione ci dice anche che saranno competenti a decidere in merito alla manutenzione delle singole opere e dei singoli impianti riferibili solo ad una porzione di edificio esclusivamente quel gruppo di condomini a cui necessariamente tali impianti servono. Tornando all’esempio di prima solo i condomini della scala “A” potranno decidere in merito alla manutenzione del loro ascensore (o di altri impianti similari), e gli altri condomini delle altre scale non avranno alcun potere decisionale in merito.

Vi è da dire però una cosa importante in quanto a differenza del supercondominio, composto come si è detto da tanti condomini autonomi, il condominio parziale non è qualcosa di diverso rispetto al condominio in cui esso è ricompreso: il condominio infatti rimane unico con un solo amministratore e una sola assemblea nella quale si formeranno maggioranze differenti in base alle singole opere e impianti di cui si dovrà discutere di volta in volta.
È ovvio infatti che in un grande e unico edificio composto da tante scale e tanti civici autonomi vi saranno giocoforza beni ed impianti che devono considerarsi comuni a tutte le scale e a tutte le parti dell’edificio e sulle quali avranno potere decisionale tutti i condomini; ad essi, si affiancano opere e impianti che invece sono comuni solo a determinate porzioni dell’edificio medesimo e sulle quali avranno potere decisionale solo quei condomini a cui tali impianti effettivamente servono.
E è proprio questa ultima ipotesi che si è concretizzata nel caso specifico come chiaramente viene indicato dall’art. 2 del regolamento condominiale il quale indica, tra gli altri, le reti fognarie tra le parti comuni ed indivisibili dell’intero edificio.

A parere di chi scrive il problema descritto nel quesito nasce proprio dall’aver applicato erroneamente l’istituto del supercondominio ad un edificio che in realtà nulla aveva a che fare con tale figura giuridica e doveva continuare ad essere gestito come unico condominio all’interno del quale doveva essere fatta corretta applicazione dell’istituto del condominio parziale di cui al 3° co. dell’art.1123 del c.c. Questo è stato un errore di chi amministrava all’epoca l’edificio e dei suoi proprietari i quali non potevano procedere a scindersi in tanti condomini autonomi. In questo senso è molto chiaro l’art. 61 delle disp. att. c.c.: tale norma dispone infatti che un condominio può essere sciolto per dar vita a tanti condomini autonomi quando l’edificio può essere architettonicamente e strutturalmente diviso in più parti distinti che abbiano caratteristiche di edifici autonomi. Nel caso specifico però questo non può dirsi concretizzato in quanto l’edificio mantiene degli impianti comuni a tutte le sue parti, come appunto l’impianto fognario.

Le argomentazioni addotte dall’amministratore del civico 35 sono giuridicamente errate: al di là del fatto che vi sia stata una scissione in più condomini autonomi questo non porta al superamento delle norme del regolamento di condominio (tra l’altro avente natura contrattuale) e certamente ciò non modifica il fatto che siamo innanzi ad un unico corpo di fabbrica dotato di un solo ’impianto fognario funzionalmente unitario come chiaramente dice una perizia appositamente commissionata da alcuni condomini. Per questi motivi le spese di manutenzione straordinaria della rete fognaria devono essere ripartite tra tutti i proprietari dell’intero stabile nel suo complesso (civici 33+35), applicando il 1° co. dell’art.1123 del c.c. e la tabella generale proprietà per tali tipologie di opere comuni, la quale con molta probabilità fu predisposta in passato dal costruttore stante l’unitarietà del corpo di fabbrica.
Per completezza si precisa che alle medesime conclusioni giuridiche si sarebbe giunti anche nel caso in cui si fosse fatta applicazione (la quale rimane comunque errata) dell’istituto del supercondominio in quanto comunque l'impianto fognario si sarebbe giocoforza dovuto considerare un bene comune ai distinti condomini di cui si sarebbe composto il supercondominio nel suo complesso.

M. D. chiede
mercoledì 27/09/2023
“Sono condomina di un edificio per aver acquistato un immobile nel 2018 e per averne ereditato dai miei genitori un altro nel 2016. Nel 2019, da sola ossia al posto del condominio, ho citato in giudizio un altro condomino per far rimuovere una veranda edificata nel 2004 (2002 secondo i convenuti) al piano attico sulla terrazza in uso esclusivo, veranda mai autorizzata dal condominio (che nel giudizio è contumace). Il tribunale mi ha riconosciuta legittimata all'azione al posto del condominio e ha ordinato la demolizione in quanto la veranda è lesiva del decoro e delle linee architettoniche. Non ha riconosciuto invece la domanda di coercizione indiretta ex art. 614 bis (che ho avanzato non nel primo atto di citazione bensì alla prima udienza) presumo ritenendola domanda nuova (come teorizzato da controparte).
Controparte ha proposto appello significando che io non fossi legittimata ad agire in quanto erede dei miei (anziani e poi defunti) genitori che, a parere di controparte, erano stati acquiescenti per anni (io in realtà ho anche acquistato e non solo ereditato). Ciò premesso, vorrei sapere se:
- la tesi di controparte è corretta in merito alla mia presunta carenza sostanziale di legittimazione all'azione del ripristino del decoro e delle linee architettoniche dell'edificio in quanto erede dei miei genitori
- la decisione di non riconoscere la domanda accessoria di cui al 614 bis perché presunta tardiva o nuova è corretta oppure mi consigliate l'appello incidentale per insistere su questo punto onde ottenere l'abbattimento della veranda (che altrimenti resterà lì per una vita)?
Esiste giurisprudenza sul punto entro quale fase del processo oppure in quale giudizio (ad esempio per la prima volta in appello ?) può essere proposta la domanda di 614 bis cpc ?”
Consulenza legale i 13/10/2023
Per quello che si è potuto capire dai documenti che corredano il presente parere (sentenza e atto di appello di controparte) ci si sente di affermare che il contenzioso è sicuramente ben incardinato, mentre paiono piuttosto flebili le argomentazioni di controparte. Le argomentazioni difensive di parte attrice si ritengono solide in quanto poggiano su concetti che si possono definire ormai acquisiti nel diritto condominiale.

È innanzitutto ormai principio consolidato che la titolarità della azione per la tutela del decoro architettonico spetti anche al singolo condomino: anche tale bene comune immateriale viene considerato infatti una proprietà del condominio (al pari dei manufatti elencati dall’ art. 1117 del c.c.) alla cui salvaguardia è legittimato oltre all’amministratore anche il singolo proprietario: in questo senso è molto chiara l’ordinanza della Cassazione n. 28465 del 05.11.2019 citata anche nella sentenza di primo grado.
Sotto questo aspetto le difese di controparte appaiono a parere di chi scrive scarsamente convincenti. Esse puntano maldestramente a confondere le acque dicendo sostanzialmente che parte attrice starebbe promuovendo l’azione non in proprio ma in qualità di erede dei propri genitori, i quali, con comportamenti tenuti in assemblee promosse prima che l’autrice del quesito divenisse proprietaria, avrebbero prestato acquiescenza e tacita accettazione all’opera che si ritiene lesiva del decoro.
Ammesso e non concesso che gli atti e i comportamenti tenuti dai genitori e familiari di parte attrice possano costituire tacita accettazione dell’opera, tale circostanza è del tutto ininfluente e irrilevante. Parte convenuta infatti omette di sottolineare un dettaglio fondamentale: nel momento in cui si eredita, per l’effetto si diventa anche proprietari della unità immobiliare in condominio e quindi si acquisisce anche nel contempo lo status di condomini, potendo quindi esercitare iure proprio e non certamente iure hereditatis tutte quelle azioni e prerogative che appartengono all’essere condomini di quel palazzo, tra cui certamente come abbiamo già detto rientra la tutela del decoro architettonico.
Tutti i comportamenti infatti che costituirebbero in teoria accettazione tacita dell’opera vengono imputati dalla controparte ai genitori di parte attrice e non alla persona della parte attrice medesima, la quale certamente non poteva prestare acquiescenza a nulla visto che ella all’epoca dei fatti, per quanto si è inteso, non era condomina del palazzo.

Il secondo principio assolutamente granitico su cui si fonda le difese dell’autrice del quesito risiede nella natura giuridica dell’azione a tutela del decoro.
Tale azione infatti essendo una manifestazione del diritto di proprietà del singolo condomino non è soggetta a termini di prescrizione: il co. 3° dell’ art. 948 del c.c. ci dice che l’azione per rivendicare la proprietà è imprescrittibile, fatto salvo il termine per usucapire, il quale ai sensi dell' art. 1158 del c.c. è generalmente di venti anni.
(Cass.Civ. n.7727/00).
Anche sotto questo aspetto le difese di controparte paiono flebili anche se aiutate da motivazioni della sentenza che paiono piuttosto carenti.
La lesione al decoro architettonico non si realizza infatti necessariamente solo con una sopraelevazione ex art. 1127 del c.c., ma con qualsiasi opera il quale comporti una significativa lesione alle linee armoniche del fabbricato condominiale. È questo infatti l’onere probatorio che incombe sul proprietario che sostiene che vi sia stata una lesione al decoro del suo palazzo, onere probatorio che a parere di chi scrive è stato assolutamente assolto da parte attrice anche con l’ausilio della perizia del CTU nominato dal giudice di primo grado che sostanzialmente sposa le argomentazioni attoree.

Controparte, per quanto si è inteso, vorrebbe far credere che la lesione al decoro si concretizzerebbe solo attraverso una sopraelevazione, mentre le altre modalità di lesione, come per esempio un improprio aumento di cubatura, non costituirebbe una lesione al decoro, e pertanto non godrebbero della sostanziale imprescrittibilità di cui all’art. 948 del c.c. Viceversa, secondo sempre le argomentazioni di controparte, l’azione per far valere queste altre forme di lesione “secondarie” sarebbe soggetta all’ordinario termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 del c.c.. Sotto questo aspetto, ci si limita a dire che questa ricostruzione non sta in piedi e per quanto si sa non trova conforto in nessuna pronuncia giurisprudenziale nota a chi scrive.

Forse l’unica piccola sbavatura della difesa di parte attrice è rappresentata dalla domanda avanzata ai sensi dell’art. 614bis del c.p.c., rubricato misure di coercizione indiretta. Tale domanda è sicuramente opportuno formularla in un tipo di contenzioso come quello descritto, ma essa è stata avanzata tardivamente nel processo di primo grado. Si consiglia per questo di non coltivarla nel successivo grado di appello, anche perché grazie alla recente riforma Cartabia sul processo civile, potrà essere proposta eventualmente nel giudizio di esecuzione nel caso in cui controparte non ottemperasse all’ordine di demolizione.

La nuova formulazione dell’art. 614bis del c.p.c. come introdotta dalla riforma Cartabia consente di avanzare la domanda di misure coercitive anche nel giudizio di esecuzione se non richiesta nel precedente processo di cognizione. A parere di chi scrive questa novità normativa rende quindi del tutto inutile coltivare nel giudizio di appello la richiesta di misure di coercizione in quanto in quella sede tale tipo di richiesta è ormai compromessa.