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Articolo 1102 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Uso della cosa comune

Dispositivo dell'art. 1102 Codice Civile

Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto(1). A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa(2).

Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso(3).

Note

(1) I due limiti fondamentali all'uso della cosa comune sono, quindi, il divieto di alterare la destinazione della cosa e il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti d'uso.
L'uso da rispettare è quello attuale. Per esempio, è stata considerata alterazione della originaria destinazione del bene la permanente utilizzazione di un giardino comune come parcheggio.
La nozione di pari uso non va intesa in senso di uso "identico", tanto che è normalmente ammesso che un condomino faccia un uso più intenso della cosa rispetto agli altri: l'importante è che ciascuno abbia il diritto ad usare potenzialmente della cosa al pari degli altri.
(2) Il partecipante alla comunione ha il diritto di modificare la cosa comune sostenendo i relativi costi al fine di realizzare un godimento migliore della cosa stessa.
In tale ultima ipotesi gli altri comunisti, se non domandino la rimozione del miglioramento effettuato a loro favore da un singolo comunista, hanno diritto di acquisirla; ciò, ovviamente, sempre che essa sia fruibile e si connoti alla stregua di un'innovazione (art. 1108 del c.c.) della cosa comune. Al comunista autore dell'innovazione compete, dunque, il rimborso delle spese sostenute per migliorare il bene comune.
(3) Il secondo comma dell'articolo si riferisce all'estensione del diritto sulla cosa comune inteso come usucapione del diritto di comunione per una quota maggiore o usucapione di tutta la cosa da parte del singolo comunista. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel richiedere un mutamento del titolo, che provi in maniera inequivocabile il nuovo animus possidendi.

Ratio Legis

La disposizione disciplina i diritti del condomino rispetto alla cosa comune.
Si tratta di una norma che trova larga applicazione anche in materia di condominio negli edifici (artt. 1117 ss. c.c.).

Brocardi

In re communi, nemo dominorum iure facere quidquam invito altero potest

Spiegazione dell'art. 1102 Codice Civile

Requisiti dell'uso della cosa comune

L'art. 675 del vecchio codice attribuiva a ciascun partecipante la facoltà di servirsi delle cose comuni con le seguenti limitazioni: a) che egli le impiegasse secondo la loro destinazione fissata dall'uso; b) che egli non se ne servisse contro l'interesse della comunione; c) che egli non impedisse agli altri partecipanti di servirsene secondo il loro diritto.

Quanto al primo requisito, si riteneva che l'uso dovesse essere conforme alla destinazione della cosa, intendendo per destinazione quella naturale, normale, ordinaria, conforme all'essenza della cosa, salvo che le parti concordemente l'avessero destinata ad un uso diverso dall'ordinario, nel qual caso quest'ultima forma di utilizzazione prevaleva sulla prima.

Quanto al secondo, il condomino non poteva col suo uso deteriorare la cosa comune, e per il terzo, infine, l'esercizio del diritto da parte di un condomino non doveva impedire l'esercizio del diritto di condominio da parte di altro condomino.

Non era essenziale, però, per quanto naturale, che l'esercizio del diritto fosse uguale per tutti i condomini, purché non vi fosse danno per gli altri condomini e quindi potessero continuare a servirsi della cosa conformemente alla sua destinazione, secondo il loro diritto.

Il nuovo codice ha ridotto i tre limiti a due: a) divieto di alterare la destinazione della cosa; e b) divieto di impedire agli altri partecipanti di fame parimenti uso, secondo il loro diritto: ed opportunamente, l'uso secondo l'interesse della comunione e, invero, la risultante dell'uso secondo la destinazione della cosa ed in modo da rispettare il diritto dei compartecipi.

Il nuovo codice ha altresì prescritto l'osservanza della destinazione della cosa, senza la qualifica che essa debba essere quella fissata dall'uso. L' omissione, però, non pone una differenza rispetto al codice passato, non tanto perché in seno alle Commissioni delle Assemblee legislative è stato ritenuto ovvio il riferimento alla destinazione attuale, quanto perché, se le parti nulla hanno convenuto circa la destinazione, questa non può essere che quella conforme alla natura della cosa e cioè ad un modo generale e normale di usare di essa.

L'uso specifico abnorme non può aversi che per una specifica abnorme destinazione col concorso delle volontà di tutti i partecipanti.


Modificazioni a spese di un partecipante per il miglior godimento della cosa

Degna di nota è piuttosto l'espressa statuizione che il condomino possa a proprie spese introdurre le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Caratteristiche essenziali sono la volontà decisiva anche di un singolo compartecipe e l'accollo da parte sua per intero delle spese. Le spese per il semplice godimento della cosa comune sono a carico dei partecipanti (art. 1104 del c.c.), le spese per un miglior godimento sono a carico di tutti i partecipanti, se deliberato dalla maggioranza di essi (art. 1108 del c.c.), ma se il singolo, pur di avere un miglior godimento della cosa, entro i limiti della sua destinazione, è pronto a sobbarcarsi alle spese relative, deve poterlo fare, anche in mancanza di una deliberazione di maggioranza, dato che tale comportamento del singolo riesce di vantaggio a tutti i compartecipi.


Interversione del titolo del possesso del condominio

Col capoverso il nuovo codice risolve espressamente l'annosa questione della possibilità del condomino di usucapire la cosa comune e delle condizioni che devono concorrere per aversi tale possibilità.

Seguendo la giurisprudenza si è sostenuta la tesi secondo cui per l' impossibilità di equiparare i due titoli di condomino e di domino solitario fosse necessaria l'interversione del titolo del possesso per l'inizio dell'usucapione del condomino, ma che l' interversione del condomino potesse seguire in forma diversa da quelle prescritte per i possessori precari dagli art. 2116 e 2117 vecchio codice civile.

La stessa soluzione è oggi prevista legislativamente. Il partecipante, per l'art. 1102, non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. Quali siano questi atti l'articolo in esame però non lo dice, né particolari indicazioni sono fornite dall' art. 714 del c.c. che, a proposito delle comunioni ereditarie, stabilisce che può domandarsi la divisione anche quando uno o più eredi abbiano goduto separatamente parte dei beni ereditari, salvo che si sia verificata la prescrizione per effetto di possesso esclusivo. Da quest' ultima disposizione si può trarre, infatti, soltanto la regola negativa che a costituire il possesso esclusivo non basta un godimento separato.

Una ragione per dubitare dell'accoglimento della soluzione dominante potrebbe derivarsi dagli art. 1141 e 1164 del presente libro i quali, riferendosi specificamente all'interversione della detenzione o del possesso da parte del semplice detentore o del possessore di un diritto reale su cosa altrui, prescrivono all'uopo la causa proveniente da un terzo 0 l'opposizione fatta dal detentore o dal possessore contro il possessore o contro il diritto del proprietario. Tuttavia, anche se la portata dell'art. 1164 è più ampia in confronto a quella dell'art. 2116 del vecchio codice, la soluzione non muta, nei riguardi del condomino, che possegga l'intera cosa, poiché di questi non può dirsi che abbia un possesso corrispondente all'esercizio di un diritto reale su cosa altrui. La formula generica dell'art. 1102 impedisce di concretizzare gli atti idonei a mutare il titolo del possesso solo in quegli atti voluti dagli art. 1141 e 1164.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

518 Nel regolare l'uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante, l'art. 1102 del c.c. prevede l'ipotesi che questi intenda eseguire opere per il miglior godimento di essa e gli dà facoltà di eseguirle a proprie spese, purché non ne alterino la destinazione e non ne pregiudichino l'uso, da parte degli altri partecipanti. In tal modo, seguendo il largo indirizzo tracciato dalla giurisprudenza, si consente al singolo partecipante di trarre dalla cosa la migliore utilizzazione possibile, entro i limiti inderogabilmente fissati dalla legge. Nello stesso articolo (secondo comma) è regolata l'usucapione nei rapporti tra i partecipanti. Non occorre che il partecipante faccia opposizione contro il diritto degli altri partecipanti, ma basta che egli compia atti idonei, nella loro univocità, a rivelare il mutamento del titolo del suo possesso, Disciplinando poi il diritto di disposizione della quota (art. 1103 del c.c.), alla formula dell'art. 679 del codice del 1865, che affermava avere ciascun partecipante la piena proprietà della sua quota e dei relativi utili e frutti, ho sostituito una formula che non pregiudica problemi di costruzione teorica.

Massime relative all'art. 1102 Codice Civile

Cass. civ. n. 11870/2021

La nozione di pari uso della cosa comune, di cui all'art. 1102 c.c., sebbene non debba intendersi nel senso di uso identico e contemporaneo, implica pur sempre che la destinazione della cosa resti compatibile con i diritti degli altri partecipanti, onde il proprietario di un vano terraneo dell'edificio condominiale non può eseguire, in corrispondenza dell'accesso al proprio locale, modificazioni della pavimentazione e dell'arredo del marciapiede condominiale, per consentirne l'attraversamento con autovetture, ove da tale utilizzazione della cosa comune risulti alterata la destinazione e sia impedito agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto. (Dichiara inammissibile, CORTE D'APPELLO ROMA).

Cass. civ. n. 32437/2019

In tema di uso della cosa comune, è illegittima l'apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell'edificio condominiale da un comproprietario al fine di mettere in comunicazione un locale di sua proprietà esclusiva, ubicato nel medesimo fabbricato, con altro immobile pure di sua proprietà ma estraneo al condominio, comportando tale utilizzazione la cessione del godimento di un bene comune in favore di soggetti non partecipanti al condominio, con conseguente alterazione della destinazione, giacché in tal modo viene imposto sul muro perimetrale un peso che dà luogo a una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini. (Rigetta, CORTE D'APPELLO VENEZIA, 17/04/2015).

Cass. civ. n. 7618/2019

In tema di condominio di edifici, l'art 1102 c.c. sull'uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante non pone alcun limite minimo di tempo e di spazio per l'operatività delle limitazioni del predetto uso, pertanto può costituire abuso anche l'occupazione per pochi minuti del cortile comune che impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva vietato il parcheggio di motoveicoli nello spazio del cortile condominiale, prospiciente l'immobile di proprietà di uno dei condomini, senza dare rilievo alla sporadicità o saltuarietà delle soste, bastando che queste ostacolassero l'accesso a tale immobile). (Rigetta, TRIBUNALE NAPOLI, 14/12/2017).

Cass. civ. n. 5132/2019

L'esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall'art. 1102 c.c., deve esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa stessa e non può essere esteso, quindi, per il vantaggio di altre e diverse proprietà esclusive del medesimo condomino perché, in tal caso, si verrebbe ad imporre una servitù sulla "res" comune in favore di beni estranei alla comunione, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i comproprietari. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto fosse stata illegittimamente costituita una servitù di passaggio in un caso nel quale una società, proprietaria del primo piano interrato di un edificio condominiale, aveva creato un accesso in favore di un adiacente terreno di sua proprietà, adibito a parcheggio, praticando tre varchi nella recinzione posta sul confine tra gli immobili). (Rigetta, CORTE D'APPELLO BARI, 14/07/2013).

Cass. civ. n. 31462/2018

Qualora un esborso relativo ad innovazioni non debba essere ripartito fra i condomini, per essere stato assunto interamente a proprio carico da uno di essi, trova applicazione la disposizione generale dell'art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune - purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condòmini di farne uguale uso secondo il loro diritto - e può, perciò, apportare alla stessa, a proprie spese, le modificazioni necessarie a consentirne il migliore godimento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di appello che aveva ritenuto l'installazione di un ascensore sulle parti comuni, eseguita dai convenuti in primo grado a loro spese, legittima ex art. 1102 c.c., non ricorrendo una limitazione della proprietà degli altri condomini incompatibile con la realizzazione dell'opera).

Cass. civ. n. 9280/2018

In tema di cd. condominio minimo, in mancanza di tabelle regolarmente approvate, la quota di partecipazione alle spese gravante sui singoli proprietari deve essere determinata dal giudice in base alla disciplina del condominio di edifici di cui all'art. 1123 c.c. e, quindi, tenendo conto del valore delle loro proprietà esclusive, e non, invece, applicando la regolamentazione in materia di comunione prevista dall'art. 1101 c.c., secondo la quale, in assenza di altra indicazione degli accordi, le quote si presumono uguali.

Cass. civ. n. 9100/2018

Il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l'intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo ("uti dominus"), non ha la necessità di compiere atti di "interversio possessionis" alla stregua dell'art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed "animo domini" della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui, non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l'erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore.

Cass. civ. n. 24781/2017

In tema di comunione, il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso e, se già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", senza che possa considerarsi sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune.

Cass. civ. n. 15705/2017

L'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto, ai sensi dell'art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la normale ed originaria destinazione (per il cui mutamento è necessaria l'unanimità dei consensi dei partecipanti) e di impedire agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto, configurando, pertanto, un abuso la condotta del condomino consistente nella stabile e pressoché integrale occupazione di un "volume tecnico" dell'edificio condominiale (nella specie, il locale originariamente destinato ad accogliere la caldaia centralizzata), mediante il collocamento in esso di attrezzature e impianti fissi, funzionale al miglior godimento della sua proprietà individuale.

Cass. civ. n. 8507/2017

Il principio di cui all'art 1102 c.c. sull'uso della cosa comune consentito al partecipante non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali (e loro accessori) e beni condominiali finitimi, che sono disciplinati dalle norme attinenti alle distanze legali ed alle servitù prediali, ossia da quelle che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite e che non contraddicono alla particolare normativa della comunione.

Cass. civ. n. 6253/2017

Il condomino che abbia in uso esclusivo il lastrico di copertura dell'edificio e che sia proprietario dell'appartamento sottostante ad esso può, ove siano rispettati i limiti ex art. 1102 c.c., collegare l'uno e l'altro mediante il taglio delle travi e la realizzazione di un'apertura nel solaio, con sovrastante bussola, non potendosi ritenere, salvo inibire qualsiasi intervento sulla cosa comune, che l'esecuzione di tali opere, necessarie alla realizzazione del collegamento, di per sé violi detti limiti e dovendosi, invece, verificare se da esse derivi un’alterazione della cosa comune che ne impedisca l’uso, come ad esempio, una diminuzione della funzione di copertura o della sicurezza statica del solaio.

Cass. civ. n. 25775/2016

In presenza di un edificio strutturalmente unico, su cui insistono due distinti ed autonomi condominii, è illegittima l’apertura di un varco nel muro divisorio tra questi ultimi, volta a collegare locali di proprietà esclusiva del medesimo soggetto, tra loro attigui ma ubicati ciascuno in uno dei due diversi condominii, in quanto una simile utilizzazione comporta la cessione del godimento di un bene comune, quale è, ai sensi dell'art. 1117 c.c., il muro perimetrale di delimitazione del condominio (anche in difetto di funzione portante), in favore di una proprietà estranea ad esso, con conseguente imposizione di una servitù per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini.

Cass. civ. n. 20565/2016

L'atto interruttivo del possesso "ad usucapionem" posto in essere dall'unico possessore dell'immobile nei confronti di uno o più dei suoi comproprietari, ha effetto anche verso gli altri, ed altrettanto dicasi per la rinuncia del primo a far valere l'usucapione eventualmente già maturata sul medesimo cespite, atteso che l'esercizio del predetto possesso non è configurabile in modo diverso su quote ideali indivise dello stesso bene, che il riconoscimento del diritto altrui, come atto unilaterale non recettizio incompatibile con la volontà del godere del bene "uti dominus", interrompe il termine utile per l'usucapione anche se effettuato nei confronti di soggetti diversi dal titolare del diritto stesso, e che l'efficacia della rinuncia postula solo la inequivocità della volontà del rinunciante.

Cass. civ. n. 17512/2016

Il compossessore che intenda usucapire l'intero bene deve manifestare il dominio esclusivo sull'intera "res" comune attraverso un'attività incompatibile con il possesso altrui, che non sussiste ove provveda al regolare invio dei rendiconti della gestione agli altri quotisti.

Cass. civ. n. 5551/2016

A norma dell'art. 840 c.c., la proprietà del sottosuolo spetta al proprietario del suolo, salvo che in senso contrario disponga lo stesso titolo di acquisto di quest'ultimo oppure che detta proprietà risulti spettare ad altri in base ad un titolo opponibile del proprietario del suolo, ossia per un negozio antecedentemente trascritto o per un fatto di acquisto originario. Tale fatto non può consistere nella mera situazione dei luoghi, come la esclusiva possibilità di accesso al sottosuolo (nella specie una grotta) dal fondo altrui.

In materia di condominio degli edifici, lo spazio aereo sovrastante a cortili comuni - la cui funzione è di fornire aria e luce alle unità abitative che vi prospettano - non può essere occupato dai singoli condomini con costruzioni proprie in aggetto, non essendo consentito a terzi, anche se comproprietari insieme ad altri, ai sensi dell'art. 840, comma 3, c.c., l'utilizzazione, ancorché parziale, a proprio vantaggio della colonna d'aria sovrastante ad area comune, quando la destinazione naturale di questa ne risulti compromessa.

Cass. civ. n. 11903/2015

In tema di comunione, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocabilmente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, sicché, in presenza di un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito avesse, correttamente, escluso l'avvenuto acquisto per usucapione, da parte di un condomino, della porzione del condotto di scarico della spazzatura adiacente al suo appartamento per non essersi palesata in forme inequivoche per gli altri condomini l'intenzione di possedere attesa l'impossibilità, per loro, di ispezionare il condotto a causa del blocco degli sportelli di accesso - presenti su tutti i ballatoi - dovuto a ragioni pratiche e di sicurezza).

Cass. civ. n. 7466/2015

La nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell'art. 1102 cod. civ., non va intesa nei termini di assoluta identità dell'utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l'identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell'oggetto della comunione.

Cass. civ. n. 4501/2015

In tema di uso della cosa comune, è illegittima l'apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell'edificio condominiale da un comproprietario al fine di mettere in comunicazione un locale di sua proprietà esclusiva, ubicato nel medesimo fabbricato, con altro immobile pure di sua proprietà ma estraneo al condominio, comportando tale utilizzazione la cessione del godimento di un bene comune in favore di soggetti non partecipanti al condominio, con conseguente alterazione della destinazione, giacché in tal modo viene imposto sul muro perimetrale un peso che dà luogo a una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini.

Cass. civ. n. 4372/2015

L'uso della cosa comune, in quanto sottoposto dall'art. 1102, cod. civ. ai limiti consistenti nel divieto di ciascun partecipante di alterare la destinazione della stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, non può estendersi all'occupazione di una parte del bene tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all'usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità.

Cass. civ. n. 24295/2014

L'apertura nell'androne condominiale di un nuovo ingresso a favore dell'immobile di un condomino è legittima, ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., in quanto, pur realizzando un utilizzo più intenso del bene comune da parte di quel condomino, non esclude il diritto degli altri di farne parimenti uso e non altera la destinazione del bene stesso.

Cass. civ. n. 19915/2014

In tema di condominio negli edifici, non è automaticamente configurabile un uso illegittimo della parte comune costituita dall'area di terreno su cui insiste il fabbricato e posano le fondamenta dell'immobile, in ipotesi di abbassamento del pavimento e del piano di calpestio eseguito da un singolo condomino, dovendosi a tal fine accertare o l'avvenuta alterazione della destinazione del bene, vale a dire della sua funzione di sostegno alla stabilità dell'edificio, o l'idoneità dell'intervento a pregiudicare l'interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune.

Cass. civ. n. 14245/2014

In tema di uso della cosa comune, per verificare se l'utilizzo diretto e più intenso da parte di un condomino sia legittimo ex art. 1102 cod. civ. e non alteri il rapporto di equilibrio tra i partecipanti, occorre aver riguardo non tanto alla posizione di coloro che abbiano agito in giudizio a tutela del loro diritto, quanto all'uso potenziale spettante a tutti i condomini, proporzionalmente alla rispettiva quota del bene in comunione.

Cass. civ. n. 27233/2013

L'art 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non pone una norma inderogabile. Ne consegue che, i suddetti limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate con i "quorum" prescritti dalla legge, fermo restando che non è consentita l'introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni.

Cass. civ. n. 18350/2013

La sostituzione della canna fumaria pertinente ad unità immobiliare di proprietà esclusiva non reca, di per sé, danno alla cosa comune - la facciata dell'edificio - già utilizzata per l'appoggio, non dovendo alterare, tuttavia, alla luce del collegamento tra gli artt. 1102, 1120, secondo comma, e 1122 c.c., il decoro architettonico del fabbricato.

Cass. civ. n. 15024/2013

I muri perimetrali di un edificio in condominio sono destinati al servizio esclusivo dell'edificio stesso, sicché non possono essere usati, senza il consenso di tutti i comproprietari, per l'utilità di altro immobile di proprietà esclusiva di uno dei condomini e costituente un'unità distinta rispetto all'edificio comune, in quanto ciò costituirebbe una servitù a carico di detto edificio. Pertanto, costituisce uso indebito di cosa comune l'appoggio praticato da un condomino sul muro perimetrale dell'edificio condominiale per realizzare locali di proprietà esclusiva, mettendoli in collegamento con altro suo immobile, in quanto siffatta opera viene ad alterare la destinazione del muro perimetrale e ad imporvi il peso di una vera e propria servitù.

Cass. civ. n. 9633/2013

Il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può usucapire la quota degli altri eredi, purché il tempo necessario al verificarsi di detto acquisto risulti già decorso prima del momento in cui sia intervenuta la divisione negoziale dell'asse con gli altri comunisti, comportando tale atto un riconoscimento inequivocabile e formale della comproprietà, incompatibile, pertanto, con la pretesa di essere divenuto proprietario esclusivo del compendio assegnato.

Cass. civ. n. 2500/2013

Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti - da un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo riguardo alla motivazione - che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso.

Cass. civ. n. 944/2013

L'esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall'art. 1102 c.c., deve esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa medesima e non può essere esteso, quindi, per il vantaggio di altre e diverse proprietà del medesimo condomino, perché in tal caso si verrebbe ad imporre una servitù sulla cosa comune, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i condomini.

Cass. civ. n. 2741/2012

In tema di condominio negli edifici, qualora il proprietario di un'unità immobiliare del piano attico agisca in giudizio per ottenere l'ordine di rimozione di una canna fumaria posta in aderenza al muro condominiale e a ridosso del suo terrazzo, la liceità dell'opera, realizzata da altro condomino, deve essere valutata dal giudice alla stregua di quanto prevede l'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non rilevando, viceversa, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, atteso che la canna fumaria (nella specie, un tubo in metallo) non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto (nella specie, forno di pizzeria).

Cass. civ. n. 23539/2011

In tema di comunione, il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso e, se già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in temi di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", senza che possa considerarsi sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune.

Cass. civ. n. 15203/2011

In tema di comunione, il criterio dell'uso promiscuo della cosa comune, desumibile dall'art. 1102 cod. civ, richiede che ciascun partecipante abbia il diritto di utilizzare la cosa comune come può e non in qualunque modo voglia, atteso il duplice limite derivante dal rispetto della destinazione della cosa e della pari facoltà di godimento degli altri comunisti. Ne consegue che, ove il godimento pregresso non sia possibile per uno dei partecipanti a causa del mutamento elettivo delle sue condizioni personali, questi non può esigere nei confronti degli altri una diversa utilizzazione della cosa comune, avendo il singolo condomino l'onere di conformare ai limiti anche quantitativi del bene le proprie aspettative di utilizzo. (Nella specie, la richiesta di modifica dell'utilizzazione di uno spazio comune destinato a parcheggio condominiale era stata dettata esclusivamente dal sopravvenuto aumento di dimensioni dell'autovettura del ricorrente).

Cass. civ. n. 12310/2011

In tema di condominio negli edifici, il disposto dell'art. 1102 c.c., secondo cui ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un'utilità più intensa o anche semplicemente diversa da quella ricavata eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso, presuppone però che l'utilità, che il condomino intenda ricavare dall'uso della parte comune, non sia in contrasto con la specifica destinazione della medesima. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la liceità della collocazione, da parte di un condomino, di scivoli permanenti sopra un marciapiede per permettere l'accesso di autovetture al locale ad uso negozio di sua proprietà, dal medesimo utilizzato come box auto, così immutando la destinazione del marciapiede, avente per sua natura come funzione tipica quella consentire sicuro transito dei pedoni).

Cass. civ. n. 1062/2011

Al singolo condòmino è consentito servirsi in modo esclusivo di parti comuni dell'edificio soltanto alla duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali, analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione e che lo stesso, ove tutte le predette esigenze risultino soddisfatte, non perda la sua normale ed originaria destinazione, per il cui mutamento è necessaria l'unanimità dei consensi. (Principio enunciato ai sensi dell'art. 360 bis, primo comma, n. 1, c.p.c.).

Cass. civ. n. 24647/2010

Se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento; peraltro fino a quando non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri comproprietari, il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano mostrato acquiescenza all'altrui uso esclusivo, salvo che non risulti provato che i comproprietari che hanno avuto l'uso esclusivo del bene ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale.

Cass. civ. n. 11486/2010

In materia di comunione, ove sia provata l'utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva in modo da impedirne l'uso, anche potenziale, agli altri comunisti, deve ritenersi sussistente un danno "in re ipsa".

Cass. civ. n. 7221/2009

Il coerede che dopo la morte del "de cuius" sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune.

Cass. civ. n. 26737/2008

In tema di condominio, nel caso in cui un condomino utilizzi la canna fumaria dell'impianto centrale di riscaldamento - nella specie per lo scarico dei fumi da una pizzeria - dopo che questo sia stato disattivato dal condominio, sussiste violazione dell'articolo 1102 cod. civ., trattandosi non di uso frazionato della cosa comune, bensì della sua esclusiva appropriazione e definitiva sottrazione alle possibilità di godimento collettivo, nei termini funzionali praticati, per legittimare le quali è necessario il consenso negoziale (espresso in forma scritta. "ad substantiam") di tutti i condomini.

Cass. civ. n. 24243/2008

In tema di uso della cosa comune, vìola l'art. 1102 c.c. l'apertura praticata da un condòmino nella recinzione del cortile condominiale, senza il consenso degli altri condòmini al fine di creare un accesso dallo spazio interno comune ad un immobile limitrofo di sua esclusiva proprietà, determinando, tale utilizzazione illegittima della corte condominiale, la costituzione di una servitù di passaggio a favore del fondo estraneo alla comunione ed in pregiudizio della cosa comune.

Cass. civ. n. 17208/2008

In tema di uso della cosa comune secondo i criteri stabiliti nel primo comma dell'art. 1102 cod. civ., lo sfruttamento esclusivo del bene da parte del singolo che ne impedisca la simultanea fruizione degli altri e non è riconducibile alla facoltà di ciascun condomino di trarre dal bene comune la più intesa utilizzazione, ma ne integra un uso illegittimo in quanto il principio di solidarietà cui devono essere informati i rapporti condominiali richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. (Nella fattispecie la Corte ha escluso la legittimità dell'installazione e utilizzazione esclusiva, da parte di un condomino titolare di un esercizio commerciale, di fioriere, tavolini, sedie e di una struttura tubolare con annesso tendone).

Cass. civ. n. 11204/2008

L'androne o cortile condominiale, comunemente utilizzato per l'accesso veicolare alle singole proprietà private, è funzionalmente destinato anche alla sosta temporanea con veicoli, trattandosi di uso accessorio al passaggio.

Cass. civ. n. 7143/2008

In tema di condominio di edifici, la costruzione da parte di uno dei condomini di una tettoia a copertura di alcuni posti auto siti all'interno della sua proprietà esclusiva non integra violazione delle norme che regolamentano l'uso della cosa comune (art. 1102 c.c.) neppure se essa sia ancorata al muro perimetrale comune, se la costruzione della tettoia (come nella specie) non contrasti con la destinazione del muro e non impedisca agli altri condomini di farne uso secondo la sua destinazione.

Cass. civ. n. 21246/2007

In tema di condominio, con riferimento all'uso della cosa comune ai sensi dell'articolo 1102 c.c., l'abbassamento del soffitto del corridoio condominiale di accesso alle singole unità abitative, effettuato dal condomino nel tratto del corridoio in corrispondenza della soffitta del proprio appartamento, peraltro anche con l'incremento di carichi non accertati dalla competente autorità e senza il rispetto della normativa antisismica — come nella specie —, non costituisce uso della cosa comune, ma acquisizione in maniera definitiva a vantaggio della proprietà esclusiva del singolo condomino di parte della volumetria del corridoio comune con contestuale sottrazione di tale parte comune alla funzione cui essa è destinata a svolgere nel contesto dell'intero corridoio.

Cass. civ. n. 4617/2007

L'uso paritetico della cosa comune, che va tutelato, deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare.

Cass. civ. n. 4386/2007

Nel regime giuridico della comunione di edifici, l'uso particolare che il comproprietario faccia del cortile comune, interrando nel sottosuolo una centrale termica del proprio impianto di riscaldamento, non è estraneo alla destinazione normale di tale area, a condizione che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto in rapporto a quelle del sottosuolo o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l'utilizzazione del cortile praticata dagli altri condomini, né escluda per gli stessi la possibilità di fare del cortile un medesimo e analogo uso particolare.

Cass. civ. n. 26226/2006

In tema di condominio negli edifici, la regolamentazione dell'uso della cosa comune, in assenza dell'unanimità, deve seguire il principio della parità di godimento tra tutti i condomini stabilito dall'art. 1102 c.c., il quale impedisce che, sulla base del criterio del valore delle singole quote, possa essere riconosciuto ad alcuni il diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli altri. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che aveva annullato, per violazione dell'art. 1102 c.c., una delibera assembleare che aveva attribuito il diritto di scegliere i posti auto nel garage condominiale — tra loro non equivalenti per comodità di accesso — a partire dal condomino titolare del pia alto numero di millesimi).

Cass. civ. n. 23612/2006

In tema di condominio, con riferimento all'uso della cosa comune, nel caso in cui il condomino, pur autorizzato dall'assemblea condominiale a realizzare un solaio nel cavedio del ballatoio e a proteggere lo stesso con una vetrata, abbia invece realizzato, sul ballatoio medesimo, oltre al solaio, un manufatto in pannelli di alluminio e cartongesso, sottraendo aria e luce alla restante parte del ballatoio, in contrasto con la destinazione funzionale del cavedio, egli, nell'appropriarsi di tale area, accorpandola al proprio appartamento, incorre violazione dell'articolo 1102 c.c., che non consente di sottrarre definitivamente la cosa comune alle possibilità di utilizzazione collettiva, salvo il consenso unanime dei condomini.

Cass. civ. n. 23608/2006

In tema di innovazioni ed uso della cosa comune, nel caso in cui il condomino, autorizzato dalla delibera dell'assemblea ad installare, a servizio del proprio laboratorio, un macchinario sul cortile del fabbricato, abbia stabilmente occupato una determinata superficie (nella specie, di circa quattro metri quadrati) dell'area comune condominiale, utilizzata in parte come strada di comunicazione con la pubblica via ed in parte come cortile, deve ritenersi realizzata una sottrazione definitiva di tale parte del suolo comune alla sua naturale destinazione ed all'altrui godimento, in relazione alle restrizioni che il suddetto impianto comportava per lo spazio di manovra degli automezzi di trasporto e per le relative operazioni di carico e scarico della ditta del condomino confinante, con conseguente configurabilità della violazione dell'articolo 1120, secondo comma, c.c., avendo la impugnata delibera assembleare determinato la modifica della destinazione originaria di una parte comune con pregiudizio, per l'altro condomino, del godimento della stessa. Sussiste violazione altresì dell'articolo 1102 c.c. (applicabile a tutte le innovazioni che, come nella specie, non comportano ripartizione della relativa spesa fra tutti i condomini ma solo a carico del singolo condomino che se ne sia assunto l'onere), perché l'uso particolare o più intenso del bene comune da parte del condomino si configura come illegittimo quando ne risulta impedito l'altrui paritario uso e sia alterata la destinazione del bene comune, dovendosi escludere che l'utilizzo da parte del singolo della cosa comune possa risolversi nella compressione quantitativa o qualitativa di quella, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari.

Cass. civ. n. 8429/2006

In tema di comunione, l'uso frazionato della cosa a favore di uno dei comproprietari può essere consentito per accordo fra partecipanti solo se l'utilizzazione, concessa nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 1102 c.c., rientri tra quelle cui è destinato il bene e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comunisti, trovando l'utilizzazione da parte di ciascun comproprietario un limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri. Pertanto, qualora la cosa comune sia alterata o addirittura sottratta definitivamente, alla possibilità di godimento collettivo nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nell'ambito dell'uso frazionato consentito, ma nell'appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale di tutti i partecipanti che — trattandosi di beni immobili deve essere espresso in forma scritta ad substantiam. (Nella specie, è stata ritenuta illegittima la costruzione di un porticato e di un marciapiede con cui un comproprietario, autorizzato verbalmente dagli altri, aveva occupato in modo esclusivo una porzione del cortile comune a vantaggio dell'adiacente immobile di sua proprietà, sottraendola in via definitiva all'utilizzazione degli altri comproprietari).

Cass. civ. n. 15379/2005

In tema di condominio, l'art. 1102 c.c. consente al condomino l'utilizzazione più intensa della cosa comune al servizio della sua proprietà esclusiva, purché ne sia consentito il pari uso agli altri partecipi e non ne sia alterata la destinazione, sicché entro tali limiti è legittima anche l'imposizione di un vero e proprio peso sui beni condominiali a vantaggio del singolo appartamento o piano. (Sulla base di tali principi la S.C. ha, peraltro, cassato per insufficienza di motivazione la sentenza che, nel ritenere legittima la chiusura da parte di alcuni condomini, mediante una porta ancorché non chiusa, del pianerottolo in corrispondenza degli appartamenti di loro proprietà esclusiva, si era limitata a definire di scarsa rilevanza la menomazione al godimento della cosa comune, senza specificare — in relazione all'ubicazione, alle dimensioni e alla struttura del manufatto — la natura e l'entità della concreta diminuzione delle facoltà spettanti agli altri condomini secondo la destinazione naturale del bene comune, avuto riguardo anche al decoro dell'edificio).

Cass. civ. n. 1076/2005

In considerazione dei limiti imposti dall'art. 1102 c.c.al condomino che nell'uso della cosa comune non deve alterarne la destinazione ed impedirne il pari uso da parte degli altri comunisti, è legittima l'installazione da parte del condomino di una controporta, collocata a filo del muro di separazione tra l'appartamento e il ballatoio delle scale sul quale si apre, quando la stessa — non riducendo in modo apprezzabile la fruibilità del bene comune da parte degli altri condomini — non determini pregiudizievoli invadenze dell'ambito dei coesistenti diritti degli altri proprietari.

Cass. civ. n. 8852/2004

L'uso particolare o più intenso del bene comune ai sensi dell'art. 1102 c.c. - dal quale esula ogni utilizzazione che si risolva in un'imposizione di limitazioni o pesi sul bene comune — presuppone, perché non si configuri come illegittimo, che non ne risultino impedito l'altrui paritario uso né modificata la destinazione né arrecato pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio. Ne consegue che l'inserimento di una canna fumaria all'interno del muro comune — costituente anche muro di delimitazione della proprietà individuale — ad esclusivo servizio del proprio immobile non può considerarsi utilizzazione in termini di mero «appoggio» della stessa al muro comune, secondo quello che, a determinate condizioni, può costituire uso consentito del bene comune ai sensi della norma in questione, stante il suo peculiare carattere di invasività della proprietà altrui (qual è anche quella non esclusiva bensì comune), anche sotto i meri profili delle immissioni di calore e della limitazione rispetto ad altre possibili e diverse utilizzazioni della cosa che ne derivano.

Cass. civ. n. 17868/2003

Il muro perimetrale di un edificio condominiale può essere utilizzato dal singolo condominio per il migliore godimento della parte di edificio di sua proprietà esclusiva, ma non può essere invece utilizzato, senza il consenso di tutti i condomini, per l'utilità di un altro immobile di sua esclusiva proprietà, in quanto ciò implica la costituzione di una servitù in favore di un bene estraneo al condominio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la necessità del consenso di tutti i condomini per la edificazione da parte di uno di essi di una tettoia di copertura di un'area di esclusiva proprietà di quest'ultimo, realizzata mediante il suo inserimento nel muro perimetrale comune, che aveva assunto la funzione di quarta parete del nuovo vano).

Cass. civ. n. 13424/2003

Tenuto conto che, ai sensi del primo comma dell'art. 1102 c.c., l'uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è legittimo purché non ne alteri la destinazione e non impedisca il pari uso da parte degli altri, la compromissione da parte di un comproprietario dell'uso da parte degli altri configura un atto illecito. Ad una tale conclusione non osta la previsione di cui al secondo comma dell'art. 1102 c.c. in quanto essa si limita a prevedere che il mutamento del compossesso in possesso esclusivo determina una situazione di fatto idonea all'acquisto per usucapione.

Cass. civ. n. 12343/2003

Alle modificazioni consentite al singolo condomino ex art. 1102, primo comma, c.c. si applica anche, in via analogica, per la identità di ratio, il divieto di alterare il decoro architettonico del fabbricato previsto in materia di innovazioni dall'art. 1120, secondo comma, dello stesso codice.

Cass. civ. n. 11419/2003

In tema di possesso ad usucapionem di beni immobili, la fattispecie acquisitiva del diritto di proprietà si perfeziona allorché il comportamento materiale — continuo ed ininterrotto — attuato sulla res sia accompagnato dall'intenzione resa palese a tutti di esercitare sul bene una signoria di fatto corrispondente al diritto di proprietà, sicché — in materia di usucapione di beni oggetto di comunione — il comportamento del compossessore, che deve manifestarsi in un'attività apertamente ed obiettivamente contrastante con il possesso altrui, deve rivelare in modo certo ed inequivocabile l'intenzione di comportarsi come proprietario esclusivo.

Cass. civ. n. 8830/2003

In applicazione del principio secondo il quale, in tema di comunione, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un'utilità maggiore e più intensa di quella tratta eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso — e senza che tale uso più intenso sconfini nell'esercizio di una vera e propria servitù —, deve ritenersi che l'apertura di due porte su muri comuni per mettere in comunicazione l'unità immobiliare in proprietà esclusiva di un condomino con il garage comune rientra pur sempre nell'ambito del concetto di uso (più intenso) del bene comune, e non esige, per l'effetto, l'approvazione dell'assemblea dei condomini con la maggioranza qualificata, senza determinare, a più forte ragione, alcuna costituzione di servitù.

Cass. civ. n. 8808/2003

La nozione di pari uso della cosa comune cui fa riferimento l'art. 1102 c.c — che in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c. è applicabile anche in materia di condominio negli edifici — non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell'uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è stato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto. Pertanto, raffigura un uso più ampio della cosa comune — ricompreso nelle facoltà attribuite ai condomini dall'art. 1102, primo comma, c.c. — l'apertura di un varco nella recinzione comune (con apposizione di un cancello) effettuata per mettere in comunicazione uno spazio condominiale con una strada aperta al passaggio pubblico, sia pedonale che meccanizzato.

Cass. civ. n. 4900/2003

L'utilizzazione del muro comune con l'inserimento di elementi ad esso estranei e posti a servizio esclusivo della porzione di uno dei comproprietari, deve avvenire nel rispetto delle regole dettate dall'art. 1102 c.c., e in particolare del divieto di alterare la destinazione della cosa comune, impedendo l'uso del diritto agli altri proprietari, e di quelle dettate in materia di distanze, allo scopo di non violare il diritto degli altri condomini esercitabile sulle porzioni immobiliari di loro proprietà esclusiva. (In applicazione di tale principio, la Corte ha considerato corretta la valutazione di illegittimità, data dal giudice di merito, con riguardo all'inserimento — nel muro comune — di alcuni tubi di scarico, oltre la linea mediana, osservando che in tal modo veniva impedito al comproprietario di fare un uso del muro, nella metà di sua pertinenza, pari a quello fatto dall'altro proprietario).

Cass. civ. n. 12569/2002

In tema di condominio negli edifici, la costruzione di balconi e pensili sul cortile comune è consentita al singolo condomino, purché, ai sensi dell'art. 1102 c.c., non risulti alterata la destinazione del bene comune e non sia impedito agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (nella fattispecie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso avverso la sentenza con cui il giudice di merito aveva ritenuto che l'edificazione, nel cortile comune, di due balconi alterasse la destinazione del cortile medesimo, diminuendo l'utilizzazione dell'aria e della luce che il bene era destinato ad assicurare).

Cass. civ. n. 10453/2001

In tema di comunione, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest'ultimi. In particolare, per stabilire se l'uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c., non deve aversi riguardo all'uso concreto fatto della cosa dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; l'uso deve ritenersi in ogni caso consentito, se l'utilità aggiuntiva, tratta dal singolo comproprietario dall'uso del bene comune, non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene e sempre che detto uso, non dia luogo a servita a carico del suddetto bene comune. (Nella specie, la Corte ha confermato la sentenza di merito, secondo la quale la realizzazione di un passo carraio tra un fondo di proprietà esclusiva e la strada comune costituiva un uso consentito al condomino, in quanto non snaturava la funzione cui la strada era destinata, ne impediva l'uso della stessa da parte dell'altro comproprietario).

Cass. civ. n. 6921/2001

È violato il disposto dell'art. 1102 c.c., quando la costruzione nel sottosuolo del fabbricato condominiale di un vano destinato esclusivamente al soddisfacimento di esigenze personali e familiari di un condomino, impedisce agli altri condomini di fare del sottosuolo e del relativo sedime un pari uso, soprattutto in considerazione della vastità della superficie interessata e della destinazione del vano ad un uso esclusivo incompatibile con la natura condominiale del bene utilizzato.

Cass. civ. n. 4135/2001

Le limitazioni poste dall'art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione. (Nella specie è stata confermata l'illegittimità dell'uso dei muri condominiali per praticarvi aperture di comunicazione fra le adiacenti aree condominiali ed un locale sotterraneo, che il condomino intendeva dotare di uscite di sicurezza per adibirlo a discoteca).

Cass. civ. n. 15390/2000

La modifica di una finestra in una porta-finestra, per accedere da un'area rimasta in comune tra proprietari di unità abitative di proprietà esclusiva, ad una di queste, configura un asservimento del bene comune all'immobile esclusivo soltanto se detta area è del tutto avulsa dalle singole unità immobiliari e perciò non si inserisce in una più ampia situazione di condominialità. Diversamente, se l'area è strettamente funzionale al miglior godimento delle proprietà individuali, la trasformazione può esser inquadrata in una utilizzazione della cosa comune, ai sensi dell'art. 1102 c.c., nel qual caso è necessario valutare se con l'apertura della porta-finestra il condomino realizza una migliore utilizzazione dell'area, ovvero se ne altera la destinazione, e comunque se vi è compatibilità con il pari diritto degli altri partecipanti. Pertanto il giudice del merito deve prioritariamente accertare se sussiste l'una o l'altra situazione di fatto e poi derivarne le rispettive conseguenze giuridiche.

Cass. civ. n. 8886/2000

L'uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è sottoposto dall'art. 1102 c.c. a due limiti fondamentali consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nel divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. La valutazione della legittimità di un uso particolare in riferimento ai parametri suindicati va verificato dal giudice del merito in base al confronto tra uso diverso e destinazione possibile della cosa, quale stabilita anche per implicito dai condomini.

Cass. civ. n. 6341/2000

L'appoggio di una canna fumaria (come, del resto, anche l'apertura di piccoli fori nella parete) al muro comune perimetrale di un edificio condominiale individua una modifica della cosa comune conforme alla destinazione della stessa, che ciascun condomino — pertanto — può apportare a sue cure e spese, sempre che non impedisca l'altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell'edificio, e non ne alteri il decoro architettonico; fenomeno — quest'ultimo — che si verifica non già quando si mutano le originali linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull'insieme dell'armonico aspetto dello stabile.

Cass. civ. n. 42/2000

... il condomino, nel caso in cui il cortile comune sia munito di recinzione che lo separi dalla sua proprietà esclusiva, può apportare a tale recinzione, pur essa condominiale, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti alla comunione, tutte le modifiche che gli consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini e, quindi, procedere anche all'apertura di un varco di accesso dal cortile condominiale alla sua proprietà esclusiva, purché tale varco non impedisca agli altri condomini di continuare ad utilizzare il cortile, come in precedenza.

Cass. civ. n. 11520/1999

Il limite che l'art. 1102 c.c. pone al potere di utilizzazione della cosa comune da parte di ciascun condomino è quello del divieto di alterarne la destinazione e di impedire che altri ne faccia parimenti uso secondo il suo diritto. Pertanto l'uso particolare della cosa comune da parte del condomino non deve determinare pregiudizievoli invadenze nell'ambito dei coesistenti diritti degli altri proprietari, ancorché non ne sia impedito l'uso.

Cass. civ. n. 8591/1999

In tema di condominio di edifici l'apertura di un varco su un muro comune che metta in comunicazione il terreno di proprietà esclusiva di un singolo condomino con quello comune non dà luogo alla costituzione di una servitù (che richiederebbe il consenso di tutti i condomini) quando il terreno comune viene già usato come passaggio pedonale e carrabile, sempre che l'opera realizzata non pregiudichi l'eguale godimento della cosa comune da parte degli altri condomini, vertendosi in una ipotesi di uso della cosa comune a vantaggio della cosa propria che rientra nei poteri di godimento inerenti al dominio.

Cass. civ. n. 6382/1999

Il godimento del bene comune può essere invocato dal comproprietario, al fine dell'usucapione della proprietà dello stesso, solo quando si traduca in un possesso esclusivo con riguardo sia al corpus che all'animus incompatibile con il permanere del compossesso altrui.

Cass. civ. n. 5546/1999

L'escavazione del sottosuolo condominiale da parte di un condomino per collegare con una scala le unità immobiliari al piano terreno con quelle poste al seminterrato, tutte di sua proprietà esclusiva, non comporta appropriazione del bene comune e non costituisce innovazione vietata, perché non determina l'inservibilità del bene comune all'uso e al godimento a cui è destinato.

Cass. civ. n. 1367/1999

In tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio dei possesso ad usucapionem, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell'altro compossessore, risultando, per converso, necessario, a fini di usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell'interessato attraverso un'attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene.

Cass. civ. n. 1162/1999

La collocazione di una tubatura di scarico di un servizio, di pertinenza esclusiva di un condomino, in un muro maestro dell'edificio condominiale, rientra nell'uso consentito del bene comune, per la funzione accessoria cui esso adempie, restando impregiudicata la domanda di condanna del risarcimento del danno, anche in forma specifica, ossia mediante sostituzioni e riparazioni, proponibile per le infiltrazioni alla proprietà, o comproprietà, di altro condomino.

Cass. civ. n. 10175/1998

L'art. 1102 c.c. vieta al singolo partecipante di attrarre la cosa comune o una sua parte nell'orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarlo in tal modo alla possibilità di godimento degli altri contitolari, estendendosi il diritto di ciascuno nei limiti della quota su tutta la cosa. L'utilizzazione della cosa comune o di una sua porzione da parte di uno o di alcuni dei partecipanti deve ritenersi legittima solo nel caso in cui sia attuata in esecuzione di uno specifico accordo concluso tra tutti i titolari del diritto.

Cass. civ. n. 1708/1998

Il principio della comproprietà dell'intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all'apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell'esercizio dell'uso del muro — ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi — e di non alterarne la normale destinazione. Costituisce, per converso, uso abnorme del muro perimetrale l'apertura, da parte di un condomino, di un varco che consenta la comunicazione tra il proprio appartamento ed altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, ma ricompresa in un diverso edificio condominiale, il collegamento tra tali unità abitative determinando, inevitabilmente, la creazione di una servitù a carico di fondazioni, suolo, solai e strutture del fabbricato (a prescindere dalla creazione di una eventuale servitù di passaggio a carico di un ipotetico ingresso condominiale su via pubblica).

Cass. civ. n. 1498/1998

Il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune può aprire su esso abbaini e finestre - non incompatibili con la sua destinazione naturale - per dare aria e luce alla sua proprietà, purché le opere siano a regola d'arte e non ne pregiudichino la funzione di copertura, né ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo.

Cass. civ. n. 11631/1997

A norma dell'art. 1102 c.c., ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. La legge non richiede necessariamente una formale manifestazione di volontà da parte del comproprietario in ordine all'uso della cosa comune, in quanto l'ostacolo diretto al pari uso della cosa può risultare, oltre che da un rifiuto, anche da comportamenti al fine equivalenti da apprezzare in relazione alle condizioni oggettive del bene comune ed alle modalità d'uso.

Cass. civ. n. 4394/1997

Nel regime giuridico del condominio di edifici, l'uso particolare che il condomino faccia del cortile comune, interrando nel sottosuolo di esso un serbatoio per gasolio, destinato ad alimentare l'impianto termico del suo appartamento condominiale, è conforme alla destinazione normale del cortile, a condizione che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto in rapporto a quelle del sottosuolo, o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l'utilizzazione del cortile praticata dagli altri condomini, né escluda per gli stessi la possibilità di fare del cortile stesso analogo uso particolare.

Cass. civ. n. 3874/1997

La locazione a terzi di una unità immobiliare compresa in un edificio in condominio pone il conduttore in una posizione non diversa da quella del proprietario in nome del quale egli detiene. Pertanto il conduttore può, al pari del suo dante causa, liberamente godere ed eventualmente modificare le parti comuni dell'edificio, purché in funzione del godimento o del miglior godimento dell'unità immobiliare oggetto primario della locazione (limite cosiddetto interno) e purché non risulti alterata la destinazione di dette parti, né pregiudicato il pari suo uso da parte degli altri condomini (limite cosiddetto esterno).

Cass. civ. n. 12231/1995

La disposizione dell'art. 1102, comma 2, c.c., secondo la quale il partecipante alla comunione non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, impedisce al compossessore che abbia utilizzato la cosa comune oltre i limiti della propria quota non solo l'usucapione ma anche la tutela possessoria del potere di fatto esercitato fino a quando questo non si riveli incompatibile con l'altrui possesso.

Perché il compossessore possa estendere il suo possesso in via esclusiva sul bene comune non sono sufficienti singoli atti di utilizzazione della cosa comune al di là della misura del potere del singolo partecipante, i quali sono da presumersi compiuti per mera tolleranza degli altri partecipanti, ma occorrono atti integranti un comportamento durevole, tale da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini su tutta la cosa, incompatibile con il permanere dei possesso altrui.

Cass. civ. n. 5640/1995

Il comproprietario può usucapire la proprietà esclusiva della cosa comune solo possedendola, animo domini, per il tempo necessario, in modo inconciliabile con la possibilità di fatto di un godimento comune, come nel caso in cui la cosa venga attratta nella sua sfera di materiale ed esclusiva disponibilità mediante una attività che valga, comunque, ad escludere il concorrente compossesso degli altri comproprietari.

Cass. civ. n. 3368/1995

La nozione di pari uso della cosa comune che ogni compartecipe nell'utilizzare la cosa medesima deve consentire agli altri, a norma dell'art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico perché l'identità nello spazio o addirittura nel tempo potrebbe importare il divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso particolare o a proprio esclusivo vantaggio. Ne deriva che per stabilire se l'uso pia intenso da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di equilibrio fra partecipanti al condominio — e perciò da ritenersi non consentito a norma dell'art. 1102 — non deve aversi riguardo all'uso fatto in concreto di detta cosa da altri condomini in un determinato momento, ma di quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno.

Cass. civ. n. 11138/1994

L'esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall'art. 1102 c.c., deve esaurirsi della sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa medesima e non può essere esteso, quindi, per il vantaggio di altre e diverse proprietà del medesimo condomino perché in tal caso si verrebbe ad imporre una servitù sulla cosa comune per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i condomini.

Per il combinato disposto degli artt. 1117 e 840 c.c., il sottosuolo costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell'area superficiale che è alla base dell'edificio condominiale, ancorché non menzionato espressamente da detto art. 1117, va considerato di proprietà comune in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva a uno dei condomini, e ciò anche con riguardo alla funzione di sostegno che esso contribuisce a svolgere per la stabilità del fabbricato. Pertanto, un condomino non può senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione procedere alla escavazione in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, giacché con l'attrarre la cosa comune nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, viene a ledere il diritto di proprietà dei condomini su una parte comune dell'edificio.

Cass. civ. n. 10704/1994

Nel caso di edifici in condominio, i proprietari dei singoli piani possono utilizzare i muri comuni, nella parte corrispondente agli appartamenti di proprietà esclusiva, aprendovi nuove porte o vedute preesistenti o trasformando finestre in balconi o in pensili, a condizione che l'esercizio della indicata facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 c.c., non pregiudichi la stabilità e il decoro architettonico dell'edificio e non menomi o diminuisca sensibilmente la fruizione di aria e luce per i proprietari dei piani inferiori. (Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto sussistente una sensibile diminuzione di aria e luce in danno dell'appartamento sito al piano terra, in conseguenza della costruzione di balconi da parte dei proprietari degli appartamenti siti al primo e al secondo piano, in relazione anche alla giacitura particolare dell'edificio condominiale, il cui piano terra si trovava di circa due metri al di sotto della latistante via pubblica).

Cass. civ. n. 10699/1994

Poiché l'uso della cosa comune è sottoposto dall'art. 1102 c.c. ai due limiti fondamentali consistenti nel divieto per ciascun partecipante di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, esso non può estendersi alla occupazione di una parte del bene comune, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, alla usucapione della parte occupata.

Cass. civ. n. 9497/1994

La norma contenuta nell'art. 1102 c.c., nel sancire il diritto di ogni partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne uso secondo il loro diritto, gli attribuisce la facoltà di apportarvi, a tal fine, le modificazioni necessarie al suo miglioramento ma non certamente quella di eliminarla, sia pure per sostituirla poi con altra di diversa consistenza e struttura. Ne consegue che l'abbattimento di un muro portante di un edificio in condominio — sia pur sostituito, come nella specie, da travi in ferro — incidendo sulla struttura essenziale della cosa comune e sulla precipua funzione, non può farsi rientrare nell'ambito delle facoltà concesse al singolo partecipante alla comunione dal citato art. 1102 c.c., ma costituisce vera e propria innovazione, soggetta, come tale, alle regole dettate dall'art. 1120 c.c.

Cass. civ. n. 7652/1994

L'art. 1102 c.c. intende assicurare al singolo partecipante, per quel che concerne l'esercizio del suo diritto, la maggior possibilità di godimento della cosa comune, nel senso che, purché non resti alterata la destinazione del bene comune e non venga impedito agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa, egli deve ritenersi libero di servirsi della cosa stessa anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, senza che possano costituire vincolo per lui forme più limitate di godimento attuate in passato dagli altri partecipanti, e può scegliere, tra i vari possibili usi quello più confacente ai suoi personali interessi. (Nella specie si è escluso che esorbiti dal corretto uso della cosa comune la transennatura e l'occupazione periodica di un portico con legna da parte di un condomino, in assenza di prova del carattere stabile dell'occupazione e di un apprezzabile pregiudizio per gli altri condomini).

Cass. civ. n. 7464/1994

Dal solaio che divide due unità abitative, l'una all'altra sovrapposta, formando una struttura comune che i proprietari delle due unità possono modificare solo alla condizione che non venga alterata la destinazione della cosa e che non sia impedito all'altro di farne parimenti uso secondo il suo diritto, deve essere distinta la copertura (o pavimento) del solaio, che appartiene esclusivamente al proprietario dell'abitazione sovrastante e che può essere, quindi, da questo liberamente rimossa o sostituita secondo la sua utilità e convenienza.

Cass. civ. n. 5223/1993

Ogni trasformazione che rende interna una luce che prima era esterna, ne riduce, di regola, l'utilità perché impedisce di ricevere luce ed aria direttamente dall'esterno, sicché, quando la trasformazione riguarda il muro comune nel quale il condomino ha diritto di mantenere la luce, illecitamente eccede l'ambito dei poteri di utilizzazione della cosa comune, che l'art. 1102 c.c. riconosce ad ogni condomino solo nei limiti in cui non sia alterata la destinazione della cosa o impedito agli altri condomini di fare uso di tale cosa secondo il loro diritto.

Cass. civ. n. 5006/1993

Allorché un coerede utilizzi ed amministri un bene ereditario provvedendo, tra l'altro, alla sua manutenzione, sussiste la presunzione iuris tantum che egli agisca in tale qualità e che anticipi le spese anche relativamente alla quota degli altri coeredi. Pertanto, il coerede che invochi l'usucapione ha l'onere di provare, a norma dell'art. 1102 c.c., il mutamento del titolo del possesso, ossia che il rapporto materiale con il bene si sia verificato in modo da escludere, con palese manifestazione del volere, gli altri coeredi dalla possibilità di instaurare un analogo rapporto con il bene ereditario.

Cass. civ. n. 3923/1993

Chi intraprende la ricostruzione di un muro comune e non intende estenderla a tutto lo spessore del muro stesso, ha l'obbligo di iniziarla dal confine della sua proprietà esclusiva: diversamente egli attrarrebbe nella sua sfera di proprietà esclusiva una porzione della cosa comune, in violazione del disposto dell'art. 1102 c.c.

Cass. civ. n. 1933/1993

Quando viene scoperto un testamento che modifica le quote che andrebbero attribuite agli eredi legittimi, il precedente compossesso dei beni ereditari da parte dei predetti eredi (legittimi) non può essere considerato possesso di beni altrui e, quindi, non può essere utile ai fini della usucapione.

Cass. civ. n. 172/1993

Il condomino non ha il dovere di limitare l'uso della cosa comune ai soli casi in cui il suo interesse non possa essere altrimenti soddisfatto con il medesimo costo, perché il solo limite che l'art. 1102 c.c. pone al potere di utilizzazione della cosa comune da parte di ciascun condomino è quello del divieto di alterarne la destinazione e di impedire che altri ne faccia parimenti uso secondo il suo diritto.

Cass. civ. n. 3942/1991

La costruzione di manufatti nel cortile comune di un fabbricato condominiale è consentita al singolo condomino solo se non alteri la normale destinazione di quel bene, non anche, pertanto, quando si traduca in corpi di fabbrica aggettanti, con incorporazione di una parte della colonna d'aria sovrastante ed utilizzazione della stessa ai fini esclusivi (nella specie, trattavasi della costruzione di "bovindi").

Cass. civ. n. 3369/1991

La sostituzione, ad opera del proprietario dell'ultimo piano di un edificio condominiale, del tetto con una diversa copertura (terrazza) che, pur non eliminando l'assolvimento della funzione originariamente svolta dal tetto stesso, valga ad imprimere al nuovo manufatto, per le sue caratteristiche strutturali e per i suoi annessi, anche una destinazione ad uso esclusivo dell'autore dell'opera, costituisce alterazione della destinazione della cosa comune in violazione del primo comma dell'art. 1102 c.c., e non può considerarsi insita nel più ampio diritto di sopraelevazione spettante al proprietario dell'ultimo piano.

Cass. civ. n. 10294/1990

Il partecipante alla comunione può usucapire l'altrui quota indivisa del bene comune senza necessità di interversio possessionis, ma attraverso l'estensione del possesso medesimo in termini di esclusività. A tal fine si richiede, tuttavia, che tale mutamento del titolo (art. 1102, secondo comma, c.c.) si concreti in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo domini della cosa incompatibili con il permanere del compossesso altrui sulla stessa e non soltanto in atti di gestione della cosa comune consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri (art. 1141 c.c.) o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dar luogo a una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore.

Cass. civ. n. 8040/1990

Con riguardo ad edificio in condominio, per cui il regolamento condominiale preveda l'assoluto divieto di sopraelevazione, l'erezione da parte del proprietario dell'ultimo piano di un comignolo sul tetto di proprietà comune per la fuoriuscita del fumo di un camino installato nella sua abitazione, ove non comporti pregiudizio per la stabilità e la sicurezza del fabbricato ovvero l'alterazione del suo decoro architettonico, non costituisce innovazione vietata ai sensi dell'art. 1122 c.c. bensì una mera modificazione del tetto comune, consentita ai termini dell'art. 1102 c.c., allorquando non incida sulla sostanza e struttura del bene comune, sì da alterare l'originaria ed unica funzione di copertura dell'edificio, senza impedire agli altri condomini l'eventuale identico uso del tetto stesso.

Cass. civ. n. 7825/1990

Con riguardo ad un edificio in condominio ancorché dotato di antenna televisiva centralizzata, né l'assemblea dei condomini, né il regolamento da questa approvato possono vietare l'installazione di singole antenne ricetrasmittenti sul tetto comune da parte dei condomini, in quanto in tal modo non vengono disciplinate le modalità di uso della cosa comune, ma viene ad essere menomato il diritto di ciascun condomino all'uso della copertura comune, incidendo sul diritto di proprietà dello stesso.

Cass. civ. n. 7704/1990

In tema di condominio negli edifici, i pianerottoli quali componenti essenziali delle scale comuni e così avendo funzionale destinazione al migliore godimento dell'immobile da parte di tutti i condomini, non possono essere trasformati, dal proprietario dell'appartamento che su di essi si affacci, in modo da impedire l'uso comune, mediante l'incorporazione nell'appartamento, comportando una alterazione della destinazione della cosa comune ed una utilizzazione esclusiva di essa, lesiva del concorrente diritto degli altri condomini nonché - in sede possessoria – lesiva del compossesso degli stessi.

Cass. civ. n. 5122/1990

La trasformazione in balcone o terrazza, ad opera di un condomino, di una o più finestre del suo appartamento, all'uopo ampliando le finestre esistenti, a livello del suo appartamento, nel muro perimetrale comune e innestando in questo lo sporto di base del balcone terrazza, non importano una innovazione della cosa comune, a norma dell'art. 1120 c.c., bensì soltanto quell'uso individuale della cosa comune il cui ambito ed i cui limiti sono disciplinati dagli artt. 1102 e 1122 c.c.; accertare se detto ambito e detti limiti siano stati in concreto rispettati o meno è compito del giudice di merito.

Cass. civ. n. 2944/1990

In tema di comunione, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, né una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi, per un verso, l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, per altro verso, denoti inequivocabilmente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva, per cui ove possa sussistere un ragionevole dubbio sul significato dell'atto materiale, il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva.

Cass. civ. n. 4201/1987

Il condomino che inserisce una canna fumaria nel lastrico solare comune, incorporandola stabilmente con opere murarie al servizio esclusivo del proprio appartamento, pone in essere un atto di utilizzazione della cosa comune non consentita dall'art. 1102 c.c. atteso che a differenza dell'installazione di canne fumarie nei muri perimetrali, che non ne altera la principale funzione, la collocazione di canne fumarie nel lastrico solare comporta una sottrazione della relativa porzione di bene comune all'uso degli altri condomini con limitazione della utilizzazione del piano di calpestio e la compromissione della sua funzione di copertura.

Cass. civ. n. 2440/1987

Il solaio che divide due unità abitative, l'una all'altra sovrapposta, costituisce una struttura comune ai proprietari di dette unità, i quali, pertanto, ai sensi dell'art. 1102 c.c., possono apportarvi modifiche, alla condizione che non venga alterata la destinazione della cosa comune e che non sia impedito all'altro soggetto di farne parimenti uso, secondo il suo diritto.

Cass. civ. n. 5949/1986

Il naturale scolo, in un cortile condominiale, delle acque grondanti da cornicioni, balconi o terrazze delle abitazioni che vi si affacciano, il quale non si ricollega ad un diritto di servitù, ma configura esercizio del diritto di comproprietà, resta soggetto ai limiti fissati dall'art. 1102 c.c., e non può quindi implicare un'alterazione della destinazione della cosa comune, od un impedimento del pari uso degli altri partecipanti, né un danneggiamento della cosa medesima o delle proprietà esclusive dei singoli condomini. (Nella specie, alla stregua del principio di cui sopra, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione dei giudici del merito, che avevano dichiarato illegittima l'apertura di un foro, alla base di un parapetto, convogliante l'acqua piovana nel cortile con violenta caduta e danneggiamento di porzioni condominiali).

Cass. civ. n. 1598/1986

Quando un cortile sia comune a due edifici, ciascuno costituente un autonomo condominio, e manchi al suo riguardo una disciplina contrattuale vincolante per tutti i comproprietari dei due edifici, l'uso del cortile da parte di questi ultimi non è assoggettato sia al regolamento dell'uno che a quello dell'altro condominio, essendo, invece, applicabili le norme sulla comunione in generale, e, in particolare, l'art. 1102 c.c., in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la sua destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Cass. civ. n. 421/1986

Il divieto di modificare la cosa comune, sottraendola alla possibilità di sfruttamento da parte di tutti i partecipanti alla comunione secondo l'originaria funzione della cosa stessa, opera anche in relazione alle porzioni del bene comune delle quali i comproprietari si siano concordemente attribuito il godimento separato, in quanto anche in tal caso, non venendo meno la contitolarità dell'intero bene, la facoltà di utilizzazione della cosa attribuita a ciascuno dei comproprietari trova limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri, con la conseguenza che sono consentite solo le opere necessarie al miglior godimento, e dovendo per contro ravvisarsi una lesione del diritto di comproprietà degli altri condomini quando la cosa comune sia stata alterata, in tutto od in parte, e quindi concretamente sottratta alla possibilità dell'attuale sfruttamento collettivo nei termini funzionali o originariamente praticati.

Cass. civ. n. 1529/1985

In tema di comunione ordinaria ed ereditaria il compartecipe può usucapire la cosa senza necessità dell'interversione del possesso (art. 1164 c.c.), attraverso la semplice estensione del possesso medesimo in termini di esclusività, ma a questo fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso della cosa, occorrendo, altresì, che detto compartecipe ne abbia goduto in modo obiettivamente inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus. (Nella specie, in applicazione del surriportato principio, non si è ritenuto sufficiente, al fine della prova del possesso esclusivo di un immobile di proprietà comune, l'assunzione da parte di uno dei compartecipi, di tutti gli oneri ordinari e straordinari di miglioria).

Cass. civ. n. 1132/1985

Il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale non può eseguire nella sua proprietà esclusiva opere che, in contrasto con quanto stabilito dalla norma dell'art. 1122 c.c., rechino danno alle parti comuni dell'edificio stesso, né, a maggior ragione, opere che, attraverso l'utilizzazione delle cose comuni, danneggino le parti di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva di un altro condomino. (Nella specie, in applicazione del surriportato principio la S.C. ha confermato la decisione di merito con cui si è ritenuto che al proprietario di un appartamento non sia consentito costruire sul suo balcone una veranda in appoggio al muro comune dell'edificio condominiale la quale raggiunga l'altezza del piano superiore diminuendo il godimento dell'aria e della luce al proprietario del piano contiguo).

Cass. civ. n. 6192/1984

L'utilizzazione della cosa comune ad opera del condomino può avvenire tanto secondo la destinazione usuale della cosa stessa, quanto in modo particolare e diverso da quello praticato dagli altri partecipanti alla comunione, sempre però nell'ambito della destinazione normale della cosa senza alterazione del rapporto di equilibrio tra le utilizzazioni concorrenti attuali e anche potenziali di tutti i comproprietari, ma non quando quel godimento peculiare e inconsueto del singolo compartecipante determini pregiudizievoli invadenze nell'ambito dei coesistenti diritti degli altri comproprietari. (Nella specie, si è ritenuto che il comproprietario di una striscia di terreno non abbia il diritto di occupare lo spazio aereo sovrastante la striscia stessa con una costruzione sullo stesso aggettante, in quanto in tal caso la occupazione si risolve in un'utilizzazione particolare realizzata mediante la stabile incorporazione al contiguo bene del singolo comproprietario di una porzione dello spazio aereo sovrastante il bene comune).

Cass. civ. n. 3599/1982

L'asservimento compiuto da uno dei comproprietari di parte del sottosuolo del terreno comune per suo uso esclusivo (nella specie, mediante la costruzione di una fossa di latrina), non costituisce un uso più intenso, ma appropriazione della parte stessa, vietata dall'art. 1102 c.c., poiché rimane precluso agli altri comproprietari di farne pari uso.

Cass. civ. n. 2751/1982

Con riguardo al muro perimetrale di un edificio condominiale, il quale è oggetto di comunione per tutta la sua estensione, ivi comprese le parti corrispondenti ai piani e ad appartamenti di proprietà individuale, l'utilizzazione del singolo partecipante deve ritenersi preclusa non solo quando ne alteri la destinazione od impedisca agli altri condomini un pari uso (art. 1102 c.c.), ma anche quando implichi una lesione del diritto di altro partecipante sul bene di sua proprietà esclusiva (nella specie, trattandosi di una scala esterna che toglieva luce ed aria ad un sottostante appartamento).

Cass. civ. n. 6669/1981

Il comproprietario che abbia l'autonomo godimento del bene comune, per poterne utilmente invocare l'usucapione, deve dimostrare di avere usato detto bene, avendone il possesso esclusivo, inteso questo come costituito sia dal corpus che dall'animus, oltre la quota in relazione alla quale, nei limiti del suo diritto, tale possesso si presume, ovvero, qualora abbia successivamente esteso il proprio diritto, deve provare di avere, da un determinato momento, sostituito all'originario godimento uti condominus quello animo domini.

Cass. civ. n. 2805/1981

Ricorre l'ipotesi di innovazione lesiva del diritto degli altri condomini nell'escavazione da parte di uno o più di essi nel sottosuolo comune, allorché vengano realizzate opere che ne limitino l'uso ed il godimento da parte degli altri condomini.

Cass. civ. n. 3422/1978

L'inserimento di una canna fumaria entro un muro comune, da parte di un partecipante alla relativa comunione, rappresenta utilizzazione della cosa comune a norma dell'art. 1102 c.c.

Cass. civ. n. 3405/1978

... non costituisce innovazione, ma rientra nell'uso legittimo del cortile comune, la costruzione, nel sottosuolo del cortile stesso, di tubo di scarico tra l'appartamento di un condomino e la fogna comunale, giacché essa, mentre non altera la destinazione obiettiva del cortile, che è quella di dare aria e luce agli appartamenti ed ai piani ed agli edifici circostanti, costituisce un'utilità accessoria che il suddetto bene comune può offrire ai condomini, purché tale uso sia mantenuto nei limiti dell'art. 1102 c.c.

Cass. civ. n. 2816/1978

Il diritto del condomino di usare le parti comuni dell'edificio, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso (artt. 1102 e 1139 c.c.), implica per questi ultimi l'obbligo di comportarsi in modo da non rendere impossibile, e ingiustificatamente più gravoso, l'uso del singolo e così il dovere di quell'attiva cooperazione necessaria per l'uso del condomino. Pertanto, qualora un terzo estraneo alla comunione, ma di cui il condomino debba necessariamente avvalersi per la sua posizione di monopolio o supremazia, contesti il diritto del condomino di fare un certo uso legittimo della cosa comune senza il preventivo nullaosta degli altri condomini, costoro non possono rifiutarne il rilascio, sempreché il rifiuto non risulti in concreto giustificato da un ragionevole motivo. (Nella specie l'ACEA e la soc. Romana Gas, richiesti da un condomino dell'installazione dei servizi di acqua e gas, avevano preteso il preventivo nullaosta del condominio).

Cass. civ. n. 2814/1978

Il comproprietario di una stradella comune, posta al servizio dei singoli fondi appartenenti in proprietà esclusiva a ciascun partecipante alla comunione, può legittimamente aprirvi l'accesso ad un locale costruito sul proprio suolo e destinato ad autorimessa, ai sensi dell'art. 1102 c.c., qualora non ne derivi un mutamento dell'originaria destinazione della stradella né un impedimento per gli altri condomini di farne pari uso.

Cass. civ. n. 2749/1978

L'indagine sulla illiceità o meno dell'uso della cosa comune, da parte del condomino di edificio, va condotta alla stregua degli obiettivi criteri legali della sussistenza o meno di un pregiudizio alla cosa medesima, ovvero di una lesione del diritto di godimento spettante agli altri partecipanti, mentre rimane irrilevante, a tal fine, ogni valutazione sulla concreta idoneità di quell'uso ad arrecare utilità al suo autore, salva la configurabilità di atti d'emulazione, ai sensi ed agli effetti di cui all'art. 833 c.c. Nel contrasto fra le parti, il giudice è chiamato a dichiarare la volontà concreta della legge nel fatto dedotto ed accertato, non anche ad indicare astrattamente quali fatti sarebbero conformi o meno a diritto. Pertanto, nella controversia diretta a stabilire la liceità od illiceità di una determinata opera, eseguita da un condomino su parte comune di edificio (nella specie, vetrina apposta su muro perimetrale), non può ritenersi consentito di richiedere al giudice di indagare o pronunciarsi su quali eventuali modifiche di quell'opera potrebbero assicurarne la liceità.

Cass. civ. n. 2666/1978

Nel caso di strada consortile, costituita ex agris collatis, ciascuno partecipante alla relativa comunione immobiliare non può, senza il consenso degli altri condomini, servirsi della strada comune a vantaggio di altro immobile di sua esclusiva proprietà, distinto dai fondi a servizio dei quali la strada medesima sia stata originariamente destinata, in quanto tale uso verrebbe a risolversi nell'imposizione di una servitù, a carico della cosa comune, con pregiudizio degli altri partecipanti alla comunione.

Cass. civ. n. 2408/1978

Il proprietario di un appartamento sito in uno stabile condominiale ha diritto di ottenere l'eliminazione di uno sporto costruito sul muro comune, in corrispondenza dell'appartamento sovrastante, quando tale manufatto importa una sensibile diminuzione di luce e di aria ai danni dell'unità immobiliare di sua proprietà; e ciò indipendentemente dal fatto che il terreno contiguo allo stabile, cui aggetta il manufatto medesimo, appartenga al condominio ovvero al condomino attore in via esclusiva.

Cass. civ. n. 1951/1978

L'interramento di un serbatoio per nafta in una strada comune non è astrattamente idoneo a violare il diritto di ciascun condomino di usare della cosa comune, ove il giudice del merito non abbia accertato che tale uso non consenta il passaggio sulla strada o che impedisca agli altri condomini di utilizzare analogamente il sottosuolo, secondo il loro diritto; il che non comporta che gli altri partecipanti debbano utilizzare quello stesso spazio occupato dal serbatoio, dal momento che lo spazio del sottosuolo non è oggetto del diritto, ma il luogo ove il diritto viene esercitato.

Cass. civ. n. 1524/1978

Il proprietario di vani terranei in un edificio condominiale non può abbassare il livello dei relativi pavimenti per ingrandire il volume dei vani stessi o per ricavarne altri di sua esclusiva proprietà neppure ove esistano, sotto i pavimenti, massetti e vespai, destinati all'utilità dei vani cui sottostanno poiché anche ove risulti provata l'appartenenza di tali manufatti al proprietario dei vani sovrastanti, non diviene, per questo fatto, di proprietà singola l'area condominiale in cui i manufatti stessi si trovano immersi.

Cass. civ. n. 1456/1978

La costruzione di un pozzo nero, eseguita nel cortile comune da parte di uno dei condomini dell'edificio, che ricada, in virtù del principio dell'accessione, in comunione pro indiviso, e del quale, pertanto, gli altri condomini possono fare uso al pari del condominio costruttore, rappresenta un uso consentito della cosa comune, non dando luogo ad alterazione dell'utilizzazione diretta dell'area sovrastante secondo la sua destinazione naturale e non impedendo, nel caso in cui non sia sufficiente a soddisfare le esigenze delle varie unità immobiliari, la possibilità di una pari utilizzazione della parte residua del fondo.

Cass. civ. n. 3351/1977

La tollerabilità, o meno, del pregiudizio che la costruzione di uno sporto nel muro perimetrale comune può arrecare alla presa di aria e luce di locali appartenenti a uno dei condomini dipende non solo dall'ampiezza dello sporto e dalla superficie del cortile eventualmente antistante all'edificio, ma soprattutto, dalla distanza in cui tale sporto viene a trovarsi dalle sottostanti aperture; se tale distanza risulta esigua, anche l'esistenza di un ampio cortile potrebbe non compensare adeguatamente una diminuzione di aria e soprattutto di luce.

Cass. civ. n. 2589/1977

Qualora risulti accertato dal giudice del merito che l'apertura praticata da un condomino in corrispondenza delle scale del fabbricato comune non abbia apportato alcun mutamento alla conformazione e allo spazio delle scale, non abbia limitato il godimento degli altri condomini, non abbia arrecato alcun danno alle parti comuni o pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza e al decoro architettonico del fabbricato, la relativa fattispecie rientra nella disciplina dell'uso della cosa comune.

Cass. civ. n. 1368/1977

Il muro perimetrale di un edificio condominiale, che abbia anche funzione di divisione e confine fra l'edificio medesimo e la proprietà esclusiva di un singolo condomino (nella specie, giardino con autorimessa), non può essere utilizzato dagli altri partecipanti per l'installazione di tubi del gas, in quanto, in tale ipotesi trovano applicazione le norme sui rapporti di vicinato, e, quindi, sussiste l'obbligo di tenere dette condutture alla distanza di almeno un metro dal confine (art. 889, secondo comma c.c.).

Cass. civ. n. 1355/1977

Ciascun partecipante alla comunione immobiliare non può, senza il consenso degli altri condomini, servirsi della cosa comune a vantaggio di altro immobile di sua esclusiva proprietà, distinto dai fondi a servizio dei quali la cosa medesima sia stata originariamente destinata, in quanto tale uso verrebbe a risolversi nell'imposizione di una servitù. Pertanto, con riguardo ad un cortile comune fra i proprietari dei fabbricati circostanti ed adibito al miglior godimento dei medesimi, deve ritenersi precluso al proprietario del singolo fabbricato, in difetto di consenso degli altri condomini, di attraversare detto cortile con condutture di gas od acqua, che siano destinate ad approvvigionare non quel fabbricato, ma un altro distinto immobile di sua proprietà, rimanendo irrilevante che tale ultimo fine sia realizzato, non con condutture autonome, rispetto a quelle adducenti al fabbricato compreso nell'area condominiale, ma con successive derivazioni da tali condutture.

Cass. civ. n. 620/1977

Costituisce pregiudizio al concorrente diritto degli altri condomini, di utilizzare in modo conveniente il muro comune, la installazione in esso di una canna fumaria che, per le sue dimensioni o per la sua ubicazione, riduca in modo apprezzabile la visuale di cui tali condomini godono dalle finestre site nello stesso muro.

Cass. civ. n. 179/1977

Gli sporti che il singolo condomino ha diritto di costruire sul cortile comune debbono essere concretamente realizzati in maniera che non venga alterata la destinazione di tale cortile, che è principalmente quella di fornire luce ed aria agli immobili circostanti, ed in modo che la loro costruzione non si ponga in contrasto con le esigenze di un pari uso dello stesso cortile da parte degli altri comproprietari nonché con quelle di qualsiasi altro miglior uso che i medesimi possono fare in altra parte della cosa comune, nei limiti di cui all'art. 1102 c.c., in relazione alle ragionevoli prospettive offerte dalla struttura, ubicazione e destinazione delle proprietà individuali

Cass. civ. n. 78/1977

Anche nel caso in cui una parte dell'edificio condominiale necessaria all'uso comune si appartenga in proprietà esclusiva ad uno soltanto dei condomini, questi è tenuto, nell'esercizio delle sue facoltà di godimento, a rispettare la destinazione obiettiva della suddetta parte all'utilità generale dell'intero condominio. Per cui, financo al condomino che sia proprietario esclusivo dell'intero cortile sul quale prospettano gli appartamenti dello stabile, è vietato di eseguirvi costruzioni o manufatti che impediscano o limitino l'esercizio del diritto, spettante ex lege agli altri condomini, di trarre dallo stesso cortile la luce e l'aria necessarie ai loro rispettivi appartamenti.

Cass. civ. n. 4658/1976

In tema di condominio negli edifici, al fine dell'indagine sulla legittimità o meno di opere che, partendo dalla cosa di pertinenza esclusiva del singolo proprietario o compossessore, incidano su spazio o superficie oggetto di comunione (nella specie, cortile), occorre distinguere il caso in cui quelle opere, per loro conformazione e struttura, determinino un'occupazione ed incorporazione stabile, nel bene individuale, di porzione dello spazio e superficie comune, dal caso in cui le medesime si limitino a sporgere e sovrastare su detto spazio o superficie. Nella prima ipotesi, l'illegittimità è insita nel fatto, comportando questo un'oggettiva sottrazione di porzione del bene comune all'uso degli altri compartecipanti. Nella seconda ipotesi, l'illegittimità ricorre ove risulti che il manufatto del singolo, in relazione alla dimensione, entità di sporgenza ed altezza della superficie sottostante, comporti, in concreto, impedimento od ostacolo al normale godimento del bene comune da parte degli altri compartecipanti.

Cass. civ. n. 3256/1976

L'apposizione, da parte di un condomino e per la propria esclusiva utilità, di una canna fumaria lungo il muro perimetrale di un edificio non integra una modificazione della cosa comune necessaria al suo miglior godimento (s'intende: da parte di tutti i condomini) ai sensi dell'art. 1102 c.c., ma costituisce innovazione, che può, secondo la insindacabile valutazione del giudice del merito, alterare il decoro architettonico dell'edificio stesso, e di cui può pertanto ordinarsi la rimozione ex art. 1120, secondo comma, c.c.

Cass. civ. n. 2543/1976

I balconi di un edificio condominiale prospicienti sul cortile comune appartengono in via esclusiva, assieme alla colonna d'aria, soprastante a ciascuno di essi, ai proprietari dei singoli appartamenti ai quali accedono, in qualità di pertinenza. Ne consegue che ciascun condomino ha il diritto di trasformare in veranda il balcone di sua proprietà senza dover richiedere l'autorizzazione degli altri compartecipi imposta dal regolamento del condominio soltanto per le innovazioni delle parti comuni dell'edificio.

Cass. civ. n. 1836/1976

A norma dell'art. 1102 c.c. ciascun condomino può servirsi della cosa comune apportandovi le modificazioni che egli ritenga utili per il miglior godimento di essa, fino a sostituirla con altra che offra maggiore funzionalità. Tali facoltà, peraltro, sono legittime solo se si esplicano nei limiti dettati dalla legge, e cioè con l'astensione da ogni alterazione del bene comune e conservando la possibilità dell'uso di esso da parte di ogni altro condomino nell'ambito del suo diritto. I limiti ora indicati non vengono superati dal solo fatto dell'uso più intenso da parte di uno o pia condomini, purché attraverso lo stesso non si giunga al turbamento dell'equilibrio con tutti i diritti di costoro o a un cambiamento della destinazione del bene comune, non soltanto in vista dell'uso attuale, ma anche di quello potenziale secondo la natura della cosa e il fine al quale essa venne predisposta, sicché resta del tutto indifferente — salvo che in relazione alla costituzione di diritti esclusivi a favore di alcuno dei condomini o di terzi — che da tempo più o meno lungo uno o più degli interessati non si siano serviti del bene in questione.

Cass. civ. n. 624/1976

L'immissione di balconi e pensili su un cortile comune, pur comportando l'occupazione con un'opera solida e stabile dell'area sovrastante, si risolve in un ampliamento della presa di aria e luce da parte del singolo condomino e, non alterando la destinazione normale del cortile, deve ritenersi pienamente legittima, salvo che, per la dimensione degli sporti, non si verifichi un uso della cosa comune esorbitante dai limiti previsti dalla legge. Ben diversa, invece, è la situazione che si determina per l'aggetto di un vero e proprio corpo di fabbrica, poiché in tal caso alla incorporazione di una parte della colonna d'aria del cortile si connette anche la finalità di assegnare alla superficie del cortile stesso la qualità e la natura di spazio sfruttabile a fini costruttivi dai singoli comproprietari, a vantaggio delle rispettive proprietà, e quindi per l'utilità e disponibilità esclusiva degli stessi, con la conseguente alterazione della destinazione normale del cortile comune che non può essere consentita.

Cass. civ. n. 501/1976

L'occupazione da parte di un condomino dello spazio aereo sovrastante una striscia di terreno comune, destinata a mettere in comunicazione due cortili, per mezzo di una costruzione aggettante che sporge all'altezza di tre metri dal suolo, costituisce un'illegittima estensione della proprietà individuale sulla cosa comune a danno degli altri proprietari, i quali subiscono una definitiva sottrazione del loro potere dispositivo e di utilizzazione a seguito di opere che impediscano o diminuiscano sensibilmente il passaggio e l'utilizzazione dell'aria e della luce.

Cass. civ. n. 3282/1975

Uno dei coeredi può acquistare per usucapione non soltanto l'intero compendio ereditario, ma anche esclusivamente la quota di uno soltanto degli altri coeredi. Quest'ultima ipotesi si realizza nel caso in cui il coerede abbia posseduto animo
domini, il detto compendio in modo incompatibile con la possibilità di godimento di uno o di alcuni soltanto degli altri partecipanti alla comunione, fermo restando il compossesso dei restanti coeredi, limitatamente alle rispettive quote.

Cass. civ. n. 2293/1975

... deve ritenersi lecita l'apposizione di una conduttura di acque luride di scarico alla parete di un pianerottolo, in modo che essa non sia visibile, poiché l'uso, futuro ed eventuale, che di essa parete vogliano fare gli altri condomini (apposizione di altri tubi, apertura di porte, ecc.), potrà essere determinato secondo il criterio dell'equo contemperamento dei diversi interessi.

Deve ritenersi lecita la collocazione di un tubo d'acqua potabile sul tetto di un edificio, purché la funzione propria del tetto non ne venga menomata.

Cass. civ. n. 1560/1975

Il condomino di un edificio non può, eseguendo una costruzione in aderenza al muro perimetrale comune, chiudere un'apertura destinata a dare luce ad un vano di proprietà di altro condomino, giacché l'art. 1102 c.c. gli vieta di attrarre nella sua sfera esclusiva un elemento comune dell'edificio, con correlativo impedimento per un altro condomino di continuare a farne uso in conformità alla sua destinazione.

Cass. civ. n. 4091/1974

Il condomino di un viale, posto a servizio dei singoli fondi appartenenti in proprietà esclusiva a ciascun partecipante alla comunione, che abbia mutato la destinazione del suo fondo rustico erigendovi una costruzione per abitazione, attua un'utilizzazione individuale più intensa della cosa comune che deve ritenersi legittima, qualora l'originaria destinazione del viale non ne risulti mutata e non risulti impedito un pari uso da parte degli altri condomini.

Cass. civ. n. 2897/1974

Non è consentito al singolo condomino di utilizzare l'androne comune come passaggio per accedere ad un distinto e separato edificio di sua esclusiva proprietà, dando luogo ad una servitù a favore di quest'ultimo immobile con evidente pregiudizio per gli altri partecipanti alla comunione.

Cass. civ. n. 776/1974

L'utilizzazione, da parte del singolo condomino, del muro perimetrale dell'edificio per le sue particolari esigenze è legittima purché non alteri la natura e la destinazione del bene, non impedisca agli altri condomini di farne uso analogo e non arrechi danno alle proprietà individuali dei medesimi altri condomini.

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Consulenze legali
relative all'articolo 1102 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

A. F. chiede
lunedì 12/02/2024
“Buongiorno. Con la presente vorrei chiedere l'esatta normativa vigente per l'assegnazione dei posti auto in condominio.
Nel 2003 l'assemblea ( all'epoca abitavano i miei genitori), individuò 14 posti auto ( 4 lasciati per gli ospiti e 10 ai condomini).
Si prosegui anche ad una sorta di sorteggio per alcuni posti.
Posso impugnare tale decisione ?
Tra l'altro essendoci una famiglia che ha un bimbo autistico, vorrei lasciare il posto migliore per i genitori.
Attendo per eventuali altri chiarimenti
Grazie”
Consulenza legale i 14/02/2024
Non vi sono gli estremi per impugnare la decisione. I condomini riuniti in assemblea hanno tutto il diritto di decidere come meglio utilizzare le loro parti comuni, come una area di parcheggio condominiale, assegnando anche i vari stalli a sorteggio: in questo senso, ad esempio, è molto chiara Cassazione Sez.II con sentenza n. 12485 del 19.07.2012.
La delibera, quindi, non appare viziata in nessun modo ed è vincolante per tutti i condomini ai sensi del 1° comma dell' art. 1137 del c.c..


U. S. chiede
mercoledì 20/09/2023
“Sto per acquistare una casa in una corte/strada privata con all'interno 6 abitazioni, di cui 4 con accesso anche veicolare dotate di giardino di proprietà. La mia non ha il garage, verificato la possibilità all'ufficio tecnico di un'apertura nella facciata sacrificando una stanza, pensavo di fare i lavori. Sorge un dubbio .. gli altri proprietari potrebbero vantare diritti al ripristino, una volta fatta l'opera, in quanto modifica il mio utilizzo delle parti comuni, servendomi del passaggio veicolare che prima non avevo? Nel senso che non avendo il garage, potevo solo entrare a piedi (o in auto solo per carico e scarico, diritto non scritto da nessuna parte).
grazie”
Consulenza legale i 26/09/2023
Per quanto si è capito i lavori che si intendono effettuare non coinvolgono parti comuni del complesso edile in cui sono ricomprese le 6 abitazioni autonome. I lavori per la creazione del garage, infatti, rimangono all’interno della singola proprietà esclusiva: per questo non vi è ragione di temere una qualche fondata lamentela da parte degli altri comproprietari.

La creazione di un nuovo garage nell'abitazione non comporta una modifica della destinazione d’uso del vialetto di accesso, modifica che sarebbe vietata ai sensi dell’art. 1102 del c.c. Con la nuova autorimessa non si farebbe altro che avere un uso più intenso rispetto a prima dei vialetti di accesso presenti nel complesso, uso più intenso che certamente non contrasta con le norme del codice civile disciplinanti la comunione ed in particolare con il già citato art. 1102 del c.c. L’uso più intenso dei vialetti, infatti, non impedirebbe anche agli altri comproprietari di utilizzare a loro volta i medesimi vialetti per accedere alle loro proprietà.

L. O. chiede
mercoledì 13/09/2023
“Contesto di sei villette con giardino comunale condiviso (parti comuni).
I documenti catastali evidenziano che nel giardino comune vi sono 6 posti auto... posti auto mai utilizzati, e mai piantumato. Gli altri comproprietari mi impediscono l'uso del posto auto, in quanto sono (a loro dire) la maggioranza. Chiedo, non essendo mai stata espressa questa ultima volontà per scritto (non abbiamo amministratore), se non forse verbalmente negli anni (ho acquistato l'anno scorso e nell atto di acquisto è ben specificato che esiste un posto auto all'interno del giardino) quale maggioranza deve esserci per un cambio di utilizzo della parte comune. Quale diritto hanno di inibire un mio diritto nonostante ne sia comproprietario?”
Consulenza legale i 26/09/2023
Tutti i partecipanti alla comunione hanno il diritto di godere della cosa comune allo stesso modo, senza alterarne la destinazione o impedire agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto (art. 1102 c.c.).
L’art. 1108 del c.c. stabilisce qual è la maggioranza necessaria per poter votare le innovazioni e gli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e i limiti a questo potere.
Infatti, le innovazioni possono essere approvate con la maggioranza dei due terzi del valore complessivo della cosa comune purché siano dirette al miglioramento della cosa o ne rendano più comodo il godimento e non pregiudichino il godimento degli altri partecipanti o non comportino una spesa eccessivamente gravosa.
Anche gli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possono essere approvati con la stessa maggioranza purché non risultino pregiudizievoli all’interesse dei partecipanti.

Solo con una delibera votata all’unanimità può essere trasformato un bene comune in un bene di proprietà esclusiva di uno o più comproprietari (Cass. civ. n. 6090/2020).

In sostanza, è vietato modificare la cosa comune in modo da sottrarla all’utilizzo di tutti i comproprietari.

Nel caso di specie, quindi, a meno che all’unanimità tutti i compartecipi alla comunione decidano di destinare il giardino ad altra funzione rispetto a quella di posto auto prevista nell’atto di acquisto, gli altri comproprietari non possono vietare ad uno di essi di parcheggiare la macchina.

Il comproprietario potrebbe introdurre un’azione di reintegrazione o manutenzione nel possesso se tale possesso fosse stato esercitato da lui o dal precedente proprietario.
Sembra, però, che il giardino non sia mai stato utilizzato come parcheggio e quindi, si presume, che nemmeno il precedente proprietario abbia mai esercitato il proprio diritto sulla parte comune.
Non essendoci stato un possesso, non è possibile per il proprietario attuale introdurre un’azione a tutela dello stesso.

Il proprietario dovrà invece fare un’azione petitoria in cui farà riconoscere il proprio diritto di proprietà sulla parte comune e il suo diritto a utilizzare il giardino come posto auto.

G. C. chiede
lunedì 31/07/2023
“Sono proprietario di 7/9 di un immobile A/3 con sottotetto C/2. Da visura catastale ho diritto di abitazione di 6/9 per entrambi. Ho residenza anagrafica e domicilio nel C/2. Ho due sorelle che, per detti immobili, hanno ciascuna la proprietà di 1/9.
Quali diritti hanno mie sorelle su questi immobili? (per esempio: averne le chiavi, utilizzarli ad uso personale, richiedere pigioni al sottoscritto, ecc)
Consulenza legale i 05/08/2023
L’art. 1102 del c.c. dispone che ciascun comproprietario ha la facoltà di servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione economica e non impedisca agli altri comproprietari di farne parimenti uso.
La facoltà di utilizzo del bene comune è potenzialmente illimitata e totale, sicuramente non condizionata dall’ammontare della quota ideale di comproprietà riconducibile a ciascun comunista.

Balza quindi subito all’occhio come il comportamento tenuto dall’attuale occupante sia fatto in violazione del principio espresso dall’art. 1102 del c.c., per il semplice motivo che egli si è completamente appropriato del bene escludendo gli altri comproprietari dal possesso del cespite e dalla possibilità di utilizzarlo. In altri termini, da una situazione di compossesso da dividersi tra tutti si è giunti ad un possesso esclusivo da parte di un solo comunista che non trova giustificazione, a quanto pare, in un idoneo titolo giuridico. Questo rimane vero indipendentemente dal fatto che l’occupante detenga la maggioranza delle quote di comproprietà, perché come già si è detto le facoltà previste dall’art. 1102 del c.c. non sono in alcun modo limitate dall’ammontare della quota di comproprietà.

Data questa situazione, gli altri comproprietari avrebbero pieno diritto di agire nei confronti dell’occupante ai sensi dell’art. 1168 del c.c. richiedendo dapprima la loro reintegrazione nel possesso dell’abitazione e delle sue pertinenze (Cass.Civ. n.17988/2004) per poi rivendicare la proprietà della loro quota. Da un punto di vista pratico per chi occupa abusivamente può comportare anche lo sgombero del cespite, anche se l’occupante ne è comproprietario, per giunta con quote maggioritarie.

L’occupazione abusiva, inoltre, causa un danno agli altri comunisti sotto l’aspetto del lucro cessante: viene infatti a loro impedito di percepire i frutti civili dell’appartamento comune; tale danno viene commisurato dalla giurisprudenza nel valore figurativo di un ipotetico canone locatizio di mercato (Cass.Civ.n.17876/2019). Ovviamente nel caso specifico il valore locatizio del bene dovrà essere abbattuto in proporzione alla quota di comproprietà riconducibile al danneggiante che lo occupa.
Facciamo un esempio pratico: dato un valore locatizio di Euro 400,00 al mese, esso dovrà essere abbattuto di 7/9 (pari alla quota di comproprietà dell’occupante): risulta quindi un valore locatizio della restante quota di 2/9 pari ad € 89,00 mensili, somma che dovrà essere divisa fra gli altri due comproprietari in parti uguali. Visto che l’attuale occupante detiene anche la maggioranza delle quote di comproprietà, il danno da occupazione abusiva che può essere a lui richiesto non è detto che si traduca in una cifra elevata; ciò non toglie che questo danno può essere comunque preteso.

Quanto detto vale per ristorare i due comunisti pretermessi dal godimento dal danno patito per l’occupazione pregressa del bene. Per quanto riguarda il futuro essi ovviamente ben potrebbero pretendere dall’occupante il pagamento di un canone di affitto, previa stipula di un regolare contratto di locazione registrato presso l’Agenzia delle Entrate competente, se, come si è già detto sopra, i due non preferiscano invece agire per sgomberare il bene.

Si precisa infine che il diritto di abitazione per 6/9 attribuibile ad un comproprietario viene assorbito dal fatto che il medesimo soggetto è anche pieno proprietario della quota di 7/9: non si può essere infatti al contempo titolari per 6/9 di un diritto di abitazione e pieni proprietari per una quota superiore di 7/9; questa seconda situazione giuridica esclude di fatto la possibilità che la prima possa ancora essere giuridicamente esistente. Le intestazioni catastali, quindi, andrebbero corrette, cosa che verrà sicuramente fatto da un Notaio qualora sorgesse la necessità di vendere il bene.



S. G. chiede
domenica 07/05/2023
“Spett. Avvocato,

sono nudo proprietario di un appartamento (+ garage) in cui attualmente vivono i miei genitori (usufruttuari) e proprietario di un locale a piano terra di circa 20 metri quadrati.
Alla palazzina in esame si può accedere tramite l'apertura di un cancello a radiocomando.
Mio padre attualmente usufruisce del posto macchina.
In questo condominio, non ci sono amministratori esterni, non c'è un regolamento condominiale e i posti macchina disponibili superano quelli effettivamente occupati dai proprietari degli appartamenti dello stabile.

Io sono proprietario di due autovetture e nello stabile in cui risiedo (adiacente al precedente) da circa 4 anni, ho a disposizione un solo posto macchina. Ho usufruito del parcheggio condominiale dei miei genitori fino a Novembre dell'anno scorso, quando un condomino (attualmente amministratore) mi ha detto che non ho alcun diritto di parcheggio nella loro area.

Ho sentito il parere di un avvocato e di un amministratore di condominio, i quali con motivazioni differenti, mi hanno detto che ho diritto a parcheggiare. La loro consulenza non ha però dipanato i miei dubbi:se da un lato il posto macchina dovrebbe spettarmi perchè ho dei diritti di proprietà, dall'altro lato penso di non poterlo fare visto che non risiedo in quello stabile e il posto macchina dovrebbe spettare ai residenti!

In attesa di una vostra risposta, vi ringrazio anticipatamente.

Cordiali saluti”
Consulenza legale i 10/05/2023
Si conferma il parere che è stato già fornito dai precedenti professionisti.

Essendo lei pieno proprietario di una unità immobiliare ricompreso nel condominio (locale piano terra di 20 mq), riveste la qualifica di condomino ed è quindi comproprietario unitamente agli altri partecipanti al condominio delle aree comuni. Questo le dà il diritto di utilizzare dette aree in conformità alla destinazione d’uso così come previsto dall’art. 1102 del c.c., il quale prevede appunto che ciascun partecipante alla comunione possa servirsi della cosa comune fermo restando il rispetto della sua destinazione d’uso e garantendo il pari uso anche agli altri comproprietari. Tra l’altro il pari uso dell’area è assolutamente garantito dal fatto che la sua estensione è maggiore rispetto ai posti auto effettivamente necessari.


M. C. chiede
domenica 16/04/2023
“Condominio in località marina dotato di giardino condominiale. il regolamento predisposto dal costruttore stabilisce soltanto che il giardino è di proprietà comune, senza altro disporre. Non mi sono mai interessato del giardino, che - a detta di alcuni condomini- avrebbe solo funzione ornamentale. Ho chiesto lumi all'Amministratore per avere conferma e conoscere se vi fosse stata una precedente delibera sul punto. Lo Stesso -senza nulla rispondermi- ha inserito all'O.d.G. dell'assemblea del 24 marzo u.s. il seguente punto: "Usufruibilità del giardino condominiale. Regolamentazione. La votazione ha dato il seguente risultato: contrari all'usufruibilità : 10 condomini su 39 per m/m. 303,090 favorevoli all'usufruibilità: 6 condomini su 39 per m/m. 108,440 La delibera è legittima ???”
Consulenza legale i 20/04/2023
A parere di chi scrive la delibera è radicalmente nulla, pertanto non avrebbe alcun valore giuridico se fatta valere in giudizio e potrebbe essere impugnata in ogni tempo anche oltre i rigidi termini previsti dall’ art. 1137 del c.c.
È pacifico che il giardino sia un bene condominiale e pertanto ad esso trova diretta applicazione l’art. 1102 del c.c. ed in particolare, per il caso specifico, la sua prima parte, secondo il quale: "Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto".

E’ principio assolutamente granitico del diritto condominiale che l’assemblea non possa a colpi di maggioranza negare l’utilizzo di un bene comune o una sua determinata funzione (utilizzo): una delibera di questo tipo sarebbe, infatti, contraria al principio espresso dalla norma che si sta commentando. Ad esempio, in ragione di ciò Cass.Civ. Sez.II, n.2957 del 07.02.2018, ha ritenuto illegittima la delibera assembleare che impone al condomino di lasciare liberi da qualsiasi ingombro le aiuole e gli spazi verdi condominiali, in quanto il giardino per sua natura non ha solo un valore ornamentale, ma può avere anche altre finalità, come quella di svago di gioco bimbi, prendere il sole ecc. ecc.

Una decisione, quindi, che limitasse un determinato uso del giardino condominiale potrebbe essere valida solo se adottata con la unanimità dei consensi, quindi di tutti i proprietari. In alternativa tali disposizioni dovrebbero trovarsi contenute all'interno di un regolamento avente chiara natura contrattuale, ma questo non pare essersi concretizzato nel caso di specie.

V. B. chiede
martedì 25/10/2022 - Toscana
“Abito in una villetta di mia proprietà ubicata in una strada privata, che è larga 8 metri e presenta molteplici stalli gialli per il parcheggio delle auto. Domanda: è lecito che un comunista pretenda di usare in esclusiva il posto auto adiacente alla sua abitazione, considerato che tale superfice è di sua proprietà ma fa parte del bene comune che è la strada privata?”
Consulenza legale i 31/10/2022
Il principio che regola i rapporti tra i partecipanti ad una comunione è quello del pari uso della cosa comune da parte di tutti i compartecipi (art. 1102 c.c.).
Ciò significa che tutti i comunisti devono avere la possibilità di usare e godere pienamente del bene comune senza alterare la destinazione d’uso o impedire agli altri di farne uso allo stesso modo secondo il loro diritto.

La giurisprudenza a tal proposito si è espressa specificando che la nozione di pari uso non deve intendersi nel senso di uso identico e contemporaneo ma implica pur sempre che la destinazione della cosa resti compatibile con i diritti degli altri partecipanti (Cass. Civ. n. 11870/2021).
È quindi illegittima l’utilizzazione di un posto auto, presente sulla strada privata bene comune, in maniera esclusiva poiché va a limitare e a impedire la possibilità di uso e godimento da parte degli altri comproprietari.

Non è configurabile un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune perché costituisce una contraddizione in sé e risulta contraria al principio di numerus clausus dei diritti reali (Cass. Civ. Sez. Unite 28972/2020). Nel caso in cui i partecipanti ad una comunione si accordassero per assegnare l’uso esclusivo di un’area comune ad uno di essi, tale diritto costituirebbe solo un rapporto obbligatorio, valido esclusivamente fra le parti contraenti e non opponibile ad eventuali terzi.

Si segnala che, nell’ipotesi in cui uno dei comunisti inizi a possedere una parte comune in via esclusiva attraverso atti tollerati dagli altri e con possessio animo domini incompatibile con il possesso altrui, potrà usucapire il diritto di proprietà esclusiva dopo vent’anni di possesso continuato e ininterrotto art. 1158 del c.c..

Poiché nel quesito non è specificato quale sia il contenuto dei titoli di provenienza dei soggetti coinvolti e quindi l’estensione dei diritti di proprietà dei compartecipi, si ritiene precisare che è diversa la fattispecie in cui l’area di parcheggio presente sulla strada comune risulti essere, dall’atto di provenienza di uno dei partecipanti, di sua proprietà esclusiva.
In tal caso non ci sarebbe nessuna preclusione all’esistenza di un diritto reale di proprietà esclusiva sul bene comune strada e il titolare avrebbe pacificamente il diritto di utilizzare il suo bene in via esclusiva.

F. G. chiede
venerdì 21/10/2022 - Lazio
“Buonasera,
sono in comproprietà al 50% con mio fratello di due immobili ed un terreno lasciatoci in eredità dai nostri genitori.
Ora io abito fin dal lontano 1979, con l'allora benestare assoluto dei miei genitori, in uno dei due immobili che vale molto meno dell'altro in quanto il mio è nella provincia di Roma e l'altro in zona centrale di Roma.
Sono stata chiamata in causa da mio fratello perché non riconosce il valore maggiore della casa di Roma rimasta vuota dopo la morte di mia madre ultima usufruttuaria dopo mio padre.
Ora il CTU nominato dal Tribunale ci ha convocato per una eventuale conciliazione, ha fatto la stima totale dell intera eredità ed ha precisato che io che occupo l'immobile di valore minore dovrei pagare a mio fratello un ipotetico affitto mensile calcolato in circa 400 euro mensili (il 50% di 800) per un totale di euro 23000 ca, considerati arretrati di 5 anni proprio dopo la morte di mia madre usufruttuaria.
Ora io mi chiedo può pretendere tale cifra visto che non mi è mai stato chiesto di andarmene esplicitamente e non esiste alcun contratto tra noi che comprovi tale accordo e quindi se non pago posso chiedere provocatoriamente di sfrattarmi e se tutto ciò può essere possibile vista la completa disponibilità dell altro immobile sempre al 50% che è rimasto vuoto da 5 anni in attesa di deciderne la spartizione. Inoltre la causa intentata da lui andrà avanti ancora chissà ancora per quanto tempo ed io non ritengo giusto pagare tale affitto non concordato e chiedo se posso comunque pretendere solo però da ora in poi un contratto senza il quale mi sento esonerata dal pagamento.
Grazie per un vostro cortese parere e invio cordiali saluti”
Consulenza legale i 27/10/2022
Quanto osservato nel quesito è senza alcun dubbio corretto: il fratello comproprietario non ha alcun diritto di pretendere la somma proposta dal CTU, somma che gli sarebbe dovuta quale indennizzo per il mancato godimento dell’immobile.

L’ipotesi che costituisce oggetto del caso in esame si verifica molto di frequente nella prassi quotidiana, tant’è che in diverse occasioni la giurisprudenza è stata chiamata a pronunciarsi al riguardo.
Due sono gli orientamenti che si sono venuti a formare:

a) da un lato si pone una tesi meno recente secondo cui i coeredi esclusi dal godimento dell’immobile hanno diritto di ottenere un’indennità di occupazione per mancata utilizzazione del bene (così Cass. n. 20934/2013).
Tale tesi trova il suo fondamento nella considerazione secondo cui l’immobile è un bene in grado di produrre frutti civili e, pertanto, al vantaggio patrimoniale che ne riceve l’occupante in via esclusiva del bene se ne fa conseguire, in modo diretto, la potenziale perdita patrimoniale subita dagli altri comproprietari esclusi dal possesso di quel medesimo bene.

b) secondo una diversa e più recente tesi, invece, dall’utilizzazione esclusiva del bene comune da parte di uno dei comproprietari non se ne può far discendere immediatamente un pregiudizio in danno degli altri.
Perché possa configurarsi detto pregiudizio è necessario un ulteriore requisito, ossia che i comproprietari esclusi abbiano manifestato il loro dissenso.
L’indennità di occupazione, pertanto, dovrebbe essere corrisposta soltanto nell’ipotesi in cui i contitolari esclusi dal possesso richiedano espressamente e formalmente l’uso della cosa e detta richiesta fosse/venisse negata dal coerede che abita nell’appartamento (così Cass. n. 2423/2015).

Questa è la tesi a cui attualmente aderisce la prevalente giurisprudenza di legittimità, operando la seguente ulteriore distinzione:
1. se l’immobile in comproprietà viene utilizzato per ricavarne frutti civili (è il caso della locazione), tutti i comproprietari avranno il diritto di partecipare alla ripartizione di tali frutti in proporzione alla propria quota (potendo, dunque, pretendere da colui che li ha riscossi per intero la restituzione di quanto a ciascuno di essi spettante);
2. se, invece, come accade nel caso di specie, l’immobile viene utilizzato, secondo la sua destinazione d’uso, in via esclusiva da uno solo dei comproprietari, il semplice godimento esclusivo non potrà considerarsi produttivo di pregiudizio in danno degli altri comproprietari, a meno che gli stessi a loro volta non dimostrino di aver provato a godere del bene e di non averlo potuto fare in quanto impediti dall’altro coerede.

La tesi suesposta, peraltro, risulta perfettamente aderente a quella che è la ratio risultante dall’art. 1102 c.c., rubricato appunto “Uso della cosa comune”, nella parte in cui dispone che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè…non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto…”.
Da un punto di vista meramente pratico, quanto fin qui detto comporta che l’altro fratello comproprietario ha, intanto, il diritto di far uso di quell’immobile al pari del fratello che attualmente lo occupa.
Qualora chi occupa l’immobile non volesse consentirne il pari uso, il comproprietario escluso sarebbe pienamente legittimato ad agire giudizialmente per ottenere il rilascio forzato dell’immobile.
Nel caso in cui, invece, il fratello che attualmente non fa uso dell’immobile non avesse alcuna intenzione di usarlo, ma volesse trarne i c.d. frutti civili, sarà necessario formalizzare detto accordo in un regolare contratto di locazione, dal quale ne discenderà l’obbligo per l’occupante di pagare il relativo canone (ovviamente, in misura pari al 50% del canone convenuto).

F. N. chiede
martedì 04/10/2022 - Toscana
“buongiorno,

sono proprietario di parte del piano terreno in un fabbricato residenziale a Firenze composto da 8 unità abitative e 2 locali commerciali al piano terreno.
Nell'ambito dei lavori di ristrutturazione per il cambio di destinazione d'uso da commerciale a residenziale vorrei eseguire una porta per l'accesso dal vano scala condominiale.

I condomini non sono d'accordo anche se ristrutturando il piano terreno risolverei anche un problema di degrado della mia proprietà che loro lamentano da anni.

Mi appello all'art. 1102 CC per eseguire il lavoro alla luce delle molte sentenze che sto trovando in rete.
Detengo 200 millesimi che rappresentano il doppio di ogni altro condomino ma sono esentato dalle spese per pulizia e luce scale. Credo che questo non comporti creazione di servitù (se ho interpretato bene alcune sentenze della Cassazione).

E' stata convocata un'assemblea condominiale ma non sono d'accordo con l'atteggiamento dell'amministratore e con l'ordine del giorno scritto da lui

Cronologia:

24 febbraio 2022
Comunicata mia volontà.
I condomini non sono d'accordo ma messi di fronte al sopracitato articolo pretendono solo che gli indichi la posizione del varco perché potrebbe essere in contrasto con l'installazione dell'ascensore (non ancora deliberata)

14 giugno 2022
Riceviamo studi di fattibilità per installazione ascensore che evidenziano la pacifica coesistenza con il mio varco

29 Luglio 2022
Invio schema progettuale con la posizione del varco compatibile con l'installazione dell'ascensore.

Solo 2 ore dopo l'amministratore mi risponde esprimendo la “contrarietà da parte del condominio alla realizzazione di qualsiasi intervento che interessi le parti comuni senza l'autorizzazione preventiva da parte dell'assemblea pertanto questa valutazione dovrà essere effettuata eventualmente in apposita riunione nel mese di settembre”.
Mi sembra strano che in 2 ore abbia ricevuto la contrarietà di TUTTI gli altri 9 condomini.
Contattato per telefono mi dice che senza l’assemblea non mi può dare AUTORIZZAZIONE ad eseguire il lavoro.

Il proprietario dell’altro locale al PT non ha accesso sul vano scale, non viene mai alle assemblee e non credo abbia interesse ad esprimersi; anzi, potrei creare un precedente che farebbe comodo anche a lui.

23 Settembre 2022
sollecito convocazione assemblea come auspicata dall'amministratore.
La convoca per il 20 ottobre p.v. con Ordine del Giorno DELIBERA in merito all'apertura di un varco ecc. ecc.

Scrivo all'amministratore chiedendo spiegazioni per il suo uso dei termini AUTORIZZAZIONE e DELIBERA non conformi a quanto scritto sull'art. 1102 CC.
Non mi ha risposto.
Mi sembra che sia chiaramente ostile e di parte in contrasto con il suo ruolo e con il CC ma soprattutto fa credere ai condomini di avere il potere di mettere un veto.

All'assemblea del 20/10 dovrò convincere i condomini a non deliberare contro e non intraprendere cause lunghe, onerose e molto probabilmente perse.
Vorrei spiegare che l’apertura di una porta sul vano scala sarebbe in una posizione nascosta, non pregiudica pari diritti e soprattutto i miei lavori risolverebbero il problema del degrado al piano terreno che loro hanno sempre lamentato.
Non so se ci riuscirò.

Vi chiedo come mi devo muovere

1. Mi conviene contestare l’ordine del giorno prima dell’assemblea inviando una PEC all’amministratore scrivendo che è in contrasto con l’art. 1102 CC? Cosa dovrei scrivere?
La proprietà è di mia madre che è anziana e non ha PEC; lei è assolutamente solidale con me. Nel caso sia necessaria questa comunicazione posso inviarla dalla mia PEC firmata da me con delega oppure a firma sua? O mia madre deve inviare raccomandata AR?
2. Quando parteciperò all’assemblea che atteggiamento dovrò tenere?
- devo ribadire, a inizio assemblea, la mia opposizione all’ordine del giorno errato che incide sul voto dei partecipanti? (Tribunale di Milano, sentenza n. 1769 del 13/02/2017).
- Se partecipo alla discussione, anche soltanto comunicando le mie intenzioni e motivazioni, implicitamente convalido la successiva delibera qualsiasi essa sia? (Tribunale di Roma, sentenza n. 19739 del 15/10/2019)
3. In caso di delibera contraria che faccio?
- non la considero valida ed eseguo il lavoro aspettando una loro reazione?
- devo fare ricorso per annullare la delibera? Con quale procedura? Richiesta di mediazione? Alla mediazione posso andare io con una delega o c'è bisogno di una procura?

Naturalmente sarebbe meglio risolverla pacificamente. Se si iniziano delle procedure legali di quanto si potrebbero allungare i tempi fra ricorso, mediazione, eventuale prima istanza ecc.
Ho letto di una signora che, in un caso analogo, ci ha messo 7 anni per avere ragione dal momento del ricorso contro la delibera perché gli altri condomini hanno insistito fino alla Cassazione.

Nonostante abbia la legge dalla mia parte, in pratica i condomini possono rendere la risoluzione talmente lunga che non mi permetterebbe di eseguire il lavoro in tempi accettabili vanificando tutto il progetto.
Vi chiedo di indicarmi una via di intervento per quanto possibile reale e fattibile.

In attesa di un vostro riscontro vi ringrazio e vi porgo cordiali saluti.”
Consulenza legale i 11/10/2022
La giurisprudenza della Corte di Cassazione in più arresti ha chiarito come l’apertura di varchi o porte nel muro comune (anche se portante) per accedere al proprio appartamento non costituisce in linea di massimo abuso della cosa comune. Secondo gli Ermellini ogni condomino ha diritto di apportare le modifiche che gli consentono un’utilità supplementare rispetto agli altri condòmini, a patto che l’intervento non pregiudichi il diritto di fare parimenti uso del bene comune, non si alteri la destinazione economica del bene o si ponga a rischio la sua stabilità e il suo decoro architettonico (si veda tra le tante Cass.Civ.Sez.II, n.4437 del 21.02.2017).
Posto quindi che la apertura del varco rientra tra le facoltà del comproprietario ex art 1102 del c.c., logico corollario di tale affermazione è che l’intervento che ci si prefigge non debba essere condizionato ad una qualsivoglia autorizzazione da parte della assemblea.
Nel caso specifico quindi, se l’assemblea negasse il suo assenso alla realizzazione dei lavori emetterebbe una delibera nulla che potrebbe essere impugnata in ogni tempo anche oltre i limiti prescritti dall’art. art. 1137 del c.c..

Per tale motivo allo stato attuale del conflitto si consiglia semplicemente di comunicare all’amministratore l’intenzione di procedere all’intervento indicando con congruo preavviso la data di inizio lavori. Con ogni probabilità a tale iniziativa il condominio reagirà con l’intervento di un legale che si potrebbe concretizzare anche in una notifica di un ricorso giudiziario con il quale si tenterà di bloccare i lavori. A quel punto sarà importante l’assistenza di un legale che riuscirà a consigliarla al meglio evitando soluzioni fai da te (come quelle indicate nel quesito) che sarebbero solo inutili pagliativi. È anche ben possibile che gli altri condomini posti davanti alla necessità di iniziare una causa decideranno di scendere a più miti consigli e acconsentiranno alla realizzazione dei lavori.

Se si vorrà comunque partecipare alla riunione del 20/10 si consiglia semplicemente di ribadire verbalmente la decisione di iniziare i lavori alla data che è stata precedentemente indicata nella lettera inviata all’amministratore o che si invierà all’amministratore da lì a breve.


G. C. chiede
venerdì 30/09/2022 - Sicilia
“Buonasera,
sono cointestatario per 1/5 di un immobile caduto in successione e oggetto di divisione ereditaria. Attualmente il giudizio è pendente presso la Corte di Appello di Napoli dopo la Sentenza con rinvio della Cassazione.
L’immobile attualmente è occupato da mia sorella, la quale non pagando i canoni di locazione ha estinto la sua quota maturando ulteriori debiti nei confronti dei coeredi. Desidero acquistare tre quote dei miei fratelli. Vorrei sapere se acquistando le quote è legittimo chiedere il rilascio dell’immobile nelle more del pronunciamento del giudizio di Appello. Faccio presente che l’immobile servirebbe a mia figlia per motivi di studio. Nel primo giudizio di Appello mi era stato assegnato l’immobile. La Suprema Corte pur ritenendo legittima la mia richiesta ha rimandato il procedimento alla Corte di Appello per una riformulazione delle quote escludendo mia sorella.”
Consulenza legale i 06/10/2022
Il primo aspetto della vicenda descritta sul quale occorre soffermarsi è quello relativo alla parte in cui si dice:
“L’immobile attualmente è occupato da mia sorella, la quale non pagando i canoni di locazione ha estinto la sua quota maturando ulteriori debiti nei confronti dei coeredi.”
In realtà non è così automatico che l’occupazione in via esclusiva dell’immobile da parte di uno dei comproprietari determini il maturare di un diritto di credito nei confronti dell’occupante e, ancor di più, che lo stesso possa configurarsi come un debito da portare in detrazione al valore della quota ereditaria spettante a quest’ultimo.
Infatti, principio generale valevole nel sistema della comunione del diritto di proprietà per quote ideali, è quello secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (art. 1102 c.c.).
Ciò deve intendersi nel senso che è consentito al comproprietario l’utilizzazione ed il godimento della cosa comune anche in modo particolare e più intenso, ovvero nella sua interezza (in solidum), essendo posto solo il divieto di alterare la destinazione della cosa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (Così, da ultimo, Cass., Sez. II, 12 marzo 2019, n. 7019).

Essendo l’utilizzo esclusivo della cosa comune ricompreso tra le facoltà spettanti al comproprietario, ne deriva che non potrà riconoscersi agli altri comproprietari una indennità per il solo fatto dell’occupazione dell’intero bene ad opera di uno soltanto di essi, in quanto tale occupazione si presume legittima, trovando comunque titolo giustificativo nella comproprietà che investe tutta la cosa comune.
Di contro, è solo la mancanza di un titolo giustificativo che fa sorgere, in capo al comproprietario di un bene fruttifero che ne abbia goduto per l’intero, l’obbligo di corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune, i frutti civili, che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere a terzi secondo i correnti prezzi di mercato, possono essere individuati, in mancanza di altri più idonei criteri di valutazione, nei canoni di locazione percepibili per il cespite (in tal senso si vedano Cass., Sez. II, 6 aprile 2011, n. 7881 e Cass., Sez. II, 19 marzo 2019, n. 7681.)

Ora, nessuna questione può sorgere se le parti si accordano sulle modalità di esercizio dei rispettivi diritti di godimento, in quanto la circostanza che il bene sia utilizzato da tutti i comproprietari oppure solo da uno o alcuni di essi non è altro che il riflesso di un’intesa tra le stesse.
La situazione è ben diversa, invece, se uno dei comproprietari inizia a godere in via esclusiva dell’immobile pur essendovi il dissenso degli altri.
Infatti, come sostenuto in diverse occasioni dalla stessa giurisprudenza di legittimità, l’uso esclusivo è fonte di responsabilità sole se gli altri comproprietari non abbiano acconsentito in modo certo ed inequivoco ad esso (deve quindi sussistere, in concreto, un loro interesse all’esercizio del diritto di godimento).
Il comproprietario che si ritenga leso nel suo diritto di godimento sarà, pertanto, tenuto a contestare formalmente l’abuso da parte dell’altro comproprietario che goda interamente ed in via esclusiva dell’immobile, potendo solo da tale momento vantare il diritto a ricevere un’indennità di occupazione (così Cass. Civ., sent. n. 2423/2015, nella quale espressamente si legge che l’indennità di occupazione è dovuta, ma soltanto se l’uso della cosa comune sia espressamente richiesto dai contitolari di fatto esclusi dal possesso).
Se alla richiesta segue il rifiuto del comproprietario che ha occupato la cosa comune, allora i contitolari estromessi potranno chiedere il pagamento dell’indennità di occupazione la quale va commisurata al valore di mercato e, per la precisazione, al potenziale canone di locazione che, secondo i valori correnti, potrebbe essere percepito per l’immobile in contestazione (così Cass. civ. Sez. II, sentenza n. 20394/13).

A sua volta, il diritto di credito che i comproprietari dissenzienti verrebbero a maturare nei confronti di colui o colei che occupa in via esclusiva l’immobile non può di certo andare a ridurre automaticamente il valore della quota ereditaria spettante a quest’ultimo.
L’unico modo per raggiungere legittimamente tale risultato potrebbe essere quello di fare ricorso alle fattispecie negoziali previste dagli artt. 477 e 478 c.c., norme che disciplinano la vendita, cessione o rinunzia ai diritti di successione verso corrispettivo, arricchendo tali fattispecie con la previsione di una compensazione volontaria (il corrispettivo a cui avrebbe diritto il cedente potrebbe compensarsi con la somma di cui lo stesso è debitore nei confronti dei cessionari per occupazione dell’immobile).
Si tratta, però, di un meccanismo negoziale che si fonda esclusivamente sul raggiungimento di un accordo tra le parti interessate, accordo che si dubita possa qui concretizzarsi.

Per quanto concerne l’altro aspetto della vicenda che si chiede di analizzare, ossia l’intenzione di acquistare le quote degli altri tre fratelli con la precipua finalità di chiedere il rilascio dell’immobile nella sua interezza, da quanto viene riferito nel quesito si intuisce che allo stato attuale delle cose anche la sorella partecipa alla comunione ereditaria dell’immobile in oggetto in misura pari ad un quinto.
Ciò comporta che tutto quanto detto sopra deve di riflesso valere per ciascuno dei comproprietari, a prescindere che si tratti di comproprietario avente diritto ad una maggiore o minore quota dell’intero.
Pertanto, solo con il consenso della sorella sarebbe possibile conseguire il diritto di utilizzare in via esclusiva l’immobile, mentre in assenza di tale presupposto sarebbe illegittimo qualunque atto volto ad impedirne il pari uso, seppure limitato alla consistenza della propria quota.

L’acquisto delle quote degli altri tre fratelli, può semmai risultare vantaggioso al fine di far valere, in sede di divisione, il disposto di cui all’art. 720 del c.c., norma che, nell’ipotesi di immobili non comodamente divisibili, attribuisce a colui che è titolare della quota maggiore il diritto di ottenerne l’attribuzione per intero con addebito dell’eccedenza, ossia liquidando agli altri comproprietari il valore della loro quota.


M. G. chiede
mercoledì 11/05/2022 - Campania
“Abito in un Condominio composto da 20 villette a schiera - Abbiamo un regolamento vecchio di Condominio contrattuale - Abbiamo una Piscina condominiale. Nel Regolamento di Condominio sta scritto che l'uso della Piscina è riservato a: 1. condomini e loro familiari usualmente coabitanti 2. locatari e loro familiari usualmente coabitanti 3. gli ospiti, sempre che sia effettivamente presente il condomino o locatario ospitante.
Un Condomino ha aperto una Casa vacanze nella sua Villa.
Vogliamo evitare che i suoi clienti (fitta a giorni - settimana etc. mai più di un mese) vadano in Piscina perchè è di "uso comune" e il divieto per i suoi clienti non lede il diritto di proprietà. Ci dicono che una variazione dell'articolo che disciplina la Piscina esistente nel regolamento di Condominio può essere votato in Assemblea a maggioranza e non unanimità.
Vorrei il Vs. parere in merito.”
Consulenza legale i 13/05/2022
Purtroppo quello che ci si prefigge di fare necessita del consenso unanime o quantomeno del consenso del condomino interessato.

L’art. 1102 del c.c. dice chiaramente che ciascun partecipante alla comunione ha la piena facoltà in quanto comproprietario di utilizzare e servirsi del bene comune: nel caso specifico, il bene comune è la piscina condominiale.

Se il bene è di natura condominiale, il diritto di utilizzo viene esteso anche a chi è conduttore della unità immobiliare in proprietà esclusiva (la villetta a schiera), salvo diverso accordo tra locatore e conduttore, e questo vale anche per locazioni di breve durata.

Quello che ci si prefigge richiede il consenso del condomino interessato in quanto si vuole espressamente escludere l’esercizio da parte sua di una precisa facoltà rientrante nel suo diritto di proprietà (cioè il diritto di utilizzare il bene comune: la piscina), chiaramente prevista dall’art. 1102 del c.c.

Sarebbe sufficiente la maggioranza dei partecipanti invece nel caso in cui l’assemblea dei proprietari deliberasse un uso turnario della piscina: ad esempio, si decidesse che la piscina può essere utilizzata dai condomini A e B dal 15.05 al 15.06, dai condomini C e D dal 16.06 al 17.07 e così via…

In questo caso, come chiarito dalla giurisprudenza in più arresti, non si escluderebbe in toto il diritto di utilizzare la piscina, ma l’assemblea adotterebbe una delibera perfettamente rientrante nelle sue prerogative che disciplina un migliore e più razionale utilizzo del bene comune.



M. N. chiede
mercoledì 11/05/2022 - Veneto
“Buongiorno
sono proprietario di una villetta a schiera in un contesto di 3 unita' poste in orizzontale.
Nell'interrato c'e' la corsia garage con 3 basculanti uno per proprietario che da l'accesso al proprio garage.
Nel progetto originario del costruttore la mia proprietà era provvista di un ulteriore apertura verso la parte comune della corsia garage con un basculante (in sostanza erano previsti due garage), il precedente proprietario ha optato per la chiusura di uno dei due con un muro di tamponamento e ha adeguato la piantina.
Ora io vorrei riaprire quell'entrata e avere nuovamente due garage, il geometra ha fatto la CILA ed e' stata portata in comune e approvata.
La mia domanda è: posso tranquillamente procedere ad aprire il muro e montare un sezionale senza autorizzazione degli altri 2 condomini?
Io non altererei l'uso delle parti comuni, resterebbe solo zona di manovra, avrei solo un accesso in più verso la mia proprietà. Leggendo l'art 1102 c.c. sembrerebbe che non incorrerei in nessun tipo di problema.
Gentilmente chiedo conferma da parte Vs, eventualmente posso allegare disegni/foto
Grazie”
Consulenza legale i 13/05/2022
Nel caso specifico non è necessaria alcuna autorizzazione da parte degli altri comproprietari in quanto la parte di muro che si vuole eliminare deve considerarsi un bene in proprietà esclusiva e non un bene comune, al pari della basculante di chiusura del box auto: nello specifico quindi non troverebbe applicazione neppure l’art.1102 del c.c.

Rientra, quindi, nelle facoltà del singolo e unico proprietario procedere all’abbattimento del suo muro.



M. P. chiede
martedì 03/05/2022 - Sardegna
“Chiedo cortesemente una consulenza legale riguardante "la proprietà dei muri di confine".
Nella suddivisione di una grande villa, appartenente ad un unico proprietario, sono state costituite due unità immobiliari indipendenti.
La villa nella sua totalità era costituita da due tetti sfalsati uno più basso relativo alla zona giorno, uno più alto relativo alla zona notte.
Noi abbiamo acquistato quella che era la zona giorno con il tetto in un unica falda più bassa.
Nella visione frontale del nostro immobile si innalza un muretto di circa 1,50 m sul quale poggia il tetto del vicino. Su questo muretto,e con la sua condivisione era stata posizionata un antenna wi-fi sulla quale ci si era accordati per agganciare anche il loro wi-fi.
Il muro divisorio sino al nostro tetto risulta di proprietà di entrambi come si può evincere dalla mappa catastale.
Vorrei sapere se per legge il muro divisorio, che è quindi la continuità verticale del muro di separazione delle due unità abitative oltre il nostro tetto e nella nostra colonna d'aria appartiene ad entrambi o è di proprietà esclusiva del vicino che può perciò chiedere la rimozione dell'antenna.
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 06/05/2022
Da una analisi del materiale fotografico dato a corredo si evince come, pur essendo di fronte a due unità abitative funzionalmente distinte il corpo di fabbrica in cui esse sono ricomprese rimane unico. Per tale motivo l’intera facciata e i muri del complesso nel suo insieme devono considerarsi beni comuni ai sensi dell’art.1117del c.c.
L’art.1102 del c.c. ci dice che tutti i comproprietari possono fare parimenti uso del bene comune purchè non ne alterino la destinazione economica e non impediscano agli altri partecipanti alla comunione di godere a loro volta del cespite.

La giurisprudenza in maniera ormai granitica e costante da anni ammette che l’uso che ciascun proprietario fa della cosa comune non deve essere necessariamente identico: un proprietario può quindi usare il bene comune in maniera qualitativamente diversa rispetto all’utilizzo che ne fa un altro partecipante della comunione, purché, come già detto, non ne venga alterata la destinazione economica e non si impedisca agli altri comunisti di godere parimenti del bene.

Apporre una antenna wi-fi su un muro perimetrale dell’edificio sicuramente non altera la funzione propria di quel manufatto (che è appunto quella di sorreggere l’edificio), ne sicuramente impedisce all’altro comproprietario di godere appieno della utilità del muro medesimo. Neppure potrebbe sostenersi che costituisca un deturpamento del decoro architettonico, vista l'assai contenuta dimensione.
Per tale motivo la condotta tenuta si ritiene perfettamente conforme al’art. 1102 del c.c. e alla applicazione che ne fa la giurisprudenza assolutamente dominante.


M. S. chiede
sabato 23/04/2022 - Lombardia
“Buongiorno, sono uno dei 5 coeredi di una proprietà immobiliare in Milano.
Questa proprietà attualmente è disabitata (era la residenza di mia madre defunta).
In ogni caso sto pagando in quota le spese condominiali, compreso il riscaldamento, e le utenze di luce e gas che i coeredi non vogliono unilateralmente dismettere.
Nonostante la mia accettazione alla proposta degli altri coeredi a vendere l'immobile, nonostante che mi sia attivato per eseguire a mie spese delle perizie aggiornate sul bene da parte di 2 agenzie immobiliari per avere valori di mercato aggiornati, alle mie reiterate richieste di affidare, decidendo insieme, mandati di vendita alle o ad una delle 3 agenzie con cui abbiamo contatti, continuano da mesi le risposte negative di 3 coeredi in quanto asseriscono di voler portare nuovi dati (? ).
Da una indagine ho nel frattempo scoperto che da anni un coerede ha la residenza ufficiale dichiarata in questa abitazione ed un altro coerede ha, sempre da anni, sia la sua residenza ufficiale che la residenza della sua ditta individuale.
A questo punto deduco che la proprietà è in uso dei due predetti coeredi che la utilizzano per scopi personali e lavorativi.
Il mio quesito: posso chiedere ad un giudice che, stante la suddetta situazione, le spese condominiali, di riscaldamento e di utenze siano attribuite a totale carico dei due coeredi che utilizzano l'immobile per scopi personali impedendo agli altri eredi una vendita e costringendoli al pagamento di spese dal quale ricevono solo un danno?
( posso documentare con certificati di residenza aggiornati e certificazioni cciiaa le residenze sia personali che aziendale )
In attesa di un vs. parere, cordialmente saluto.”
Consulenza legale i 02/05/2022
E’ molto frequente nella prassi quotidiana che un immobile sia in comproprietà tra due o più persone (per averlo acquistato pro quota oppure in conseguenza di una donazione o di una successione ereditaria, come avvenuto nel caso di specie) e che lo stesso sia di fatto utilizzato soltanto da uno o da alcuni di essi.
Tale situazione può essere il frutto di un accordo intercorso tra le stesse parti disciplinante le modalità di esercizio dei rispettivi diritti di godimento (nel qual caso non può sorgere alcun problema, in quanto oggetto dell’accordo saranno senza dubbio anche le spese di gestione di quell’immobile) oppure del verificarsi di una situazione analoga a quella qui descritta, cioè che uno dei comproprietari inizi a godere in via esclusiva dell’immobile, tacitamente o con il dissenso dell’altro o degli altri.

In quest’ultimo caso la norma a cui fare riferimento è l’art. 1102 c.c., il quale detta il principio di carattere generale secondo cui ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purchè non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Questo significa che ciascun comproprietario può godere dell’immobile comune anche senza aver acquisito il previo consenso degli altri comproprietari, purchè l’uso che egli ne faccia non precluda agli altri partecipanti il godimento dell’immobile.
Occorre per tale ipotesi precisare e tenere conto di quanto segue:
a) l’uso che i comproprietari possono fare dell’immobile non deve essere necessariamente paritetico (ad esempio, in un caso come quello di specie sarebbe ben possibile che in quell’immobile A vi fissi la propria residenza, B la sede della società, mentre C utilizzi un vano dello stesso come deposito);

b) il diritto di pari godimento deve considerarsi leso non solo rendendo impossibile lo stesso uso da parte degli altri comproprietari, ma più in generale impedendo a questi ultimi una qualsiasi altra forma di godimento del bene, come potrebbe ad esempio essere quella di venderlo o di locarlo a terzi estranei;

c) l’uso esclusivo deve comunque ritenersi fonte di responsabilità soltanto se ingiustificato. Ciò significa che gli altri comproprietari non devono essere rimasti inerti né aver acconsentito in modo certo ed inequivoco all’uso esclusivo.

Ebbene, nel caso in esame la situazione che si presenta non sembra, almeno in linea teorica, violare il disposto dell’art. 1102 c.c., in quanto gli altri comproprietari, ossia quelli che di fatto stanno usufruendo dell’immobile, non sembra che si siano mai opposti a consentirne l’uso a chi pone il quesito né che abbiano manifestato una espressa volontà contraria alla vendita (anche se hanno accampato delle scuse per ritardare la stessa).
Peraltro, finché non verrà formalmente contestato il possesso esclusivo che gli stessi stanno esercitando su quell’immobile e, soprattutto, finché non si pretenderà di formalizzarlo con un giusto titolo (quale potrebbe anche essere un contratto di comodato precario), non si potrà mai:
1. avanzare alcuna pretesa di aver subito un danno, per la cui quantificazione occorre fare riferimento ai frutti civili che l'autore o gli autori della violazione abbiano tratto dall'uso esclusivo del bene (tali frutti vengono generalmente determinati in misura pari al canone di locazione che sarebbe stato possibile percepire qualora l’immobile fosse stato locato a terzi);
2. pretendere che ogni obbligazione nascente dal diritto di proprietà e dal godimento di quell’immobile venga fatta gravare esclusivamente su coloro che di fatto ne stanno usufruendo.

In mancanza di contestazione e di valido titolo da cui far risultare il possesso esclusivo da parte di alcuni dei coeredi, nessun giudice potrà mai giungere alla decisione di far gravare soltanto su alcuni comproprietari tutte le spese di gestione attinenti a quell’immobile.
Al contrario, qualora si riuscisse a fornire la prova della sussistenza di un rapporto di comodato, le spese di gestione e quelle di manutenzione ordinaria resterebbero a carico di chi di fatto utilizza l'immobile, mentre quelle straordinarie, come ad esempio quelle relative alla messa a norma degli impianti, al rifacimento del prospetto e così via, graveranno sui proprietari.

Purtroppo non potrà essere sufficiente a tal fine la produzione in un eventuale giudizio dei certificati di residenza e del Registro delle imprese degli altri coeredi, sia perché gli stessi non hanno mai, almeno formalmente, vietato all’atro coerede di trasferirvi anche la propria residenza o la sede di una eventuale attività, sia perché è ben noto che fissare la propria residenza in un determinato luogo non significa, molto spesso, anche vivere in quel luogo.
Infatti, è abbastanza diffuso nella prassi quotidiana l’uso di fissare la residenza in un determinato luogo per poi vivere altrove, ciò che può essere fatto sia per ragioni fiscali (si tenga presente, ad esempio, che le imposte sugli immobili, come l’IMU, non sono dovute dal proprietario che abita ed è anagraficamente residente nell'appartamento) che per altre ragioni (quale, ad esempio, quella di voler “depistare” eventuali creditori).

G. C. chiede
giovedì 17/03/2022 - Lombardia
“Nel condominio sono presenti circa 70 box ma le prese di corrente sono situate nei corselli ed esterne ai box stessi e se ne può fare uso solo per necessità o lavori straordinari. Ho acquistato un'auto elettrica e ho chiesto di installate un contatore sulla presa immediatamente vicina la mio box oppure di inserire la presa all'interno del box e mettere il contatore di consumo. Amministratore nega permesso adducendo argomenti relativi alla potenza insufficiente dell'impianto condominiale di servizio (cosa non dimostrata). Il costo di una linea dedicata dal mio contatore privato al mio box è, da preventivo, estremamente costoso (circa 6000 €) e del tutto antieconomico. Può essermi negato il diritto alla ricarica elettrica auto quando già dal 2015 è fatto obbligo ai nuovi condomini di installare la presa in ogni garage ? Non è il caso di richiedere allora un adeguamento totale dell'impianto esistente alle nuove esigenze ? Posso nel frattempo richiedere semplicemente la installazione del contatore per me ?”
Consulenza legale i 22/03/2022
L’art. 1102 del c.c. stabilisce il diritto di ciascun comproprietario di utilizzare e servirsi della cosa comune purchè non venga impedito agli altri comproprietari di utilizzare a loro volta il bene.
Come la giurisprudenza ha chiarito a più riprese la facoltà di utilizzo della cosa comune riconosciuta dalla norma citata non significa che tutti i comproprietari debbano fare un uso qualitativamente identico del bene. E’ ben possibile infatti che un singolo comproprietario - condomino possa fare della cosa comune un uso diverso e più intenso, sempre che non venga alterata la destinazione economica della cosa comune e, come si è già detto, non venga impedito agli altri partecipanti alla comunione di utilizzare a loro volta il bene.
Applicando al caso proposto questi importanti principi assolutamente granitici in giurisprudenza si può tranquillamente affermare che in linea d principio il singolo condomino avrebbe diritto ad allacciarsi all’impianto condominiale per ricaricare la propria auto elettrica. Ovviamente la possibilità di allaccio deve essere subordinata al fatto che tale modifica non comporti inefficienze nell impianto che ne vadano a minare il regolare funzionamento e quindi la fruizione per gli altri condomini.

Prima quindi di inviare raccomandate all’amministratore di condominio e magari adire l’autorità giudiziaria, diviene indispensabile dare un incarico ad un perito che accerti se l’impianto allo stato attuale abbia le caratteristiche tecniche idonee per supportare il tipo di allaccio che si prefigge l’autore del quesito. L’elaborato del perito sarà quindi il documento su cui si baserà il legale per intraprendere gli opportuni passi presso le sedi competenti, prima in ambito stragiudiziale per poi magari giungere ad adire l’autorità giudiziaria.

E’ giusto anche precisare che qualora l’impianto elettrico condominiale non risultasse conforme per un nuovo allaccio, rientrerebbe nelle facoltà indicate dall’art.1102 del c.c. anche quello di procedere ad un adeguamento dell’impianto per fare in modo che esso possa reggere l’uso più intenso che il singolo comproprietario ne vuole fare. In questo caso però le spese di adeguamento dovrebbero essere sopportate dal singolo condomino: quest’ultimo infatti non potrebbe pretendere che esse siano sopportate anche dagli altri proprietari che non hanno interesse all’ intervento.

A. I. chiede
lunedì 28/02/2022 - Lombardia
“In un condominio con diversi negozi al piano terra un negozio ha collocato nel 2011 dei motori per climatizzatori in atrio condominiale esterno nei pressi delle sue vetrine (all'epoca nulla disponeva il reg. condominiale in merito).
In seguito l’assemblea dei condomini nel 2019 con 548,21 millesimi integrava il Regolamento condominiale disponendo che i negozi devono collocare i motori dei climatizzatori all’interno dei propri locali e invitando ad ottemperare entro il 31 dic. 2019.
Quesito: tale integrazione del Regolamento Condominiale del 2019 è vincolante per il negozio in questione configurando un obbligo alla rimozione dei motori/condensatori dall’esterno?”
Consulenza legale i 02/03/2022
Secondo giurisprudenza assolutamente costante e pacifica il principio espresso dall’art. 1102 del c.c. secondo il quale ciascun partecipante alla comunione può fare parimenti uso del bene comune non implica che tutti i condomini debbano esercitare su di esso un uso qualitativamente identico. Quindi è ben possibile e lecito che un condomino possa esercitare sul bene comune un uso più intenso e diverso purché non venga impedito agli altri partecipanti di utilizzarlo a loro volta (così ad esempio Cass. Civ.,SezII, n. 12485 del 19.07.2012, dettata in materia di parcheggi condominiali ma i cui principi sono assolutamente applicabili anche al caso di specie).

L’installazione di un motore di climatizzazione nell’atrio condominiale esterno costituisce sicuramente un uso diverso e più intenso del bene, ma come si è visto esso deve ritenersi pienamente rientrante nel perimetro normativo dettato dall’art. 1102 del c.c. così come interpretato dalla giurisprudenza assolutamente dominante; tra l’altro tali installazioni sono state da sempre accettate dalla collettività condominiale.

La modifica al regolamento deliberata dalla assembleaa colpi di maggioranza potrebbe anche considerarsinullaproprio per violazione dell’art.1102 del c.c.: non può, infatti, l’assemblea impedire che un determinato bene venga utilizzato e goduto in un determinato modo da una parte dei condomini (i negozi al piano terra). Come è noto, una delibera nulla può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse in ogni tempo, quindi anche oltre i termini perentori indicati dall’art.1137 del c.c.
Viceversa, la modifica apportata al regolamento sarebbe stata lecita e quindi vincolante se fosse stata racchiusa in un regolamento di natura contrattuale oppure approvata dalla unanimità dei condomini, cosa che però non è avvenuta, a quanto ci è dato sapere.

Giunti alla conclusione del parere è giusto però far notare che, sebbene la modifica al regolamento sia nulla e quindi non vincolante, ciò non mette al riparo da possibili contestazioni in ordine alla lesione del decoro architettonico (forse) causata alla facciata dello stabile dalla presenza del motore esterno del condizionatore. Per fare questo, tuttavia il condominio dovrebbe provare che detta installazione causa una rilevante lesione alle linee architettoniche dello stabile e alla sua estetica. Il quesito non offre sufficienti spunti per una riflessione più approfondita su questo specifico aspetto.

M. P. chiede
domenica 06/02/2022 - Piemonte
“Abitiamo in un condominio al piano rialzato . Una parte di condomini vorrebbe allargare una parte dell’edificio di circa 2,5 metri aumentando pertanto la cubatura dell’edificio stesso realizzando dei terrazzini. L’aumento di questa cubatura avverrebbe occupando una porzione di terreno non utilizzata ma comunque parte comune condominiale. Premesso che la cosa non arrecherebbe danno a nessuno, salvo naturalmente verifiche tecniche su stabilità e decoro dell’edificio, chiedo se in sede assembleare sia necessario il consenso di TUTTI i condomini e se anche un solo condomino (che non trarrebbe alcun vantaggio da questa innovazione) può con il suo voto contrario impedire tale innovazione.”
Consulenza legale i 09/02/2022
Prima di tutto è giusto premettere che l’opera che si intende realizzare non può considerarsi una innovazione di un bene o servizio condominiale, ma al contrario con tale intervento si vuole aumentare la cubatura del proprio appartamento a scapito dei beni di proprietà comune.
Fermo restando che tale tipologia di intervento, che va ad aumentare la volumetria del fabbricato, deve ottenere tutte le autorizzazioni comunali previste dalla normativa edilizia e non deve pregiudicare la stabilità sicurezza e decoro dell’edificio (diversamente l’opera sarebbe vietata ai sensi dell’art.1122 del c.c.), è comunque necessario ottenere il consenso scritto di tutti proprietari. La realizzazione dell’opera che ci si prefigge, infatti, andrebbe a modificare la destinazione d’uso ed economica di una parte comune dell’edificio violando l’art.1102 del c.c.

La seconda sezione della Corte di Cassazione, ad esempio, con sentenza n. 5551 del 21.03.2016, ha precisato che i cortili condominiali non possono essere occupate da singoli condomini con opere proprie in aggetto, poiché tali opere compromettono la funzione del giardino condominiale di fornire luce e aria alle unità abitative che vi si affacciano. Ciò inevitabilmente comporta una alterazione della destinazione economica del giardino e una illegittimità dell’opera che potrebbe anche portare ad una demolizione di quanto realizzato se ad un condomino litigioso viene la voglia di “mettersi di traverso”.

Per evitare problematiche future è quindi assolutamente consigliabile ottenere il consenso di tutti i proprietari, consenso che non deve essere espresso solo in seno alla assemblea di condominio, ma rilasciato anche in un rogito notarile che poi potrà essere trascritto nei registri immobiliari. Ciò eviterà che un futuro cambio della compagine condominiale per cessioni degli appartamenti possa far riemergere nel tempo il problema descritto.



E.N. chiede
mercoledì 10/11/2021 - Sicilia
“Buongiorno.
In un immobile ad uso commerciale cat. C2 (un piccolo magazzino alla base della tromba della scala di un palazzo in centro storico non vincolato) una struttura ricettiva vorrebbe realizzare il vano ascensore forando il tetto del magazzino stesso. Sette ottavi dei comproprietari (comunisti non condomini) sarebbero d'accordo ma un ottavo comproprietario ha messo veto assoluto negativo. Il condominio con una maggioranza di oltre 800 millesimi sarebbe disposto a concedere la possibilità alla struttura ricettiva di realizzare l'ascensore per abbattimento barriere architettoniche. Sarebbe possibile procedere per la struttura ricettiva prendendo in affitto dai 7/8 dei comproprietari il magazzino con inserito nel contratto l'autorizzazione al cambio di destinazione d'uso salvo ripristino delle condizioni iniziali alla scadenza (9 anni) del contratto? Il comproprietario dissenziente potrebbe bloccare la realizzazione dell'ascensore anche se viene inserita nel contratto il ripristino delle condizioni iniziali a scadenza di contratto stesso?
Grazie”
Consulenza legale i 15/11/2021
In linea generale la giurisprudenza ha chiarito che il contratto di locazione sottoscritto solo da alcuni dei comproprietari ha piena validità in quanto si presume che i soggetti firmatari agiscano con il consenso di chi non ha firmato. Il dissenso, quindi, del soggetto non firmatario deve manifestarsi in maniera espressa per creare agli altri comproprietari un freno alla possibilità di concludere senza la sua partecipazione il contratto di locazione del magazzino ad uso commerciale. Si tratterà poi di valutare il peso delle quote di comproprietà.

Si tenga presente che nel caso specifico si va addirittura oltre alla semplice stipula di un contratto di locazione: qui, non ci si limita a concedere in locazione un magazzino ricompreso in un edificio condominiale, ma si vuole dare l’autorizzazione a mutare radicalmente la destinazione economica del bene locato trasformando lo stesso da un magazzino ad un vano ascensore! Poco importa la previsione di ripristinare, in futuro, lo stato dei luoghi.
In questo caso, dunque, è assolutamente necessario, per la validità della clausola che acconsente il radicale cambio di destinazione, che tutti i comproprietari all’unanimità prestino il loro consenso, meglio se manifestato espressamente e per iscritto.
Diversamente si violerebbe il chiaro divieto imposto dall’art.1102 del c.c., il quale dispone che ciascun partecipante può fare parimenti uso del bene comune, purché non ne alteri la destinazione economica.

In conclusione è quindi importante che il contratto di locazione sia sottoscritto da tutti i comproprietari, diversamente colui che è dissenziente avrebbe diverse opzioni per impedire che si realizzino i propositi degli altri partecipanti alla comunione.


G.C. chiede
giovedì 28/10/2021 - Veneto
“Buongiorno,

il nostro palazzetto è composto da tre numeri civici: due di questi hanno un ingresso autonomo su corte comune, uno ha un giardino privato e proprio ingresso e civico dalla parte opposta. Il palazzetto forma una sorta di schiera verticale, per cui si concretizza la fattispecie di condominio.
Non sono presenti un regolamento condominiale, codice fiscale o amministratore.
Il condomino con il giardino privato ha indetto un'assemblea per far approvare il bonus facciata e ripristinare il decoro architettonico (struttura degli anni 60 con pezzi di intonaco compromesso e pericolanti sulle proprietà). Ha proposto di accollarsi tutte le spese necessarie in modo da non far pagare nulla agli altri condomini presentando comunque regolari preventivi e progetti ad opera di tecnici.
L'assemblea ha rifiutato.

A questo punto il condomino ha comunicato che procederà ugualmente SENZA bonus facciata in virtù dell'articolo 1102 c.c. pagando lui tutte le spese, senza alterare decoro architettonico e destinazione d'uso.
Ha richiesto quindi la servitù di passaggio per le impalcature dal momento che il 50% del perimetro è all'interno del suo giardino, mentre il resto è all'interno della nostra corte comune.

I quesiti sono:

- possiamo rifiutarci di dare la servitù di passaggio per montare le impalcature nella nostra corte anche se alcuni interventi riguardano un risano della superficie che oggettivamente lui deve svolgere?
- ho capito che paga lui tutto e non altera decoro e destinazione, ma può davvero agire senza il nostro consenso?”
Consulenza legale i 01/11/2021
Prima di entrare nel merito del quesito è giusto precisare che giurisprudenza assolutamente costante ritiene che la normativa del condominio negli edifici trova applicazione per il solo fatto che in un unico corpo di fabbrica vi è la coesistenza di unità immobiliari in proprietà esclusiva e parti e servizi in proprietà comune, che devono trovarsi con le prime in un rapporto di accessorietà e funzionali e necessarie al miglior godimento delle singole unità immobiliari. Nel momento in cui sussiste in un edificio la situazione descritta si ha il condominio: vi è quindi l’obbligo di applicare la relativa disciplina, a nulla rilevando la nomina di un amministratore, l’attribuzione di un codice fiscale (che ha valenza solo in ambito tributario, non certamente da un punto di vista civilistico) oppure una delibera costitutiva dell’ente condominiale da parte della assemblea.

Nel caso specifico, siamo sicuramente di fronte ad un piccolo condominio, in cui tra i beni comuni possiamo sicuramente individuare a mente del n.1) dell’art. 1117 del c.c. i muri maestri, e quindi la facciata del condominio con l’obbligo da parte dei proprietari di rispettarne il suo decoro architettonico.
Nel complesso descritto deve farsi quindi applicazione della normativa sul condominio negli edifici, ma anche di quella sulla comunione ordinaria che trova ampia applicazione in materia condominiale per via del rinvio operato dall’art. 1139 del c.c.

Una delle norme relativa alla disciplina della comunione ordinaria largamente applicata anche in ambito condominiale è sicuramente l’art.1102 del c.c.
Tale articolo dispone che ciascun comproprietario può servirsi della cosa comune in maniera potenzialmente illimitata a condizione che non si impedisca agli altri partecipanti alla comunione di farne parimenti uso. A tal fine la norma in commento riconosce il diritto di ciascun comunista di apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per assicurare il miglior godimento della cosa.

Applicando proprio l’art.1102 del c.c., la giurisprudenza (su tutte si cita Cass. Civ.,Sez.II n.1554 del 20.02.1997), ha riconosciuto il diritto soggettivo di ciascun condomino di eseguire sulle parti comuni dell’edificio lavori che permettano al singolo proprietario un utilizzo più intenso e comodo del bene, purché non ne venga alterata la destinazione economica e non si impedisca agli altri di farne parimenti uso. Ovviamente, i lavori non dovranno neppure pregiudicare la staticità, salubrità e decoro architettonico dell’intero edificio.

In altre parole, il proprietario intraprendente ha tutto il diritto di far eseguire i lavori a sue spese, posto che detti interventi non vanno ad alterare la destinazione economica della facciata, anzi ne viene migliorata l’efficienza, dando per presupposto che non si altererà il decoro architettonico dell’edificio la sua staticità e salubrità.
Tale diritto non può essere limitato da una qualsivoglia autorizzazione assembleare, che la legge non richiede, e gli altri proprietari dovranno dare tutta la loro collaborazione per fare in modo che i lavori vengano realizzati nella maniera più rapida ed efficiente possibile.

A tal proposito è necessario che si acconsenta al montaggio delle impalcature e allo svolgimento del cantiere nella parte dell’edificio abitata dai proprietari contrari ai lavori. Ciò però, non può di certo considerarsi un diritto di servitù perpetua o di lungo periodo a carico di una parte dell’edificio, ma un semplice obbligo di consentire la realizzazione dei lavori, funzionale ad attuare il diritto previsto dall’art. 1102 del c.c., che avrà termine nel momento in cui la ristrutturazione della facciata sarà definitivamente terminata. Ovviamente vi sarà anche il corrispondente obbligo, da parte di chi vuole la realizzare i lavori, di ripristinare ogni danno eventualmente causato dalla presenza del cantiere alle proprietà coinvolte: si pensi, per fare un esempio banale, alla rottura di un vaso da giardino presente nella corte comune causato dalla caduta dalla impalcatura di materiale da lavoro.

G.S. chiede
giovedì 30/09/2021 - Campania
“Salve, abito da poco in un condominio di 4 livelli costituito da 2 scale. Ho chiesto l'autorizzazione all'assemblea per poter coibentare a mie spese attraverso dei pannelli calpestabili ed ignifughi la porzione di solaio sovrastante l'appartamento di mia proprietà che si ritrova ad essere il calpestio del sottotetto condominiale. Fin da quando è stato costruito (1980) il sottotetto è un vano tecnico utilizzato per manutenzioni occasionali del tetto stesso e delle antenne attraverso una porta di accesso sull'ultima rampa di scale. L'amministratore sottolineando che le tabelle generali scala A e B fossero separate ha chiesto il consenso solo a quelli della mia scala. Su 10 proprietari ( gli appartamenti sono 12 ma 3 sono di un unico proprietario) ho ottenuto 6 consensi me compreso, 3 erano assenti ed 1 contrario (il proprietario dei tre appartamenti). In effetti ho la maggioranza semplice ma non raggiungo i 501 millesimi della mia scala. L'amministratore non si è sentito di darmi l'autorizzazione anche per paura di azioni legali da parte del proprietario dei 3 appartamenti ( giacché al vedere del crescere dei consensi e dopo essersi espresso contrariamente si é infastidito ed ha maleducatamente abbandonato l'assemblea). Faccio presente che l'amministratore avrebbe scritto che non avrei acquisito nessun diritto rispetto agli altri e non avrei potuto chiedere danni se fosse stato danneggiato l'isolamento , oltre al fatto di non aver limitato o mutato l'uso comune.
A detta degli altri proprietari il signore che non ha dato il consenso dice sempre di no a tutto a prescindere (avendo 6 appartamenti su 24 si crede il proprietario dell'intero condominio).
Non sono convinto di dover subire quest'ingiustizia a causa di un ignorante che per capriccio dice no ( a subire il caldo e il freddo e i consumi energetici non è lui!) anche perché non ho chiesto soldi.
Intraprendendo un azione legale ho possibilità di poter superare l'ostacolo maggioranza e coibentare per rendere l'appartamento confortevole e poco energivoro?
In attesa di vostro riscontro cordiali saluti.”
Consulenza legale i 05/10/2021
L’ art. 1102 del c.c., norma pacificamente e largamente applicata anche nel condominio, dispone che ciascun comproprietario può servirsi della cosa comune in maniera potenzialmente illimitata a condizione che non si impedisca agli altri partecipanti alla comunione di farvi parimenti uso. A tal fine la norma in commento riconosce il diritto di ciascun comunista di apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per assicurare il miglior godimento della cosa.

Applicando proprio l’art.1102 del c.c., la giurisprudenza (su tutte si cita Cass. Civ.,Sez.II n.1554 del 20.02.1997), ha riconosciuto il diritto soggettivo di ciascun condominio di eseguire sulle parti comuni dell’edificio dei lavori che permettano al singolo proprietario un utilizzo più intenso e comodo del bene purché non ne venga alterata la destinazione economica e non si impedisca agli altri di farne parimenti uso. Ovviamente, i lavori non dovranno neppure pregiudicare la staticità, salubrità e decoro architettonico dell’intero edificio.

Il caso specifico rientra perfettamente nell’ insegnamento della Corte di Cassazione poiché, per quanto ci è dato capire, i lavori che si desiderano eseguire non mutano la destinazione economica del solaio condominiale né si impedisce agli altri proprietari di accedervi. I lavori, al contrario, miglioreranno l’efficienza energetica del solaio aumentandone la coibentazione termica.
In altre parole, l’autore del quesito ha tutto il diritto di eseguire i lavori che si prefigge a sue spese senza che ciò possa essere condizionato o limitato da una qualsivoglia autorizzazione assembleare non richiesta dall’ ordinamento.

Si consiglia quindi di inviare una raccomandata all’amministratore comunicando l’intenzione di compiere i lavori di coibentazione a proprie spese appellandosi a quanto dispone l’art. 1102 del c.c. e indicando data e ora in cui tali lavori avranno luogo. Se l’amministratore di condominio o qualche proprietario in proprio risponderà a questa comunicazione notificando un qualche atto giudiziario o un qualche invito a procedure di mediazione per impedire l’inizio dei lavori si potrà validamente resistere nelle sedi competenti secondo le norme procedurali vigenti.

Se per la realizzazione dei lavori è necessaria la collaborazione fattiva dell’amministratore o di altri condomini (per esempio, è necessaria la consegna di chiavi per accedere alle parti comuni) e tale collaborazione non viene efficacemente prestata, si potrà ricorrere alla autorità giudiziaria per mezzo di un procedimento cautelare di urgenza per ottenere un provvedimento teso a fare in modo che i lavori vengano prontamente realizzati.

Visto che i lavori descritti non rivestono il carattere di urgenza, per completezza è giusto precisare che l’autore del quesito, fermo restando il diritto a far eseguire le opere, non potrà mai richiedere al condominio un rimborso delle spese sostenute: tale possibilità, infatti, viene espressamente esclusa dall’art. 1134 del c.c.


FERRUCCIO T. chiede
venerdì 11/06/2021 - Marche
“Buonasera,

vivo in un condominio di 8 condomini e vorrei realizzare un ascensore esterno per abbattere le barriere architettoniche e facilitare l'accesso al mio appartamento, sito al 3 piano rialzato (al piano terra vi sono i garages).
Sarei disposto a farmi carico dell'intero costo dell'opera visto che il progetto prevede l'installazione di tale ascensore esternamente senza arrecare danno agli altri condomini con accesso esclusivo al mio appartamento.
Segnalo che la medesima opera è stata realizzata con successo nel palazzo gemello situato a fianco. In quella occasione l'opera però fu realizzata sfruttando la legge 104.
Mi risulta che sotto determinate condizioni e in ottemperenza al c.c. 1102, i condomini siano obbligati dal principio della solidarietà, venendo meno per il sottoscritto l'obbligo di ottenere la maggioranza in sede di assemblea per il via libera all'opera.
Purtroppo sinora, nonostante le mie ragioni, i condomini si sono dimostrati non collaborativi pur non avendo motivate ed evidenti ragioni (e.s. danno all'edificio, danno al decoro rtc...) per opporsi alla sua realizzazione.
Considerando la mia età (70 anni), vorrei pertanto sottoporvi con la presente la questione per capire se avvalendomi dei nuovi decreti in fatto di abbattimento delle barriere architettoniche e ai suddetti principi io possa procedere con l'opera senza il vincolo del benestare della maggioranza o unanimità dei condomini. Al momento soffro già di problemi alle ginocchia che mi rendono difficoltoso il raggiungimento del mio appartamento.

Resto in attesa di Vs preziosa consulenza.”
Consulenza legale i 17/06/2021
L’ installazione di impianti ascensori in condominio in presenza di condomini con difficoltà motorie è sempre piuttosto sentito e sovente causa litigi tra i proprietari.
Sicuramente il punto di partenza sull’argomento è la L. n. 13 del 9.01.1989 nel suo ultimo testo modificato dalla riforma del diritto condominiale del 2012.
Tale intervento legislativo introduce innanzitutto delle maggioranze assembleari semplificate nel caso in cui l’assise sia chiamata a deliberare l’installazione di innovazioni volte all’abbattimento delle barriere architettoniche (si pensi alla installazione di un ascensore o di un montacarichi). Nel caso in cui tali maggioranze non vengano raggiunte, la L. n.13/89 riconosce il diritto al condomino portatore di handicap o ai suoi eventuali rappresentanti legali (come i genitori) di installare l’ascensore o montacarichi a loro spese.

Quindi al condomino disabile viene riconosciuta dal legislatore una duplice strada per ottenere l’installazione di un impianto ascensore o montascale: la prima è quella di far pronunciare in merito l’assemblea, ripartendo il costo della innovazione fra tutti i condomini; la seconda, a fronte del rifiuto o dell’inerzia del consesso condominiale, è quella di installarlo a sue spese, scavalcando nei fatti l’assemblea.
Se non si può usufruire delle agevolazioni descritte in quanto non portatori di handicap, la possibilità di installare l’ascensore a proprie spese senza una previa autorizzazione assembleare ci viene fornita invocando l’art.1102 del c.c., norma disciplinante l’uso della cosa comune in generale, che trova ampia applicazione anche nel contesto condominiale per via del rinvio operato dall’art.1139 del c.c. (da ultimo in questo senso, tra le tante, si veda Cass. Civ.,Sez.II, n.10852 del 16.05.2014).

Come è noto l’art. 1102 del c.c. dispone che ciascun partecipante può fare uso della cosa comune purché: non ne alteri la destinazione e permetta agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
In merito ai requisiti indicati dall’art. 1102 del c.c., la giurisprudenza ha avuto più volte modo di precisare che il permettere agli altri comproprietari di fare parimenti uso della cosa comune, non significa che uno dei proprietari non possa fare della cosa un uso più intenso, anche comprimendo in parte, ma senza limitarla, la possibilità di utilizzo degli altri partecipanti alla comunione. In altri termini l’espressione parimenti uso non può essere interpretata come un uso qualitativamente identico e simultaneo della cosa da parte di tutti i comunisti.
Secondo la giurisprudenza più recente: "l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un bene comune, deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 cod. civ." (Cass.Civ.Sez.II, n.31462 del 05.12.2018; Cass.Civ.,Sez.II, n.10852 del 16.05.2014;Cass.Civ.,Sez.II,n.14096 del 03.08.2012).

Interessante è anche quanto precisato dalla recente Cass.Civ.,Sez.II, n. 30838 del 26.11.2019, il quale ritiene ammissibile l’installazione di un impianto ascensore esterno al caseggiato, realizzato ad esclusive spese di un proprietario, anche se non vengono rispettate le distanze legali comprese quelle dalle vedute dei balconi, purché si rispettino i limiti indicati dall’art.1102 del c.c. (Cass.Civ.Sez.II, n. 30838 del 26-11-2019).

Posto che la giurisprudenza sembra essere favorevole alle ragioni dell’autore del quesito, ciò che si consiglia di fare è di far mettere come argomenti all’ordine del giorno della prossima assemblea l’installazione dell’impianto ascensore. Se gli altri proprietari continueranno a fare resistenze respingendo la richiesta, si potrebbe valutare la possibilità di impugnare la delibera innanzi alla autorità giudiziaria, previo espletamento di un tentativo di mediazione obbligatorio.


Danilo R. chiede
venerdì 12/02/2021 - Lombardia
“Buongiorno.
Il mio condominio è di tipo “orizzontale” come visibile dall’allegato, con alcune villette monofamiliari, bifamiliari, e quadrifamiliari.
Il quesito è relativo alle parti comuni cioè il parcheggio di autovetture all’interno dell’area condominiale : abbiamo un regolamento condominiale del 1987 che consente di parcheggiare autoveicoli all’interno e che recita nel capitolo 7):
7).. ….”le vetture dovranno essere parcheggiate nelle proprie autorimesse o in zone che non intralcino l’uso del passo carrabile e dei passaggi pedonali”…
Tutte le unità abitative hanno almeno un box di proprietà; qualche condomino, o perché utilizza il box come deposito di cose o perché ha una seconda auto, porta la vettura all’interno dell’area condominiale e la parcheggia di fronte al proprio box non intralciando l’uso del passo carrabile e neppure dei passaggi pedonali in ottemperanza al regolamento di condominio.
Il regolamento è stato quasi sempre rispettato senza liti e ricorsi ma, dopo 28 anni di tranquillità, dovevamo aspettarci che come cambiano i tempi cambiano anche i condomini.
Recentemente è sorta una lite perché un condomino che vuole lasciare la propria auto di fronte al proprio box intralcia le manovre di parcheggio di un altro condomino in ingresso ed in uscita dal box limitrofo.
Il condominio è degli anni 80 del secolo scorso quando le auto erano sicuramente meno larghe e meno lunghe.
Ne è nata una discussione nella quale il condomino che subiva l’intralcio dell’auto parcheggiata in parallelo al sua area esterna del box, ha invitato l’altro a lasciare l’auto fuori dall’area interna condominiale (segnalo che all’esterno dell’area c’è un parcheggio stradale esterno che dista non più di 15 metri dal corsello dei box interno).
Il buon senso avrebbe dovuto prevalere, invece il condomino che causava difficoltà alle manovre di parcheggio del vicino, ha invocato ed ottenuto che l’amministratore inviasse ai condomini, in occasione della convocazione dell’assemblea ordinaria annuale, un punto da discutere che recitava:
5. Diritto al pari uso dell'area del corsello carrabile ad ogni condomino. Richiesta inserimento sanzioni per inadempienza al regolamento condominiale - delibere conseguenti
Si è tenuta l’assemblea nella quale il condomino che non consentiva al vicino di parcheggiare nel proprio box, in visibile e serio stato di agitazione, ha invocato più volte il “rispetto della legge”.
Ciò ha portato l’amministratore a verbalizzare quanto segue per il predetto punto 5 :
5. Diritto al pari uso dell'area del corsello carrabile ad ogni condomino. Richiesta inserimento sanzioni per inadempienza al regolamento condominiale - delibere conseguenti : l’Amministratore ricorda a tutti il divieto di parcheggiare nel corsello dei box, come previsto dalla legge e anche per evitare discussioni tra i condomini. Si richiede all’ Amministratore di inviare per la prossima assemblea una bozza di regolamento condominiale.
Quesiti:
1) dal momento che impugnerò comunque la decisione dell’Amministratore perché a mio avviso è in contrasto con il regolamento di Condominio sopracitato, ho ragione se scrivo che ogni eventuale diversa interpretazione o per meglio stabilire, mediante modifica del regolamento condominiale art.1138 cc, quali sono le zone che non intralciano la viabilità interna deve essere oggetto di delibera assembleare (come previsto dall’art.1137 cc e con le modalità dell’art.66 del Codice Civile) ?
2) E’ corretto e lecito inserire un emendamento nel regolamento condominiale che dà facoltà ai condomini di parcheggiare di fronte al proprio box a patto che questo non intralci l'ingresso nei garage altrui ?
3) Nel caso del punto 2 e tenuto conto che ogni condomino ha comunque a disposizione nello spazio comune un proprio spazio di fatto “esclusivo” di fronte al proprio box è soddisfatto in principio sancito dall’art. 1102 ? In altre parole l'individuazione di uno spazio davanti ai garage di proprietà ove un condomino non potesse usufruirne perché crea intralcio agli altri, introduce una disparità di trattamento nel godimento della cosa comune ?
4) Se il regolamento emendato (punto2) è lecito e non lede il trattamento nel godimento della cosa comune, può il regolamento contenere una nota che laddove vi sia l’impossibilità di parcheggiare per via delle dimensioni delle vetture( penso ad un camper, anche se non è il nostro caso) il condomino deve utilizzare lo spazio esterno disponibile (parcheggio lungo il marciapiede che era negli obblighi del costruttore e realizzato congiuntamente al condominio ) ?”
Consulenza legale i 19/02/2021
L’art 1102 del c.c. ci dice che ciascun comproprietario può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione economica e non impedisca agli altri proprietari di farne parimenti uso. In altre parole, tale articolo introduce l’importante principio secondo il quale ciascun comproprietario può fare un uso intenso e pieno del bene indipendentemente dalle quote di comproprietà di cui è singolarmente titolare, fermo restando i limiti, certamente non secondari, di rispettare la destinazione economica e di permettere agli altri comunisti-condomini di utilizzarlo a loro volta.

Per giurisprudenza assolutamente costante si ritiene che tale norma non impedisca a ciascun comunista di fare un uso più intenso del bene rispetto agli altri, a patto che si rispettino le condizioni prescritte dalla norma in commento.
Applichiamo tali fondamentali principi al caso proposto. Nel complesso edile descritto, abbiamo un’area di corsello box, bene comune alle singole villette in proprietà esclusiva, che ha come sua naturale destinazione ex art 1102 del c.c. quella di permettere il transito, e soprattutto le manovre di entrata di uscita dalle autorimesse private degli automezzi. È ovvio che per la sua struttura e spazialità una area di questo tipo non è idonea per una sosta a lungo termine dei mezzi, anche se fatta davanti all’area della propria autorimessa, perché comunque la presenza del mezzo in sosta rende in ogni caso difficile la manovra da parte del vicino che magari deve uscire per andare al lavoro. E’ ovvio: tutti questi problemi sono facilmente risolvibili se trovasse applicazione il buon senso e le regole di buon vicinato prima delle norme del codice civile, ma quando ciò non è possibile, e si deve per forza risolvere il problema attraverso le norme dell’ordinamento giuridico, non si può considerare la sosta prolungata della propria autovettura nell’area di corsello come lecita anche se effettuata innanzi alla propria autorimessa. È ovvio quindi, che se la vicenda descritta dovesse sfociare in un ipotetico contenzioso, non è assolutamente scontato, anzi direi improbabile, che il giudice possa considerare corretta alla luce dell’art. 1102 del c.c. il comportamento di quei proprietari che parcheggiano la propria autovettura in maniera prolungata nel corsello di manovra, anche se ciò lo si fa davanti al proprio garage. Tale conclusione è valida anche se vi è un regolamento condominiale che in certi limiti autorizza tale comportamento: anche il regolamento condominiale, così come concepito, quindi, presenta dei profili di illegittimità alla luce dei principi racchiusi nell’art.1102 del c.c.

Per quanto ci è dato sapere il regolamento ha una chiara natura assembleare in quanto approvato a maggioranza dai condomini in seno alla assemblea. Orbene, i proprietari per mezzo di un regolamento di condominio così adottato possono sicuramente approvare norme che permettano un miglior uso e godimento del bene comune: tuttavia, non si può a colpi di maggioranza prendere decisioni in contrasto con l’art.1102 del c.c., trasformando la destinazione economica del bene comune e acconsentire che un area destinata al semplice transito dei mezzi, o tuttalpiù ad una attività di carico e scarico di pacchi e buste della spesa, possa essere utilizzata per la sosta prolungata della autovetture.

In conclusione, non possiamo rispondere alle domande poste in quanto partono da un presupposto che si ritiene del tutto errato: ovvero che è legittimo lasciare in sosta le autovetture lungo il vialetto comune, circostanza, che come si è ampiamente spiegato, risulta essere in netto contrasto con l’art.1102 del c.c. e l’interpretazione costante che di tale norma viene data dalla giurisprudenza. La verità, è che per essere totalmente conformi alla legge il vialetto dovrebbe essere usato per le manovre degli automezzi e per permettere il loro ingresso nelle autorimesse. Se qualche proprietario preferisce usare il proprio garage come magazzino, ciò non è sicuramente vietato dal codice civile, ma la macchina deve essere lasciata lungo la pubblica via.
Ci si augura ad ogni modo che il buon senso possa tornare a prevalere e che si possa ripristinare una pacifica convivenza tra tutti i proprietari.


Pina S. chiede
sabato 30/01/2021 - Abruzzo
“Sono comproprietaria insieme ai miei due fratelli di un appartamento sito in un condominio costruito nel 1956 composto da sei unità abitative di pari valore millesimale (166,667). Nel condominio vi è un’area cortiliva comune a cielo aperto a cui si accede da un unico cancello sempre aperto, finora usato senza regole come parcheggio comune dei veicoli che di volta in volta vi trovavano posto, senza che la destinazione d’uso sia stata definita al catasto, Ciascun appartamento è dotato di un fondaco al piano terra: tre (fra cui il mio) con affaccio mediante una piccola finestra sulla ridotta corte posteriore e laterale del palazzo mentre gli altri tre, pur avendo una porta di accesso interna, sono dotati anche di affaccio sul cortile condominiale, su cui si trova anche il portone d’ingresso, attraverso una porta basculante che ne potrebbe consentire l’uso anche come garage (in origine erano accatastati come fondaci, non so se abbiano subito nel tempo un cambio di destinazione d’uso). Solo due di questi hanno uno spazio davanti alla porta sufficiente alla sosta senza interdire l’uscita verso la strada. Nel corso degli anni i condomini titolari dei fondaci/garage non hanno mai usato tali locali per la rimessa delle auto ma come tutti gli altri esclusivamente come locali di sgombero. L’area condominiale che circonda l’edificio, compreso il cortile, è piuttosto ristretta e non consente di individuare un numero sufficiente di posti auto per ciascun proprietario ma forse solo per effettuare una eventuale turnazione. Finora, in mancanza di un regolamento condominiale, tutti hanno cercato di ovviare alla carenza di spazio sostando, se lo trovava libero, in uno dei due spazi che lo consentivano, tollerando anche la sosta di una macchina dietro l’altra col tacito accordo e la massima disponibilità a rimuovere il proprio mezzo all’occorrenza. Nell’ultima assemblea condominiale del 27/01/2021 però un condomino, che possiede il fondaco/garage (1) in fondo al cortile, ha richiesto all’amministratore di diffidare gli altri condomini dal sostare nell’area di manovra in entrata e in uscita del proprio garage, facendo intendere che dopo tale diffida, procederà a querelare chiunque impedirà con la sosta la libera circolazione alla sua autovettura. (cfr il foglio di deduzioni presentato allegato in calce) Occorre precisare che tale richiesta è stata prontamente condivisa dall’ altro condomino che di solito parcheggia davanti al suo fondaco/garage (2). Il proprietario del terzo fondaco/garage (3) non può invece mai sostare davanti alla sua porta perché si trova a ridosso dell’entrata del cortile e intralcerebbe qualsiasi movimento, impedendo anche il libero accesso al portone d’ingresso. Dal giorno dell’assemblea il condomino suddetto fa spostare con protervia chiunque lasci la propria auto davanti alla sua pertinenza, non per rientrare ma per occupare quel posto con la propria auto o anche con quella di persone estranee al condominio (es.dama di compagnia della madre).
Faccio presente che riconosco la piena legittimità delle richieste suddette e che sono a conoscenza delle varie sentenze della cassazione che difendono l’utilizzazione ed il godimento di un bene di proprietà.
Non è questo il punto. Il fatto è che tale richiesta è palesemente un pretesto per escludere gli altri condomini dalla possibilità di parcheggiare nel cortile con l’intenzione di occupare in esclusiva gli unici due spazi possibili di sosta, quelli davanti alle loro pertinenze. La certezza che non rimetteranno mai la loro autovettura nel fondaco/garage deriva dall’esiguità dello spazio di manovra disponibile che li costringerebbe ogni volta a innumerevoli manovre per entrare ed uscire e dal fatto che esse sono ingombre di suppellettili in esse accumulate. Alla mia osservazione che avendo già un fondaco/garage mai utilizzato finora non potranno appropriarsi di un posto auto in area condominiale perché se non c’è spazio per tutti non c’è per nessuno, la loro risposta è stata che io di sicuro non posso parcheggiare mentre per loro è possibile visto che non intralciano nessuno.

Quindi la mia richiesta è di sapere con certezza se, qualora i suddetti due condomini che hanno chiesto la diffida utilizzeranno per la sosta delle proprie autovetture lo spazio condominiale senza procedere alla rimessa delle stesse nel garage di proprietà, si configuri una violazione del mio ed altrui diritto al pari uso della proprietà condominiale sancito dall’art. 1102 del C.C. , se vi siano a supporto di tale diritto sentenze utili a dirimere la questione e quali azioni intraprendere per esigerne il rispetto. Qualora sia applicabile il suddetto articolo alla situazione prospettata si può configurare anche un danno “in re ipsa” per illegittima occupazione di parti comuni in quanto in seguito a tale occupazione reiterata e proterva io e con me altri condomini siamo privati della loro disponibilità?

Vorrei inviare anche degli allegati (foto e documenti) resto in attesa di vostre indicazioni”
Consulenza legale i 08/02/2021
L’art 1102 del c.c. ci dice che ciascun comproprietario può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione economica e non impedisca agli altri proprietari di farne parimenti uso.
Per giurisprudenza assolutamente costante si ritiene che tale norma non impedisce a ciascun comunista di fare un uso più intenso del bene rispetto agli altri, a patto che si rispettino le condizioni prescritte dalla norma in commento. In buona sostanza, nel caso di utilizzo del bene comune da parte del singolo condomino, occorre verificare se lo specifico uso possa comportare una definitiva sottrazione del bene alla disponibilità degli altri condomini ovvero se con tale utilizzo sia rimasta invariata la destinazione principale del bene. A prima vista, quindi, il comportamento tenuto da alcuni dei condomini appare legittimo.

È anche vero, però, che giurisprudenza altrettanto costante ed unanime prevede che nel caso in cui vi sia un’area cortiliva che per ragioni di spazio non è in grado di garantire il parcheggio di tutti i mezzi al suo interno da parte dei singoli condomini, è del tutto legittimo che l’assemblea deliberi l’uso turnario degli stalli di parcheggio disponibili. In questo senso è molto chiara Cass. Civ. Sez. II, n. 12485 del 19.07.2012: "… l'assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune, nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, non sia possibile l'uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti auto condominiali".

La giurisprudenza si è anche spinta oltre, disponendo che nel caso di posti auto condominiali insufficienti l’assemblea di condominio non può rifiutarsi di adottare una delibera che disciplini l’uso turnario degli stalli disponibili, disponendo la radicale nullità di una delibera che espressamente si rifiuti di regolamentarne l’uso. (si veda: Tribunale di Roma sentenza n.319/2016.)
E’ quindi quanto mai opportuno interessare della vicenda l’assemblea dei proprietari facendo mettere tra gli argomenti all’ordine del giorno della prossima riunione la regolamentazione dell’uso turnario tra tutti i proprietari dei pochi stalli di parcheggio disponibili. Se l’assemblea si rifiuterà di pronunciarsi in tal senso, si potrebbe anche pensare di ricorrere al giudice al fine di costringere gli altri proprietari ad affrontare con serietà il problema.


In assenza di una regolamentazione dell’uso degli spazi comuni il comportamento tenuto da alcuni condomini, per quanto arrogante, rimane comunque nei limiti di quanto disposto dall’art. 1102 del c.c..: pertanto non può configurarsi oggi alcun risarcimento del danno da perdita del possesso. La cosa muterebbe, invece, nel caso in cui vi fosse una regolamentazione dell’uso turnario degli stalli: in tal caso, i pochi spazi di parcheggio disponibili sarebbero usufruibili solo dal condomino che in quel momento preciso ha la facoltà di utilizzo, con pieno diritto per quest’ ultimo di escludere gli altri condomini dal godimento del bene comune. Se uno dei condomini che in quel dato momento non ha la possibilità di usufruire del parcheggio lo occupasse in totale spregio della regolamentazione turnaria adottata dalla assemblea, ecco che lo stesso terrebbe una condotta illecita, da cui potrebbe derivare un danno per chi aveva il pieno diritto di occupare quello stallo.

In merito al danno da perdita del possesso, non è assolutamente scontato che lo stesso possa considerarsi un danno "in re ipsa".
Sull’argomento infatti la giurisprudenza pare divisa, in quanto un primo orientamento maggioritario ritiene in caso di occupazione illegittima di immobile che il danno a carico del proprietario sia "in re ipsa", ossia consista nel fatto stesso dello spossessamento da parte dell’occupante abusivo, ricollegandosi il pregiudizio alla perdita della disponibilità del bene stesso e alla utilità conseguibile nell’esercizio del suo godimento.
Secondo tale orientamento il danno viene liquidato dal giudice utilizzando presunzionisemplici, come ad esempio il valore locatizio del bene (Cass.Civ.,Sez.II, Ord. n.20545 del 06.08.2018).

Vi è da dire però che oramai da diversi anni si è affermato un orientamento tra i giudici che rifiuta una applicazione estesa del danno “in re ipsa”, imponendo al danneggiato di provare i danni derivati dall’evento lesivo causato dalla condotta del danneggiante. Fortunatamente questo ulteriore onere probatorio può essere assolto anche attraverso l’utilizzo di presunzioni.

Anche in tema di danno derivante da perdita del possesso si sta affermando tale orientamento, in quanto recenti pronunce ritengono che incomba sempre sul danneggiato l’onere di provare il danno conseguente alla illegittima occupazione del bene ed in particolare il mancato guadagno. Si veda in questo senso Cass.Civ.,Sez.II, n.30472 del 23.11.2018: "In caso di occupazione sine titulo di un bene condominiale, come il cortile, il danneggiato che agisca per il risarcimento del danno è onerato della prova del pregiudizio economico patito a seguito della condotta dell’occupante; pertanto, grava sul proprietario usurpato l’onere di provare il mancato guadagno dipeso dalla perdita della materiale disponibilità del bene e del suo sfruttamento. Le circostanze addotte dal danneggiato in relazione alle caratteristiche del bene immobile, alle qualità soggettive del titolare dello stesso et similia, sono elementi che consentono di pervenire all'accertamento del probabile impiego che dell'immobile avrebbe fatto il legittimo titolare; le suddette circostanze vanno valutate dal giudice di merito, che può avvalersi di presunzioni gravi precise e concordanti."

Al di là di queste disquisizioni tecniche sulla natura del danno da perdita del possesso e al di là del fatto che all’oggi nessuno ha tenuto una condotta che possa considerarsi illecita, par giusto chiedersi: se si trovasse un giudice che sposasse la tesi del danno “in re ipsa”, la somma che verrebbe riconosciuta sarebbe di un importo tale da giustificare e pareggiare i costi di una azione giudiziaria? Il valore locatizio dell’area che si asserisce essere stata usurpata (il cortile), sarebbe comunque estremamente irrisorio.


Salvatore N. chiede
lunedì 23/11/2020 - Lazio
“Salve vi scrivo perché vorrei dei chiarimenti circa la fattibilità o meno secondo la normativa di alcuni lavori di ristrutturazione che vorrei effettuare nel mio appartamento, che chiarisco essere in condominio. Nello specifico vorrei spostare il WC dall'attuale posizione ad un'altra. Per permettere una buona pendenza degli scarichi, e senza creare scalini, si dovrebbe realizzare un traccia sul solaio (solaio interpiano tra due unità abitative, quindi trattasi di solaio non condominiale) e posizionare la tubatura nella pignatta di alleggerimento fino al raccordo della braga. Nella posizione finale la tubatura rimarrebbe nascosto nelle pignatte di alleggerimento del solaio, significando che non oltrepasserebbe il soffitto del piano sottostante e quindi non visibile.
Ringraziando in anticipo per la vostra cortese consulenza
porgo
Distinti saluti”
Consulenza legale i 25/11/2020
Ovviamente in questa sede non si può dare un giudizio sulla fattibilità tecnica dei lavori, giudizio che deve necessariamente essere demandato ad un geometra e non ad un avvocato.

Da un punto di vista giuridico si può solo precisare che l’art. 1125 del c.c. instaura una comunione forzosa del solaio tra i proprietari dei piani l’uno all’altro sovrastanti, trovando, quindi, piena applicazione nella fattispecie descritta la normativa sulla comunione, ed in particolare l’art. 1102 del c.c. Tale articolo ci dice che ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione economica e non impedisca agli altri partecipanti di fare parimenti uso del bene. In attuazione di quanto detto sopra, l’art.1102 del c.c. precisa che ciascun comproprietario può apportare a sue spese le modificazioni necessarie al miglior utilizzo della cosa.

La giurisprudenza in maniera assolutamente granitica e costante precisa che non viola quanto disposto dall’art. 1102 del c.c. un uso più intenso del bene comune da parte di uno dei partecipanti alla comunione, a condizione, però, che non sia impedito agli altri comproprietari di fare parimenti uso del bene.
Il passaggio della traccia nel solaio, costituisce sicuramente un uso più intenso dello stesso, ma per quanto detto sopra ciò non viola la normativa del codice civile che si appena descritta: questo a condizione, però, che i lavori vengano eseguiti in maniera tale da non compromettere all’altro proprietario la possibilità anche futura di far passare le proprie condutture per il solaio e non si alteri la funzione di spazio di isolamento tra i piani di tale parte dell’edificio.



Francesco C. chiede
lunedì 17/08/2020 - Campania
- Signori una volta lessi di una legge che regola il modo di assegnare i posti auto disponibili, individuati, tracciali e numerati, ai condomini che ne fanno richiesta tramite sorteggio annuale con il metodo del bussolotto e con il pagamento di un canone. - Se potessi averne copia, grazie.

Preciso alcuni punti su quali chiedo il vostro aiuto
1 - Chiedo se l’Amministratore deve ogni anno convocare la riunione monotematica facendola precedere dall’invio dei moduli a ciascun proprietario (possessore di qualsiasi immobile ossia sia di un appartamento, sia di un box) onde farne richiesta. Oppure l’Amministratore deve essere sollecitato a farlo e da chi?

2 - Scaduto il termine di un anno, ove l’Amministratore non avesse provveduto al nuovo sorteggio, i posti rimangono liberi e cioè non assegnati e quindi l’Amministratore dovrebbe percepire il canone.
Nel nostro condominio, se sono favoriti alcuni, c’è la tendenza a continuare la cosa senza convocare la riunione nel mentre l’Amministratore convoca la riunione solo se enormemente sollecitato dallo scrivente.

3 - Nel nostro condominio c’è la tendenza a non usare il metodo del bussolotto, ma ‘il metodo dei pizzilli ’ che per me è forieri di brogli da parte di un piccolo gruppo.

4 - Al sorteggio devono essere invitati a partecipare tutti i possessori sia di un appartamento sia di un box.

5 - I posti da assegnare per sorteggio come pure il canone mensile ed altre norme devono essere stabilite solamente dalla Assemblea Generale.

6 - La scelta del posto specifico deve essere fatta, dopo il sorteggio, dal singolo condomino estratto secondo l’ordine di estrazione e non ad arbitrio dell’Amministratore.

7 - L’Amministratore deve comunicare con chiarezza l’esito del sorteggio a tutti i Condomini.

8 - Credo che il sorteggiato deve rispettare la sagoma e la destinazione di uso del posto assegnato e cioè parcheggiarvi auto (e non bancarelle e simili) senza altre restrizione perché possono usarne amici in visita, artigiani, medici, infermieri, terapisti; Invece c’è la tendenza a porre limiti/regole che ciascuno vorrebbe porre ad uso e consuetudine propria o, larvatamente, ‘contro’ altri ad es. contro i deboli (anziani, donne, . . . . . ); ed avviene diatriba e prepotenza !

9 - Se qualcuno rinuncia lo deve fare per scritto ed il posto viene preso dal 1° non estratto nell’elenco.

10 - Dimenticavo di precisare che gli appartamenti sono 28, i box sono 15 (totale di potenziali richiedenti n° 43) nel mentre i posti legali disponibili per il sorteggio sono n°10.
Dico legali perché c’è la tendenza ad assegnare posti nell’area di pertinenza di una Cabina Elettrica ed anzi questi posti sono segnati abusivamente dall’Amministratore.
- A tal proposito vi chiedo sul cosa io devo fare per non farmi involgere in tale illegalità.

- Vi chiedo scuse per questa prolissa richiesta perché, da anziano, subisco continue vessazioni ed, inoltre, da quando la stupida nuova legge ha abbassato il quorum, il Condominio è posto nelle mani di un piccolo gruppo ! Siate generosi nella risposta per me quasi novantenne. Grazie.”
Consulenza legale i 04/10/2020
Le modalità di utilizzo del posto auto è da sempre una annosa questione che spesso anima gli animi dei condomini: cerchiamo dunque di fare un po’ di chiarezza, sperando di rispondere anche ai dubbi di chi ci scrive.
Il dato normativo da cui partire è sicuramente l’art. 1102 del c.c., norma prevista nella disciplina della comunione in generale ma largamente e frequentemente utilizzata anche nel condominio.
Tale articolo ci dice al 1° comma:” Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”. Quindi, al di là della quota di partecipazione a ciascun condomino comproprietario, viene riconosciuto il diritto di usare la cosa comune nella sua totalità ed interezza a condizione che non ne venga alterata la destinazione economica e si permetta agli altri proprietari di farne parimenti uso.
Contrariamente a quanto si possa pensare l’ammontare della quota di comproprietà non limita la facoltà di utilizzare e godere il bene, ma entra in gioco nel momento in cui si devono ripartire gli oneri di manutenzione del bene comune o prendere decisioni sulla sua amministrazione (da qui si capisce l’importanza delle tabelle millesimali per la conduzione del condominio).
Il concetto che si è tentato di esporre è stato più volte ribadito dalla Corte di Cassazione, proprio in merito a controversie aventi ad oggetto l’utilizzo del posteggio condominiale: famosa in questo senso è la sentenza della Sezione II della Cassazione Civile n.26226 del 07.12.2006.

A questo punto si pone però un problema: come garantire a tutti comproprietari di utilizzare un bene comune, quando lo stesso per caratteristiche oggettive non è in grado di soddisfare contemporaneamente le esigenze di tutti i proprietari? Detto in maniera più semplice, se in un condominio vi è una area di parcheggio condominiale piccola, tale per cui non è vi è la possibilità per tutti i proprietari di parcheggiare contemporaneamente la propria auto, come è possibile permettere a tutti di fare parimenti uso del parcheggio? A tale spinosa e delicata domanda ha tentato di dare una risposta a più riprese la Corte di Cassazione. Estremamente pertinente per il caso descritto è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sez.II,n. 12485 del 19.07.2012, la quale ci dice:” … se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento. Pertanto, l'assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, non sia possibile l'uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti auto condominiali.”

Da questa giurisprudenza ormai cristallizzata nel tempo, sono nati diversi accordi in seno alle assemblee condominiali volte a regolarizzare l’uso dei parcheggi condominiali. Non si è avuto modo di analizzare le delibere prese dai proprietari del condominio descritto nel quesito, ma sulla base di quanto riferito si possono fare alcune considerazioni di massima.

È sicuramente legittimo un accordo dei condomini per mezzo del quale si sorteggiano i posti da assegnare ai singoli proprietari per un determinato periodo di tempo, trascorso il quale i posti dovranno essere riassegnati agli altri condomini prima esclusi: questo per assicurare la piena turnazione nell’utilizzo. La delibera assembleare diverrebbe illegittima nel momento in cui l’assegnazione sia fatta ad alcuni condomini in perpetuo. In questo caso si andrebbe, infatti, a costituire a loro favore un vero e proprio diritto di uso ex art.1021 del c.c. sul bene comune escludendo gli altri comproprietari: una tale delibera assembleare, però, sarebbe radicalmente nulla, a meno che non sia adottata dalla unanimità dei condomini.

E' del tutto illegittimo condizionare l’utilizzo del bene comune da parte dei condomini sorteggiati al pagamento da parte loro di un canone. Posto che chi utilizza il parcheggio, in quanto comproprietario, ha tutto il diritto ex art. 1102 del c.c. di godere della sua utilità, a che titolo verrebbe versato il canone? La dazione di tale somma non troverebbe alcuna giustificazione. Anche in questo caso, però, ogni illegittimità verrebbe meno se, e solo se, la delibera condominiale che prevede la dazione di un canone per l’utilizzo del parcheggio condominiale, fosse adottata dalla unanimità dei condomini.

Come ha ben chiarito la giurisprudenza che si è citata poco sopra, è l’assemblea condominiale l’organo a cui spetta il compito di deliberare circa le modalità di utilizzo del parcheggio. L’assise dovrà essere convocata secondo le modalità previste dall’art.66disp.att. del c.c. e si costituirà e delibererà secondo quanto prevede l’art.1136 del c.c. Per approvare l’accordo sull’utilizzo del parcheggio condominiale, le maggioranze sono quelle previste dal co. 3° dell’art. 1136 del c.c. e pertanto la delibera sarà approvata con la maggioranza degli intervenuti che rappresentano almeno 1/3 del valore dell’edificio (333 millesimi); questo dando per scontato che l’assemblea si svolgerà, come solitamente accade, in seconda convocazione. Alla riunione condominiale dovranno partecipare e avranno diritto di voto tutti coloro che sono proprietari di una unità immobiliare in condominio, siano esse appartamenti, box auto od entrambi: una delibera di questo tipo non può essere riservata solo a chi è proprietario dei soli box auto.

L’amministratore ha il preciso compito a lui attribuito dal n.2) dell’art. 1130 del c.c. di disciplinare l’uso delle cose comuni affinché ne venga garantito il miglior utilizzo da parte dei condomini. Esso è, inoltre, un mandatario dei proprietari ed è chiamato a dare esecuzione agli accordi che i condomini prendono in seno alla assemblea sull’utilizzo delle parti comuni. In esecuzione di questi doveri egli periodicamente deve convocare l’assemblea, mettendo all’ordine del giorno la discussione circa le modalità di utilizzo del parcheggio condominiale. Deve anche garantire la regolarità del sorteggio.
Se l’amministratore omette di indire la riunione condominiale, si ricorda che il 1° co. dell’art. 66 disp.att. del c.c. prevede che quando la richiesta di convocazione è fatta da almeno 2 condomini che rappresentano almeno 1/6 del valore dell’edificio, il professionista è obbligato per legge entro 10 giorni a provvedere alla convocazione dell’assise, trascorsi i quali e persistendo l’inerzia dell’amministratore, i condomini richiedenti possono procedere autonomamente alla convocazione.
È anche giusto ricordare che se il professionista non ottempera ai doveri prescritti dall’art. 1130 del c.c., ciò potrebbe costituire giusta causa per procedere alla sua revoca.

Giungendo alla conclusione del parere, è giusto spendere due parole circa le modalità di utilizzo del posto auto una volta che lo stesso è stato assegnato tramite sorteggio.
L’art. 1102 del c.c. specifica come la cosa comune possa essere utilizzata dagli altri proprietari a patto che non ne venga alterata la destinazione economica: in altre parole, se sono comproprietario di uno spazio di parcheggio con altri, devo utilizzare tale spazio per parcheggiarvi le automobili, non posso usarlo per installarvi delle bancarelle. Il condomino che tenesse una tale comportamento compirebbe una grave violazione delle norme del codice civile, che potrebbe giustificare il ricorso all'autorità giudiziaria al fine di ottenere un provvedimento volto allo sgombero delle bancarelle abusive. L’iniziativa di rivolgersi al giudice, con l’ausilio di un legale, dovrebbe essere presa dall’amministratore, che è il primo soggetto chiamato a tutelare i beni comuni condominiali, ma in caso di suo disinteresse legittimato ad agire è anche il singolo condomino.
Nel periodo in cui il proprietario ha il diritto all’uso esclusivo del posto auto, può sicuramente utilizzarlo, nei limiti visti dell’art. 1102 del c.c., per far parcheggiare i mezzi di amici e parenti.
L’ utilizzatore, ha anche il pieno diritto di cedere, gratuitamente o dietro compenso, il suo diritto di utilizzo ad un altro proprietario: se vi è, infatti, la rinuncia di un condomino all’utilizzo, non vi è l’obbligo di riassegnarlo a mezzo sorteggio.
I concetti appena espressi sono stati chiariti molto bene dalla sentenza del 2012 che si e sopra citata la quale precisa: "L'essenza stessa del turno, d'altro canto, richiede che, nel corso del suo svolgimento, il comunista che ne beneficia, abbia l'esclusività del potere di disposizione della cosa, senza che vi sia sostanziale interferenza degli altri compartecipi con mezzi e strumenti che ne facciano venire meno l'avvicendamento nel godimento o inducano alla incertezza del suo avverarsi".
In altre parole, il condomino a cui tocca in quell’anno solare il diritto di utilizzo del posto auto, avendo in quel momento la totale ed esclusiva facoltà di disporre della cosa comune, ben può concedere a sua assoluta discrezione ad un altro condomino il semplice utilizzo temporaneo del posto auto, senza che altri condomini possano eccepire alcunché.

Francesco C. chiede
giovedì 13/08/2020 - Campania
“Il regolamento di condominio vieta l'accesso e la sosta di auto nell'area destinata a box chiusa da cancello; ovviamente con esclusione dei possessori di box e per l'accesso alla cabina elettrica esistente in tale area. (In tali condizioni i possessori di box possono sostare avanti ai propri box senza precludere alcuno?)
Se entrano persone estranee nella detta area ponendosi finanche innanzi alla Cabina Elettrica chi deve intervenire per eliminare i soprusi? L'Amministratore dice che lui al massimo può solo avvisare! Ed allora quali sono i mezzi per difendersi?

Consulenza legale i 17/09/2020
L’art.1102 del c.c. ci dice che tutti i comproprietari possono fare uso della cosa comune, purché non ne alterino la destinazione economica e non impediscano agli atri comunisti di farne parimenti uso.
L’area riservata ai box è una parte comune dell’edificio che ha comunemente la funzione di consentire le manovre di entrata e uscita dei mezzi dai box auto in proprietà esclusiva. In linea di massima, quindi, coloro che a norma del regolamento condominiale hanno il diritto di accedere a tale area possono sostare con i propri automezzi per brevi periodi per consentire le ordinarie attività di carico e scarico (si pensi ai bagagli o alle buste della spesa), ma, a stretto rigore di legge, non possono lasciare la macchina in sosta per lungo periodo davanti al proprio box auto. È giusto anche dire che queste problematiche più che con le norme di legge e di regolamento, dovrebbero essere risolte dai condomini usando il buon senso, anche se spesso questo in certe situazioni viene, purtroppo, a mancare.

Per venire a trattare della parte centrale di quanto richiesto, non è chiaro che cosa si intende con il termine” estranei”, ma par di capire, salvo smentite, che degli individui che non abitano nel palazzo e non sono condomini impunemente e senza autorizzazione accedono alle aree comuni del fabbricato.
Se così fosse, il caso prima che di diritto condominiale sarebbe di interesse penalistico in quanto il soggetto estraneo non condomino e non abitante nel palazzo che impunemente e senza autorizzazione alcuna parcheggia la propria autovettura in una area comune potrebbe integrare il reato di Invasione di Terreni ed edifici di cui all’art. 633 del c.p. Se così fosse l’amministratore avrebbe il dovere di intervenire a tutela delle parti comuni dell’edificio presentando idonea denuncia alla autorità giudiziaria corredata, ovviamente da idonee prove fotografiche. In caso di inerzia dell’amministratore ogni condomino potrebbe a lui sostituirsi presentando personalmente la denuncia alle autorità.


PAOLO B. chiede
lunedì 08/06/2020 - Veneto
“Buongiorno, risiedo in un condomino formato da tre villette a schiera abitate da altrettante famiglie, una di queste particolarmente attaccabrighe, litigiosa e dispettosa. Vengo ai fatti: l’altra sera durante una violenta grandinata per proteggere la mia auto e quella di mia figlia le ho momentaneamente condotte nel tunnel dei box, davanti al box di nostra proprietà che è l’ultimo di un corridoio cieco di conseguenza senza poter intralciare alcuno e senza abbandonare le auto in attesa che cessasse la grandinata. Il vicino litigioso ha tentato di impedirmelo. Stanco di questa situazione che si protrae da anni, essendo il mio vicino litigioso “in guerra” anche con la terza famiglia residente, questa mattina mi sono recato presso la Caserma dei Carabinieri spiegando l’accaduto ed esprimendo la mia preoccupazione che prima o poi che durante una di queste violenti liti verbali si possa passare dalle parole alla rissa e chiedendo loro se non fosse il caso di fare una visita, anche in via informale, per invitare questi coniugi a darsi una regolata e di non privarmi di un mio diritto. Con mio stupore il Carabiniere mi ha comunicato che la sosta nei tunnel dei box è vietata per ragioni di sicurezza, come intervento dei VVFF, e sostanzialmente mi ha comunicato che ho torto. Mi risulta invece che il tunnel per accedere ai box sia un bene condominiale comune e di avere diritto a parcheggiare nel tunnel all’esterno del mio box a condizione di non intralciare le manovre degli altri condomini. Preciso che il nostro condominio non è certo alto più di 12 mt. è di dimensioni inferiori ai 300mtq e dispone di 6 posti auto complessivi. Chi ha ragione? Proprio adesso mentre sto inoltrando questa mia richiesta apprendo che questo vicino, nell’intento di arrecare ulteriore disagio, avendo l’utenza della luce condominiale che aziona il cancello, il cancelletto di ingresso alle abitazioni, le luci sotto ai box e soprattutto campanelli irregolarmente intestata a proprio nome e non al condominio (che dovrebbe disporre di un C.F. e di un’utenza propria) ha disdettato l’utenza lasciando gli altri condomini senza corrente condominiale. Lo può fare oppure è querelabile?”
Consulenza legale i 09/06/2020
Innanzitutto è utile sgomberare il campo da un primo equivoco: nessuno dei comportamenti descritti integra una ipotesi di reato e, pertanto, non vi è motivo per sporgere querela né di rivolgersi alle forze di pubblica sicurezza.

Posto ciò, è utile ricordare, al di là della normativa antincendio, come la rampa di accesso al locale dei box auto sia una area condominiale che ha come suo utilizzo naturale il permettere l’entrata e l’uscita dei mezzi dalle autorimesse stesse, e sia anche destinato ad agevolare il lavoro dei mezzi di sicurezza. Partendo da tale presupposto, la giurisprudenza di merito e di legittimità ha a più riprese chiarito come la pratica dei condomini di parcheggiare in maniera permanente e duratura la seconda auto in tali aree di manovre sia del tutto illegittimo. Ai sensi dell’art. 1102 del c.c., infatti, i condomini non possono utilizzare il bene comune in maniera tale da alterarne la sua naturale destinazione economica.

Viene, invece, comunemente fatto rientrare nell’utilizzo consentito la sosta momentanea di autoveicoli per permettere operazioni di carico e scarico, si pensi alle buste della spesa. A parere di chi scrive, il comportamento tenuto dall’autore del quesito sta un po’ al limite tra il consentito e il non consentito, in quanto se da un lato la sosta dei veicoli era assolutamente temporanea e causata dalla straordinarietà dell’evento atmosferico, dall’altro se, proprio a causa del temporale, fosse sorta la necessità di chiamare l’ambulanza piuttosto che i Vigili del Fuoco la presenza delle macchine ferme sulla rampa avrebbe potuto creare non poche difficoltà ai mezzi di soccorso. La problematica descritta è uno di quei casi, molto frequente nella vita in condominio, che andrebbe risolta non tanto ricorrendo alle norme giuridiche, ma alle norme di buon senso, che pare manchi ad uno dei proprietari…

Venendo a trattare il secondo aspetto, è giusto dire che il distacco della fornitura di energia elettrica da parte del condomino è del tutto legittima, in quanto il contratto è stato da lui direttamente stipulato, e l’intestatario è del tutto libero di esercitare il diritto di disdetta dalla fornitura. Purtroppo la pratica di intestare ad un singolo proprietario le utenze dei servizi condominiali è una prassi molto comune soprattutto nei piccoli condomini, ma assolutamente sconsigliabile. In questi casi, seppur non vi sia l’obbligo, a mente del 1° co. dell’art. 1129 del c.c., di nominare un amministratore per i condomini composti da un numero di proprietari inferiore ad otto, è opportuno che l’assemblea di condominio, opportunamente convocata a norma di legge, nomini un rappresentante fiscale che si incarichi di richiedere un codice fiscale per il condominio presso il competente ufficio della Agenzia delle Entrate. Così facendo si avrebbe la possibilità di intestare l’utenza direttamente al condominio, e nessun proprietario avrebbe la possibilità di modificare o disdettare il contratto senza una preventiva autorizzazione della assemblea. L’intestazione condominiale della fornitura elettrica avrebbe anche l’innegabile vantaggio di legittimare la suddivisione delle spese relative tra tutti i condomini, e di pretenderne il pagamento in caso di eventuale inadempimento.

Manuela Z. chiede
giovedì 21/05/2020 - Campania
“Buongiorno,
abito in un condominio di 4 piani, all'interno del quale vi sono due appartamenti per ogni piano, eccezion fatta per il terzo e quarto piano che hanno un solo appartamento sul ballatoio (io abito al terzo piano).
La famiglia del quarto piano, dunque quella che abita sopra di me, praticamente si è appropriata della rampa di scale che conduce all'ultimo piano e del relativo ballatoio, addirittura cambiando anche il colore delle parenti (da bianche a gialle), mettendo una grossa pianta dinanzi alla finestra che ne ostruisce di fatto l'apertura e piazzando sul relativo ballatoio ogni genere di mobilio, armadio, scarpiere, salottino, specchio, attrezzi ginnici ecc. con la presunzione che non essendoci nessuno sopra di loro, il ballatoio e la relativa ultima rampa di scale sia loro.
Il mio quesito è il seguente: possono farlo? Il fatto che sopra il quarto piano ci sia solo il tetto li autorizza ad appropriarsi della rampa di scale e del ballatoio facendone una sorta di dependance di ingresso all'appartamento, o rientra tra le parti del condominio ad uso comune? Io ho contattato già due volte l'amministratore tramite mail ed sms per segnalare l'abuso ma senza esito positivo. È opportuno mandare una raccomandata? Vi ringrazio, Buona giornata”
Consulenza legale i 22/05/2020
Il pianerottolo deve considerarsi elemento essenziale delle scale e come tale parte comune dell’edificio ai sensi dell’art.1117 del c.c., se non è disposto diversamente dai rogiti di acquisto delle singole unità abitative o da un regolamento di condominio di natura contrattuale (in questo senso si veda tra le tante Cass. Civ. Sez.II, n.1544 del 10.07.2007).

Può escludersi la natura condominiale del pianerottolo anche nel caso in cui per le caratteristiche funzionali e strutturali dello stesso, sia posto al servizio unico ed esclusivo di una singola unità immobiliare (si veda ad esempio Cass. Civ., Sez.II, 22.03.1985 n.2070). Applicando però in senso inverso il ragionamento appena fatto, la giurisprudenza ha chiarito che il pianerottolo non può mai considerarsi in proprietà esclusiva nel momento in cui, per le sue caratteristiche, esso debba considerarsi necessario all’uso comune (Cass. Civ., Sez. II, n. 3159 del 14.02.2006).
Nel caso di specie siamo proprio in questo seconda fattispecie, in quanto il pianerottolo- ballatoio del 4° piano è necessario e funzionale al raggiungimento del tetto che è una parte dello stabile necessariamente condominiale.

Chiarita la natura del pianerottolo, è giusto dire che la giurisprudenza assolutamente unanime acconsente che il singolo proprietario possa fare della parte condominiale un uso più intenso rispetto ad altri condomini, ciò a patto che, ai sensi dell’art. 1102 del c.c., non ne venga alterata la destinazione economica e non venga impedito agli altri proprietari di farne parimenti uso.

Ad avviso di chi scrive il comportamento degli abitanti dell’appartamento del 4° piano deve essere censurato e stigmatizzato proprio alla luce di quanto prevede l’art. 1102 del c.c. Se è vero, infatti, che è ammissibile che alcuni proprietari possano utilizzare in maniera più intensa una parte comune, è anche vero che tale utilizzo non può essere tale da distrarre il bene dall’uso naturale e funzionale che gli è proprio. Nel caso di specie, sulla base di quanto riferito, i proprietari del 4° piano hanno di fatto trasformato una rampa delle scale e l’intero pianerottolo in un ulteriore vano del loro appartamento, distraendo tali parti comuni dal loro utilizzo naturale: permettere l’accesso al tetto. Gli altri proprietari, anche sostituendosi all’amministratore inerte, possono inviare una raccomandata chiedendone quindi lo sgombero e il ripristino della loro naturale destinazione economica.



Maurizio R. chiede
martedì 11/02/2020 - Veneto
“Buongiorno, volevo un suo autorevole parere su come potermi muovere per annullare o, quantomeno, togliere il mio assenso ad una delibera condominiale in cui era necessaria l'unanimità'.
L'11.07.2016, con assemblea in seconda convocazione, (se richiesta la allego) il condominio (siamo in 8) ha approvato all'unanimità una delibera che concedeva solo a possessori di garage di poter parcheggiare un veicolo davanti al proprio garage stabilmente, anche se trattasi di zona comune.
Da notare è la presenza in condominio di 2 unità non possessori di garage e questa mancanza determina una alterazione della misura del godimento dello spazio comune a vantaggio di alcuni condomini ed in pregiudizio di altri.
In condominio c'è anche un laboratorio al piano terra (proprietario non residente).
Il proprietario attuale del laboratorio (chi ha votato alla delibera nel 2016 ha venduto) pretende il diritto di parcheggiarci davanti.
Ora la cosa è diventata problematica, infatti il proprietario del laboratorio ha presentato una istanza in comune per il cambio di destinazione d'uso da laboratorio a garage in modo da poterci parcheggiare davanti come da delibera.
Ciò creerebbe problemi a me per parcheggiare in sicurezza davanti al mio garage, e renderebbe difficoltoso l'accesso alle due stanze comuni adiacenti all'ingresso del laboratorio.
Alla luce di quanto sopra, vorrei sapere se sia possibile e in che modo io possa chiedere di ritirare la mia adesione di allora per cambiate condizioni o altro e come potermi muovere.
Infatti, se al tempo il laboratorio fosse stato accatastato come garage, avrei dato voto negativo in quanto come sopra detto la cosa avrebbe creato problemi sia al poter parcheggiare davanti al mio garage, sia all'ingresso della stanza comune e dei contatori, quindi (visto che ci vuole l'unanimità) la delibera non sarebbe passata.
Per completezza, davanti all'ingresso del laboratorio c'è una fossa biologica il parcheggio continuo di automezzi (anche pesanti) potrebbe danneggiarla.
Spero di essere stato più chiaro possibile. In attesa di risposta porgo cordiali saluti.
Maurizio ROSETTI”
Consulenza legale i 14/02/2020
La decisione che fu presa all’epoca escludeva alcuni condomini (chi non era proprietario di garage) dall’utilizzare l’area di parcheggio condominiale, e, giustamente, è stata presa alla unanimità in quanto con essa si andava ad escludere la facoltà di godimento su tale parte comune del condominio per un determinato gruppo di comproprietari.
Il limite però di tali tipologie di delibere è che esse non possono essere mai rese opponibili ad eventuali successivi acquirenti, a meno che: o esse non vengano espressamente richiamate nel rogito di acquisto della unità immobiliare, oppure la delibera a suo tempo adottata venga tradotta in un accordo tra tutti i proprietari davanti ad un notaio e trascritta nella competente Conservatoria (entrambe tali ipotesi non accadono quasi mai nella pratica).

Stante il fatto che verso il nuovo acquirente quanto deciso dall’assemblea non può considerarsi in alcun modo efficace e vincolante, e stante il fatto che il presupposto per la validità e vincolatività di tali tipi di delibere è la completa adesione a quanto deciso da parte di tutti gli attuali comproprietari, si può tranquillamente ritenere che l’efficacia della delibera a suo tempo adottata sia venuta meno nel momento in cui vi è stato il mutamento dei componenti della compagine condominiale.

Non vi è alcun impedimento, quindi, nel convocare una nuova assemblea mettendo all’ordine del giorno la gestione dei posteggi nel cortile ed eventualmente concordare nuove modalità di utilizzo di tale spazio comune. La giurisprudenza, proprio in merito alle modalità di utilizzo del cortile-parcheggio condominiale, ha più volte chiarito che nel caso in cui lo spazio sia insufficiente a far fronte contemporaneamente a tutte le esigenze dei comproprietari, è assolutamente legittimo che l’assise dei proprietari decida, questa volta a maggioranza, un uso turnario dei posti auto. La giurisprudenza in questo senso è andata addirittura oltre, in quanto ha dichiarato radicalmente nulla la delibera condominiale che neghi la possibilità di un uso a turni di uno spazio comune nel momento in cui lo stesso non sia in grado di garantire un uso simultaneo da parte di tutti i condomini. Tale modalità di utilizzo,hanno precisato i giudici, non viola, ma anzi, attua quanto disposto dall'art. 1102 del c.c. in merito all'utilizzo della cosa comune (si veda sentenza Tribunale di Roma n. 319 del 10.06.2016).



Alfonso G. chiede
lunedì 20/01/2020 - Puglia
“Gentili Avvocati
Nel 1996 acquisii (per successione) un appartamento di circa 200 mq dotato di doppio ingresso, di fatto diviso in due unità abitative ma formalmente ancora accatastati come unica unità in quanto i lavori per renderli indipendenti (consistenti nella realizzazione di bagno e cucina in uno dei due appartamenti che non ha questi servizi) non erano stati completati.
Appena acquisiti, feci effettuare la variazione catastale e mi accingevo a realizzare i servizi necessari quando il proprietario dell’appartamento contiguo mi chiese di fittarglielo così come era (senza bagno e cucina) in quanto doveva ampliare il suo appartamento già dotato di due bagni e cucina.
Dopo 24 anni l’appartamento mi è stato restituito per fine locazione e, quindi, si rende necessario realizzare il bagno e la cucina per renderlo abitabile ed autonomo.
Per quanto riguarda lo scarico fognante non ci sono problemi in quanto in un cassonetto del locale dove intendo realizzare il bagno passa una colonna fognante.
Il problema nasce per l’adduzione idrica. Le vie percorribili, individuate, sono diverse, ma solo la seguente garantisce la completa indipendenza tra i due appartamenti.
I miei due appartamenti sono ubicati al sesto piano di un palazzo di otto piani. In direzione del bagno da realizzare, al quarto piano esiste un bagno la cui colonna montante condominiale di adduzione acqua passa nello stesso cassonetto dove passa la colonna fognante a cui devo allacciare gli scarichi del mio bagno. Purtroppo, l’ adduzione dell’acqua si ferma al quarto piano. Quindi, vorrei, ovviamente a mia cura e spesa, operando dall’esterno del fabbricato, per non creare disagi ai condomini del quarto e quinto piano, intercettare al quarto piano la colonna montante dell’acqua e, facendo le opportune opere sempre dall’esterno, passare con una tubazione nel cassonetto fino ad arrivare al sesto piano per servire il mio bagno.

Leggendo (da profano quale io sono) gli articoli 1102 e 1117 del c.c. la soluzione che vorrei adottare mi sembrerebbe percorribile.
Qual è il Vostro parere?
In caso affermativo devo chiedere il permesso al condominio o devo solo notificare l’esecuzione dei lavori? A quali altri adempimenti sono soggetto?
Per motivi di riservatezza gradirei non fosse pubblicato questo quesito.Grazie

In attesa, porgo distinti saluti
Alfonso G.”
Consulenza legale i 23/01/2020
Innanzitutto è opportuno premettere che chi scrive non è un tecnico edile e non è minimamente a conoscenza di come questi lavori vadano tecnicamente realizzati. L’ unica cosa che si può fare in questa sede è illustrare brevemente i principi racchiusi nell’art.1102 del c.c., ma si consiglia di rivolgersi ad un tecnico edile per capire con chiarezza se la concreta realizzazione dei lavori vadano a violare i principi che ci si appresta a descrivere.

L’art. 1102 del c.c., applicabile al condominio dal rinvio operato dall’ art. 1139 del c.c., stabilisce il diritto che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la sua destinazione economica, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
In merito ai requisiti indicati dall’art. 1102 del c.c., la giurisprudenza ha avuto più volte modo di precisare che il permettere agli altri comproprietari di fare parimenti uso della cosa comune, non significa che uno dei proprietari non possa fare della cosa un uso più intenso, anche comprimendo in parte, ma senza limitarla in toto, la possibilità di utilizzo degli altri partecipanti alla comunione. In altri termini l’espressione parimenti uso non può essere interpretata come un uso qualitativamente identico e simultaneo della cosa da parte di tutti i comunisti.

Per quanto ci è dato sapere, sulla base di quello che viene riferito nel quesito, i lavori che si desiderano realizzare rientrano perfettamente nei perimetri descritti dalla norma in esame, in quanto non vanno ad alterare la destinazione economica del bene comune (la colonna montante dell’acqua), il quale mantiene perfettamente la sua funzionalità a favore degli altri condomini, anzi essa viene ampliata e potenziata estendendola alle unità immobiliari dei piani superiori.

Per rispettare i principi ormai consolidati dalla giurisprudenza è altresì importante che i lavori siano eseguiti in maniera tale da non pregiudicare la stabilità e la sicurezza del fabbricato e rendere teoricamente possibile agli altri proprietari di fruire in futuro dell’opera eseguita. In altre parole deve essere data anche agli altri condomini proprietari di unità abitative site dal quinto piano in su, la teorica possibilità di allacciarsi alla colonna dell’acqua per ipotetiche future ristrutturazioni delle loro proprietà.
È altresì importante che al termine dei lavori non vi sia una lesione del decoro architettonico dell’edificio e che le linee del fabbricato siano preservate.

L’opera descritta sarebbe di per sé una innovazione, la quale andrebbe approvata dalla assemblea dei condomini con le maggioranze di cui all’art.1136 del c.c. Vi è da dire però che nel caso descritto le spese di tali lavori saranno sobbarcate da un solo condomino interessato alla realizzazione dell’opera. In questo caso la giurisprudenza assolutamente dominante, proprio perché non vi è l’esigenza di ripartire le spese dei lavori fra più proprietari, non ritiene necessario che l’opera sia autorizzata dalla assemblea: è sufficiente, quindi, che il proprietario avvisi con congruo preavviso l’amministratore di condominio della data di inizio lavori.

Al di la di quello che dice la giurisprudenza però non possiamo escludere a priori che qualche condomino scontento possa tentare di paralizzare l’inizio dei lavori intraprendendo qualche azione giudiziaria più o meno fondata. Nel caso in cui l’autore del quesito registrasse tra i condomini una non eccessiva ostilità circa la realizzazione dei lavori, si consiglia comunque di effettuare un passaggio assembleare e chiedere alla assise dei proprietari l’autorizzazione ad eseguire l’opera.

Massimo C. chiede
lunedì 18/11/2019 - Campania
“Salve mi trovo in una situazione simile, provo a descriverla nel miglior modo.
Sono proprietario di un appartamento al piano terra con uno spazio esterno che costeggia su 3 lati il mio appartamento.
Immaginiamo uno spazio esterno a forma di lettera “U” con al centro il mio appartamento. Da una lato (parte finale della “U”) posso accedere,essendo più largo, con l’auto (da sempre presente un cancello apribile che divide la mia proprietà da quella condominiale), dall’altro lato invece, più stretto, c’è da sempre una grata in ferro alta 2 metri e larga 1 metro e mezzo saldata ai lati e mai aperta, che delinea il confine tra la mia proprietà e quella condominiale. Immaginando sempre la lettera “U” al centro di essa accedo all’interno del mio appartamento.
Siccome questa grata divide la zona condominiale dalla mia proprietà, (il tutto facente parte sempre dello stesso condominio) vorrei aprirla per creare un nuovo ingresso sia per comodità e sia per valorizzare di più la mia proprietà.
Oltre questa grata c’è uno spazio condominiale che per vari motivi non viene sfruttato da nessuno, ma percorrendola per un paio di metri si raggiunge l’entrata principale del palazzo, dove anche dall’interno del vano scale accedo al mio appartamento. In effetti andrei a creare un terzo ingresso, due esterni ed uno interno principale.
I condomini si sono già opposti in quanto affermano che così facendo vado a creare una servitù di passaggio e quindi potrei in futuro vietare, in quella piccola zona condominiale, di posizionare delle piante oppure la sosta di bici o altro.
La mia domanda è:
Posso aprire questa piccola grata in basa all’art. 1102 ?
Vado a creare una servitù di passaggio? oppure siccome essendo il mio appartamento parte dello stesso condominio posso farlo tranquillamente senza opposizione degli altri condomini?”
Consulenza legale i 21/11/2019
L’art. 1027 del c.c. definisce la servitù prediale come il peso imposto sopra un fondo (detto dominante) per l'utilità di un altro fondo (detto servente) appartenente a diverso proprietario. Tra le servitù più utilizzate nella pratica, e maggiormente presenti nella vita condominiale, vi è sicuramente la servitù di passaggio pedonale che permette di transitare sull’area del fondo servente per raggiungere il fondo dominante.
Vi sono diversi modi per costituire una servitù, e sicuramente tra questi modi vi è l’acquisto per usucapione: l’esercizio continuato e pacifico e non clandestino del diritto di servitù per il tempo necessario richiesto dalla legge per usucapire (20 anni ai sensi dell’art. 1158 del c.c.), comporta l’acquisto di tale diritto a titolo originario.

Vi è da dire però che non tutte le servitù sono idonee ad essere costituite per mezzo dell’usucapione: il co.1° dell’art.1061 del c.c. ci dice infatti chiaramente che le servitù non apparenti non possono acquistarsi per usucapione. La stessa norma in esame ci chiarisce che sono non apparenti tutte quelle servitù che non hanno opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio. La ragione di tale norma è evidente: se la servitù può essere esercitata senza la necessità di realizzare opere stabili e visibili, non potrà mai determinarsi il dies a quo da cui iniziare a computare il termine per usucapire.

La servitù di passaggio è un tipico caso da manuale di servitù non apparente, e pertanto non usucapibile: è ben possibile, infatti, transitare sul fondo servente per raggiungere quello dominante senza la necessità di costruire opere che mi permettono di farlo. I timori, quindi, degli altri proprietari sono assolutamente infondati, in quanto anche dopo 20 anni o più dalla costruzione della porta di accesso, l’autore del quesito non potrebbe mai ricorrere al giudice per vedersi riconosciuta l’usucapione di un ipotetico diritto di passaggio a carico dell’area condominiale; se, per assurdo, si facesse tale tentativo, esso si concluderebbe inesorabilmente in una sconfitta, e, con ogni probabilità, con una condanna a rifondere al condominio le spese giudiziarie.
Si precisa che la costruzione di un ulteriore ingresso che si affaccia su un’area comune condominiale non può assolutamente considerarsi una opera visibile destinata all’esercizio di un diritto di servitù di passaggio, ma una semplice opera che agevola l’accesso di un condominio ad un’area comune condominiale su cui si ha tutto il diritto di transitare.
In altri termini, la costruzione di un nuovo ingresso è perfettamente conforme a quanto dispone l’art.1102 del c.c.

Come è noto l’art. 1102 del c.c. dispone che ciascun partecipante può fare uso della cosa comune purché:
  • non ne alteri la destinazione
  • e permetta agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
In merito ai requisiti indicati dall’art. 1102 del c.c., la giurisprudenza ha avuto più volte modo di precisare che il permettere agli altri comproprietari di fare parimenti uso della cosa comune non significa che uno dei proprietari non possa fare della cosa un uso più intenso, anche comprimendo in parte, ma senza limitarla, la possibilità di utilizzo degli altri partecipanti alla comunione (si veda su tutte le pronunce: Cass. Civ.,Sez.II, n.9522 del 30.04.2014,la quale ribadisce i principi di diritto espressi da Cass. Civ., Sez.II, sentenza n. 9875 del 15.06.2012). In altri termini l’espressione "parimenti uso" non può essere interpretata come un uso qualitativamente identico e simultaneo della cosa da parte di tutti i comunisti.

Alla luce di quanto detto, con la realizzazione di una nuova apertura l’autore del quesito farà sicuramente un uso più intenso dell’area comune, assolutamente ammesso dall’art.1102 del c.c., uso che non può essere impedito dagli altri proprietari, anzi gli stessi nell’usare a loro volta l’area, dovranno rispettare la possibilità per l’autore del quesito di transitare per mezzo dell’apertura. Per fare un esempio pratico, se gli altri condomini vorranno posizionare delle piante o una sosta bici, tali installazioni dovranno essere realizzate in modo tale da non andare ad ostacolare la possibilità di usare la nuova apertura e di accedere per mezzo di essa sull'area condominiale e di transitarvi .

Bisogna però tenere ben presente una cosa: la giurisprudenza citata ammette si, che uno dei comproprietari possa fare un uso più intenso del bene comune, a patto che tale uso più intenso, però, non vada a neutralizzare del tutto per gli altri partecipanti alla comunione la possibilità di utilizzare a loro volta il bene. Diversamente si avrebbe una vera e propria appropriazione esclusiva del bene comune da parte del singolo proprietario.
Posto che dalle fotografie allegate l’area in questione è particolarmente piccola, bisogna prestare attenzione ed evitare che la realizzazione dell’apertura e il conseguente passaggio più frequente non vada a vanificare del tutto l’utilizzo per gli altri condomini. Diversamente saremmo di fronte ad un comportamento vietato dall’art.1102 del c.c., il quale potrebbe ingenerare col tempo litigi e probabili contenziosi dall’esito incerto.


Anonimo chiede
mercoledì 26/06/2019 - Lombardia
“siamo proprietari di un appartamento in condominio a Santa Margherita Ligure
anni fa causa la presenza all'ultimo piano di persona invalida è stato istallato un monta scale il cui ingombro riduce sensibilmente la già stretta scala (si poteva installare senza permesso dei condomini?)
Da qualche anno la persona interessata è passata a miglior vita e il nuovo proprietario non intende rimuovere l'impianto che oltre al disagio crea pericolo agli altri condomini che percorrono le scale.
Quali iniziative deve adottare la nostra Società per ottenere la rimozione stante che la maggioranza condominiale è composta da tre persone tra cui il proprietario dell'appartamento in questione e solidali stroncano ogni iniziativa”
Consulenza legale i 28/06/2019
È opportuno innanzitutto premettere che l’installazione del montascale fatta all’epoca senza l’autorizzazione della assemblea dei condomini, può considerarsi conforme al diritto condominiale vigente sia in presenza di proprietari portatori di handicap, sia in presenza di proprietari privi di qualsiasi disabilità.
Nel primo caso infatti soccorre la L. n. 13 del 9.01.1989 ed in particolare il comma 2° dell’art. 2 della L.n.13/1989, il quale, in assenza di una delibera assembleare in merito alla installazione di impianti ascensore o similari in ausilio alla persona in difficoltà motoria, riconosce il diritto al condomino portatore di handicap o ai suoi eventuali rappresentanti legali (come i genitori) di installare tali apparati a loro spese.

Nel caso in cui non possa trovare applicazione la normativa speciale sopra descritta, la giurisprudenza oramai costante, riconosce la possibilità al singolo condomino di installare impianti montascale o ascensori ricorrendo a quanto dispone l’art.1102 del c.c., norma disciplinante l’uso della cosa comune in generale, che trova ampia applicazione anche nel contesto condominiale per via del rinvio operato dall’art.1139 del c.c. (da ultimo in questo senso, tra le tante, si veda Cass. Civ.,Sez.II, n.10852 del 16.05.2014).
Come è noto l’art. 1102 del c.c. dispone che ciascun partecipante può fare uso della cosa comune purché: non ne alteri la destinazione e permetta agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
In merito ai requisiti indicati dall’art. 1102 del c.c., la giurisprudenza ha avuto più volte modo di precisare che il permettere agli altri comproprietari di fare parimenti uso della cosa comune, non significa che uno dei proprietari non possa fare della cosa un uso più intenso, anche comprimendo in parte, ma senza limitarla, la possibilità di utilizzo degli altri partecipanti alla comunione. In altri termini l’espressione parimenti uso non può essere interpretata come un uso qualitativamente identico e simultaneo della cosa da parte di tutti i comunisti.
In questo senso l’installazione del montascale seppur comporta un maggior uso del vano scale comune da parte del condomino che ne ha sopportato le spese di installazione, non può considerarsi illecito nel momento in cui le scale possano essere tranquillamente utilizzate anche dagli altri proprietari.
Una volta che il montascale è installato, diventa una innovazione dell’edificio e come tale deve essere trattata, tant'è che, sia se vediamo la vicenda sotto la lente della L.13/89, sia se la vediamo attraverso l’art.1102 del c.c., deve essere sempre garantita la possibilità agli altri proprietari ai sensi del 3° comma dell’art.1121 del c.c., di godere anche successivamente ai vantaggi del montascale, partecipando però alle spese di installazione e manutenzione.

Da tutto ciò, una volta venuto a mancare l’originario proprietario che ha sopportato l’installazione del montascale, discende che qualora si volesse procedere alla sua rimozione, è necessario comunque passare da una autorizzazione assembleare, che deve essere adottata, a parere di chi scrive, secondo le maggioranze indicate dagli artt. 1120 co.1° del c.c. e art.1136 5°co. del c.c., ovvero maggioranza degli intervenuti che rappresentano almeno i 2/3 del valore dell’edificio (666 millesimi).

La mancanza della autorizzazione assembleare non lascia molte strade a quei condomini che, trovandosi in minoranza, siano desiderosi di rimuovere tale tipo di innovazione.
Per aggirare il passaggio assembleare ed ottenere per via giudiziaria la rimozione del montascale, si potrebbe, forse, sostenere davanti al giudice che l’innovazione comporti una forte e sensibile riduzione della possibilità di utilizzo delle scale, derivante proprio dalla presenza di un manufatto che intralcia il passaggio. In questo senso la Cass. Civ. Sez.II, del 29.11.2016, n. 24235 ha precisato che le modalità realizzative delle opere volte all’abbattimento delle barriere architettoniche, non devono comunque causare una sensibile menomazione dell’utilità che gli altri proprietari precedentemente ricavavano dal bene (ovvero il vano scala).
In particolare sotto questo ultimo aspetto, è importante sottolineare però che la limitazione all’utilizzo del bene deve essere estremamente significativa, e, francamente, il quesito non sembra offrire sufficienti elementi per ritenere che questa tesi possa essere validamente sostenuta in giudizio.

Vi è da dire inoltre che, divenendo parte comune dell’edificio, se la presenza del montascale causa un qualche infortunio, durante l’utilizzo del vano scala, sia a condomini come a terzi soggetti, il condominio potrebbe essere chiamato a rispondere dei danni ai sensi dell’art. [[n2051c]] del c.c., norma disciplinante la responsabilità da cose in custodia. L’apertura di un sinistro condominiale, potrebbe, forse, indurre gli altri proprietari a rivedere le loro considerazioni sulla presenza dell’incriminato manufatto.



Luca S. chiede
martedì 11/06/2019 - Lazio
“Buongiorno
ho acquistato un appartamento al primo piano che in questo momento non è collegato al giardino di nostra proprietà esclusiva, volendo realizzare una scala di collegamento stiamo cercando di accordarci con i condomini, avrei quindi da chiedervi di cosa ho bisogno per procedere senza problemi legislativi:
1)serve avere una autorizzazione da parte dei condomini o basta dare loro una comunicazione attraverso l'amministratore?
2)in che percentuale è sufficiente per poter procedere?
3)da cosa viene definito il "decoro" della facciata o l'eventuale "deturpare" della stessa.
Noi stiamo procedendo con la documentazione relativa, Genio Civile e Comune, ma vorrei chiedere a voi come e cosa fare per "gestire" la parte condominiale.

Grazie
Luca S.”
Consulenza legale i 18/06/2019
In merito alla realizzazione della scala di collegamento si ritiene che possano trovare applicazione i principi espressi dalla giurisprudenza costante e dominante in merito all’ art. 1102 del c.c., norma applicabile anche nel contesto condominiale per via del rinvio operato dall’art. 1139 del c.c.

Come è noto l’art. 1102 del c.c. dispone che ciascun partecipante può fare uso della cosa comune purché: non ne alteri la destinazione e permetta agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
In merito ai requisiti indicati dall’art. 1102 del c.c., la giurisprudenza ha avuto più volte modo di precisare che il permettere agli altri comproprietari di fare parimenti uso della cosa comune, non significa che uno dei proprietari non possa fare della cosa un uso più intenso, anche comprimendo in parte, ma senza limitarla, la possibilità di utilizzo degli altri partecipanti alla comunione. In altri termini l’espressione parimenti uso non può essere interpretata come un uso qualitativamente identico e simultaneo della cosa da parte di tutti i comunisti.

In questo senso l’installazione della scala di collegamento, costituisce sicuramente il mezzo per consentire un uso qualitativamente diverso e più intenso della cosa comune da parte dell’autore del quesito, ma diventa legislativamente ammissibile nel momento in cui le modalità di realizzazione dell’opera, non escluda del tutto la possibilità per gli altri comproprietari di utilizzare le altre parti comuni dell’edificio.

La realizzazione della scala, è un’opera che viene edificata solo da parte di un singolo proprietario e al fine di collegare due parti in proprietà esclusiva: motivo per cui non può trovare applicazione nel caso prospettato la normativa sulle innovazioni ex art. 1120 del c.c., ciò esclude in radice la possibilità che per iniziare i lavori sia richiesta una qualche forma di autorizzazione vuoi dell’amministratore di condominio, vuoi della stessa assemblea dei proprietari. E’ sicuramente opportuno, per ragioni di correttezza e di buon vicinato, dare notizia dell’inizio del lavori, sia all’amministratore dello stabile, sia agli altri proprietari, meglio se con una missiva scritta inviata con raccomandata con ricevuta di ritorno.

Anche se la realizzazione della scala, sulla base delle informazioni fornite, parrebbe ammissibile, vi sono comunque dei limiti: l’opera, infatti, non può prescindere dal rispetto della stabilità dell’intero complesso condominiale e dal rispetto del decoro architettonico.
Si ritiene che proprio sotto questo ultimo aspetto, potrebbero giungere le maggiori lamentele degli altri proprietari, e quindi eventuali tentativi di bloccare l’inizio dei lavori o addirittura di ottenere per vie giudiziarie la rimozione della scala una volta che la stessa sia stata realizzata.

La giurisprudenza di legittimità assolutamente dominante definisce il decoro architettonico, come l’insieme delle linee e delle strutture ornamentali dell’edificio che, viste nel suo insieme, vanno a costituire l’estetica del fabbricato. Il decoro architettonico viene considerato come un bene comune condominiale ed è tutelato dal codice civile indipendentemente dal fatto che la costruzione sia considerata di pregio o abbia qualche vincolo storico-paesaggistico.

La problematica maggiore delle controversie aventi ad oggetto la tutela del decoro architettonico, sta proprio nella assoluta soggettività del concetto, rendendo di fatto estremamente incerto l’esito di un eventuale contenzioso. Una determinata opera, infatti, può apparire del tutto in linea con l’estetica del fabbricato per il tecnico edile chiamato da un condomino a difenderlo in giudizio, come invece può apparire del tutto disarmonioso per il tecnico di controparte, o per quello nominato dal giudice chiamato a dirimere il contenzioso.

A mitigare l’assoluta soggettività del concetto è intervenuta la Corte di Cassazione Sez.II, con sentenza n. 1286 del 25.01.2010, la quale ha precisato che l’alterazione delle linee estetiche del fabbricato, non è di per se sufficiente affinché si possa verificare una lesione del decoro architettonico, ma tale alterazione deve tradursi in un pregiudizio economicamente valutabile; in altre parole l’alterazione deve costituire un danno economico e un deprezzamento per le proprietà ricomprese nel fabbricato condominiale.
E’ importante precisare che la lesione del decoro architettonico essendo di per se continuativa nel tempo rende l’azione giudiziaria di per se imprescrittibile: è quindi ben possibile per il condominio in ogni tempo azionare il giudice al fine di poter chiedere la rimozione dell’opera lesiva del decoro architettonico e l’eventuale risarcimento del danno conseguente, fermo restando la possibilità per il convenuto di dimostrare l’intervenuta usucapione ventennale della situazione lesiva.


Davide C. chiede
sabato 20/04/2019 - Lazio
“Sono amministratore di un condominio formato da N° 2 edifici complessivamente composti da 30 unità immobiliari di seguito dettagliate : N° 10 immobili A2 , N° 17 immobili C6 e N° 3 immobili C2 . Il condominio è stato costruito con concessione edilizia N°166 del 11 Aprile 1981 e variante N°258 del 20 Dicembre 1982 . Il condominio in oggetto è ubicato nel comune di Castel Madama provincia di Roma ed è in possesso del Regolamento di Condominio di natura contrattuale in cui viene indicato che nei piazzali condominiali è concesso il parcheggio a patto che non venga negato il passaggio ad altri condomini . Dato che lo spazio dei piazzali condominiali a disposizione non è sufficiente al parcheggio di tutti i proprietari degli immobili il quesito che vi porgo è : Sono 30 unità immobiliari , chi ha diritto al parcheggio e in quale misura ? Possono parcheggiare solo le autovetture o anche mezze tipo furgoni ? Grazie della collaborazione”
Consulenza legale i 26/04/2019
Le modalità di utilizzo di un’area di parcheggio la quale possiede una capienza inferiore rispetto ai numeri di abitanti dello stabile, è una delle problematiche più ricorrenti in un contesto condominiale.
L’art. 1102 del c.c., applicabile al condominio dal rinvio operato dall’art. 1139 del c.c., stabilisce il diritto che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la sua destinazione economica, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso. Il regolamento contrattuale vigente nel condominio in proposito non fa che ribadire il principio racchiuso nelle norme di legge citate, precisando che il parcheggio è si consentito, ma ciò non deve impedire il transito degli altri proprietari, e deve essere comunque garantito il passaggio per l’accesso all’edificio.

L' edificio descritto è uno di quei casi in cui si dovrebbe regolamentare l’utilizzo turnario dei piazzali destinati ad aree di parcheggio attraverso una apposita delibera della assemblea condominiale, ovviamente preceduta da idonea convocazione in cui venga puntualmente indicato tra gli argomenti all’ordine del giorno l’introduzione di una tale modo di utilizzo.

Proprio su tale argomento la Cassazione Sez.II con sentenza n. 12485 del 19.07.2012 ha statuito che:” … se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento. Pertanto, l'assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, non sia possibile l'uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti auto condominiali.”

La giurisprudenza di merito è andata addirittura oltre a quanto stabilito da quella di legittimità, statuendo lanullità, per contrarietà dell’art. 1102 del c.c., della delibera condominiale che respinga la richiesta di un condomino di utilizzare a turno un’area di parcheggio. Il negare, infatti, l’uso turnario della cosa comune, impedisce ai partecipanti esclusi di godere e di utilizzare la cosa comune (si veda in tal senso Tribunale di Roma sentenza n.319 del 10.01.2016).

È opportuno, infine, precisare che in assenza di uno specifico divieto all’interno del regolamento di condominio di natura contrattuale, che pare mancare nel condominio in esame, non si può impedire ad alcuni mezzi (come ad esempio i furgoni) di essere parcheggiati all’interno del piazzale comune.
Precisa su tal punto la Corte di Cassazione: "un'area esterna comune adibita a parcheggio dei veicoli dei condomini può essere da costoro utilizzata per parcheggiarvi delle roulottes (se nel regolamento condominiale non sono in proposito previsti particolari divieti o limitazioni), trattandosi di un uso particolare dalle cosa comune che non ne altera la destinazione e non limita l'uso paritetico da parte degli altri condomini; ne consegue che deve ritenersi nulla perché lesiva del diritto di ciascun condominio all'uso della cosa comune la delibera con la quale l'assemblea, senza l'unanimità di tutti i partecipanti al condominio, vieti il suddetto uso particolare (parcheggio di roulottes) delle aree comuni " (Cass.Civ.,Sez.II, n.9649 del 26.09.1998). In applicazione di quanto statuito dalla Cassazione, una delibera assembleare adottata a maggioranza che vietasse la sosta nell’area di parcheggio condominiale a mezzi diversi dalle autovetture sarebbe radicalmente nulla, e quindi impugnabile da chiunque vi abbia interesse oltre i rigidi termini previsti dall’art.1137 del c.c.

Seppur in assenza di diverse disposizioni del regolamento condominiale contrattuale il parcheggio di mezzi diversi dalle autovetture deve considerarsi consentito. Perché possa considerarsi lecito, deve comunque rispettare i limiti di cui all’art. 1102 del c.c., ed in particolare la sosta di tali veicoli deve essere effettuata in maniera tale da garantire agli altri proprietari la possibilità di godere della parte comune condominiale.

LUIGI F. chiede
venerdì 15/06/2018 - Lazio
“Un condominio è proprietario di un'area destinata al parcheggio per i condomini. La titolarità del diritto in capo al condominio è confermata dal regolamento condominiale e le spese relative alla manutenzione di tale area vengono ripartite, secondo la tabella millesimale di proprietà "generale", fra tutti i contitolari del diritto di proprietà. I posti auto disponibili sono 14 o 15. Le unità immobiliari di tipo abitativo sono 9 (ciascuna avente, come pertinenza, una piccola soffitta/sottotetto). Vi sono inoltre locali di diversa tipologia catastale: 4 unità C1 (negozi), 2 unità A10 (uffici) e 6 unità C2 (magazzini). Visto che i posti auto disponibili non sono sufficienti per tutti i proprietari di unità immobiliari facenti parte del condominio, si chiede a chi spetta il diritto di parcheggiare in detta area: ai soli proprietari di abitazioni od a tutti i proprietari di unità immobiliari facenti parte del condominio?
Agli ingressi dei negozi/uffici ed ai portoni per le abitazioni si accede, necessariamente, attraverso tale area. Esiste il diritto di riservare un corridoio per il passeggio pedonale davanti a ciascuno di questi ingressi? Se sì, tale corridoio deve avere una larghezza minima?”
Consulenza legale i 03/07/2018
L’art. 1102 del c.c., applicabile al condominio dal rinvio operato dall’ art. 1139 del c.c., stabilisce il diritto che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la sua destinazione economica, e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
Da ciò deriva necessariamente che, al di là che un condomino sia proprietario di un appartamento piuttosto che di un negozio o di un ufficio, ciascun proprietario ha diritto di utilizzare per sé o per i propri ospiti o clienti, l’area condominiale destinata a parcheggio delle autovetture.

Il problema, pare di capire, sorge dal fatto che l’area di parcheggio è uno spazio ristretto e come tale non è possibile un uso simultaneo della stessa. È quindi opportuno che l’assemblea adotti una delibera con la quale si regolamenti le modalità di utilizzo dell’area comune, ed eventualmente si stabilisca un uso turnario degli stalli destinati a parcheggio.
La giurisprudenza oramai costante della Corte di Cassazione (si veda fra tutte Cass. Civ. Sez. II, n. 144/2012), ha stabilito che l’assemblea, organo chiamato in prima battuta dal legislatore a disciplinare l’uso delle cose comuni, è pienamente legittimata ad adottare una delibera di questa natura.
La giurisprudenza di merito, si veda Tribunale di Roma sentenza n. 319 del 10.01.2016, è andata oltre stabilendo la nullità, per contrarietà dell’art.1102 del c.c., della delibera condominiale che respinga la richiesta di un condomino di utilizzare a turno un’area di parcheggio: il negare infatti l’uso turnario della cosa comune, impedisce ai partecipanti esclusi di goderne e di utilizzarla al pari degli altri partecipanti.

Sulla base di quanto sopra detto appare del tutto legittima una delibera assembleare che, oltre a stabilire i turni di parcheggio, riservi parte dell’area comune ad area pedonale per agevolare l’accesso ai negozi. Non è possibile, tuttavia, determinare a priori una grandezza di tali passaggi pedonali; l'attenzione, però, che senz'altro si dovrà avere quando si deciderà di dimensionarli e tracciarli è il non impedire che gli altri partecipanti al condominio facciano un uso, anche turnario, dei medesimi spazi comuni.


Giovanni P. chiede
martedì 24/04/2018 - Lombardia
“Buonasera,
ho comprato un laboratorio a Milano, situato al piano terra di un complesso condominiale primo 900 per fare banqueting
Il laboratorio è privo di bagno interno ma in adiacenza ad esso (un lato in aderenza) c'è un wc condominiale dotato di finestra con accesso dal cortile condominiale, sul quale si affaccia anche l'ingresso della mia unità

L'articolo 1102 del codice civile, mi permette di apportare modifiche a mie spese per un migliore godimento del locale senza comprometterne l'uso da parte degli altri condomini.
Ho dunque sottoposto il locale ad alcuni lavori di ristrutturazione ridotti al minimo necessario per renderlo salubre e igienicamente migliore (comando a pedale per il wc, semplice piastrellatura ecc.)

Dal momento che l' ATS richiede l'accesso diretto dal laboratorio, può rientrare nell'ambito dell' art. 1102 la possibilità di aprire un vano di passaggio (con porta blindata chiudibile a chiave solo da un lato e con chiavistello sull'altro) tra il mio laboratorio e il locale wc, mantenendo anche l' accesso dall' esterno esistente?

Dovrei riuscire ad acquisire detto locale wc in comodato d'uso esclusivo entro 6 mesi ma nel frattempo vorrei assicurarmi di fare la cosa giusta, anche per protocollare in comune la pratica edilizia corretta

Consulenza legale i 27/04/2018
Si ritiene che la possibilità di aprire un passaggio tra il locale w.c. e il laboratorio sia perfettamente conforme a quanto previsto dall'art. 1102 del c.c.
La giurisprudenza sia di merito che di legittimità da tempo ha infatti ammesso che uno dei comproprietari possa fare della cosa comune un uso più intenso, purché non venga alterata la destinazione della cosa e non venga impedito agli altri proprietari di farne parimenti uso.
Nel caso di specie, il fatto di mantenere una accessibilità al locale dal lato del cortile esterno utilizzabile anche dagli altri condomini, permette di rimanere entro i confini dell'art.1102 del c.c.

Per completezza, però, si richiama l'attenzione sul fatto che deve tenersi distinta la regolarità condominiale e civilistica dell'opera, dal fatto che la stessa possa essere idonea da un punto di vista delle norme edilizie.

Pertanto, ai fini della correttezza della pratica edilizia, è opportuno chiedere anche consiglio ad un professionista che si occupa di tale settore (ingegneri edili, geometri e architetti), e interfacciarsi col funzionario comunale che solitamente si occupa di tali questioni.

Pasquale D. chiede
lunedì 09/04/2018 - Friuli-Venezia
“QUESITO: Attribuzione di posto macchina esterno condominiale a proprietario mansarda “condonata”

Il quesito attuale si ricollega a i due precedenti per i quali ho già ricevuto consulenza nelle scorse settimane. Mi riferisco ai sotto indicati

Il codice di riferimento della consulenza è Q201820436. del 2/2/2018

Il codice di riferimento della consulenza è Q201820708. Del 6/3/2018

Ciò mi esima dal ripetere tutta la problematica sottesa al quesito. Dalle vostre risposte comunque e in particolare dalla seconda (riassumo: la richiesta di condono del 1995 per cambio di destinazione d’uso da stenditoio PRIVATO a mansarda non era soggetta al consenso degli altri condomini tenuto conto delle norme regolamentari del condominio e dell’assenza di altre condizioni che l’avrebbero potuto contemplare e infine dal fatto che da 5 anni la mansarda è equiparata come millesimi alle altre abitazioni, per cui essa è del tutto legittima e del tutto equiparabile alle altre abitazioni) ) si ricava che nella delibera assembleare circa l’ assegnazione o meno (annuale e turnaria) per sorteggio dei posti macchina del cortile, si dovessero conteggiare anche i millesimi della mansarda. Al contrario nell’Assemblea dell’anno scorso (dalla quale dovetti assentarmi per motivi di salute, ma cui partecipò il proprietario dell’altra mansarda condonata) non solo non si tenne conto dei millesimi delle mansarde, alterando quindi l’esito della votazione, ma si stabilì che ai proprietari delle mansarde non dovesse toccare alcun posto macchina.
Per la prossima assemblea c’è all’ordine del giorno la verifica e la prosecuzione o meno della assegnazione con turnazione/rotazione dei posti macchina. Ora si dà il caso che i posti macchina ricavati nel cortile siano 15 o al massimo 16, mentre le abitazioni sono 17 (comprendendo le due mansarde).
Il quesito pertanto è:
in caso di votazione i proprietari delle due mansarde hanno gli stessi diritti delle altre abitazioni e quindi dovranno essere calcolati i millesimi al fine di stabilire la prevalenza dell’una o dell’altra tesi? (utilizzo comune o tramite assegnazione individuale)
Qualora la risposta precedente fosse affermativa, come mi parrebbe giusto, il fatto che non sia possibile l’uso simultaneo per insufficienza di posti, può portare anche a un “godimento turnario” dei posti presenti? Per quest’ultimo quesito mi richiamo a quanto da voi riportato nell’ultima consulenza e vi chiedo pertanto una conferma.

Cassazione Sez. II, con sentenza n. 12485 del 19/07/2012, ha statuito che: ”(…)”(…) se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento. Pertanto, l'assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, non sia possibile l'uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti

Grazie
Pasquale”
Consulenza legale i 14/04/2018
Il quesito si fonda su un presupposto errato, ossia quello secondo cui il numero dei millesimi di proprietà debba avere un peso determinante nell’uso dei parcheggi condominiali.
Intanto, un dato è certo: quando gli spazi destinati a parcheggio non sono sufficienti per soddisfare le necessità di ogni singolo condomino, non resta altra soluzione che quella di prevedere un uso turnario dell’area che si vuole adibire a tale scopo.
Un uso indiscriminato di quest’ultima, infatti, finirebbe per tradursi in una violazione dell’art. 1102 c.c., norma che riconosce a ciascun partecipante il diritto di servirsi della cosa comune purché non ne venga impedito il pari uso da parte degli altri comunisti.
Significativa in tal senso è proprio la sentenza del 2012 della Corte di Cassazione, citata nella precedente consulenza resa da questa redazione, e correttamente richiamata nel testo dell’attuale quesito.

Ben diverso, invece, è ciò che si vorrebbe ottenere adesso, ossia avvalersi dei millesimi relativi alla mansarda per ottenere un secondo posto auto.
Ebbene, si ritiene che questa non sia una tesi perseguibile, e ciò per le ragioni che qui di seguito si espongono.
Sempre la Corte di Cassazione, con sentenza successiva a quella precedentemente citata, ribadisce un proprio consolidato orientamento sulla differenza tra misura del diritto sulle parti comuni e diritto di uso delle stesse (la sentenza a cui ci si riferisce è la n. 820 del 16 gennaio 2014).
In tale sentenza, infatti, la Cassazione precisa che, nell’attuale regolamentazione giuridica del condominio, la questione della misura di utilizzazione della cosa comune non è certamente in rapporto con la quota maggiore o minore di proprietà del singolo condominio ed è totalmente sganciata dalle "tabelle millesimali" utilizzate per il calcolo delle spese relative alla gestione del bene stesso.
E’ pur vero che il caso specifico riguardava un soggetto proprietario di un appartamento di dimensioni notevolmente maggiori rispetto agli altri condomini, ragione per cui lo stesso riteneva che non potesse avere diritto ad un solo posto auto al pari del condomino il cui appartamento era più piccolo del suo, mentre, nel nostro caso, la titolarità di un numero maggiore di millesimi discende dall’essere proprietari di due unità immobiliari.

Ciò, però, non può far configurare una situazione dissimile da quella presa in esame dalla sentenza citata, in quanto attribuire più di un posto auto allo stesso partecipante al condominio significherebbe violare quel principio espresso dall’art. 1102 c.c., in favore del quale la Corte d Cassazione si è espressa nella sentenza del 2014.
In tale sentenza si richiama tra l’altro quanto già precisato dalla stessa Suprema Corte con riferimento ad analoga ipotesi, ove veniva appunto detto che “L’utilizzazione a parcheggio dei viali adiacenti agli edifici di un complesso condominiale configura un uso della cosa comune (ulteriore rispetto alla ordinaria destinazione degli stessi ad accesso ai vari fabbricati); pertanto, la disciplina di tale utilizzazione (con limitazione nella specie ad una sola vettura per unità abitativa) disposta dall’amministratore nell’ambito delle attribuzioni che gli competono a norma dell’art. 1130 co. 1 c.c., ovvero a maggior ragione, come nella specie, dall’assemblea, non riguarda la misura del godimento riconosciuto ai singoli condomini sulla cosa comune, ma raffigura una modalità d’uso della cosa stessa (così Cass. Sez. 2° n. 772 del 25.01.1997)”.

Ciò significa che, indubbiamente, i millesimi di proprietà avranno un loro peso nella determinazione del modo in cui il cortile condominiale potrà essere usato (se come cortile o come parcheggio di autovetture); qualora, però, si dovesse adottare la decisione di usarlo come parcheggio di autovetture, ciascuno dei partecipanti al condominio potrà avere diritto ad un solo posto auto (a prescindere dal fatto che sia proprietario di una o due unità abitative), mentre se il numero dei posti auto ricavabili dovesse risultare inferiore al numero dei proprietari (e non a quello delle unità abitative), allora sarà opportuno deliberare un uso turnario degli stessi.
La situazione sarebbe chiaramente diversa qualora la proprietà della mansarda fosse riconducibile ad un soggetto diverso dal proprietario dell’altra unità abitativa.

Questo è il consiglio che si ritiene opportuno suggerire, anche da un punto di vista equitativo.
Del resto, si tenga conto che uno degli obiettivi di questo sito è proprio quello di fornire, al di là di una soluzione giuridica, un orientamento sulle questioni che vengono prospettate, nell’ottica di far evitare di assumere decisioni che potrebbero indurre ad inutili e dispendiose battaglie giudiziarie.
Ciò, ovviamente, non esclude che se una tale diatriba dovesse giungere in un’aula di giustizia, il giudice investito di essa potrebbe anche essere di contrario avviso e così ritenere che ad ogni unità abitativa debba essere assegnato un posto auto nel cortile comune, applicando così in maniera matematica ed alla lettera quanto detto nelle sentenze citate, senza cogliere quello che invece si ritiene sia il vero spirito di esse, ossia far sì che ogni proprietario (e non ogni unità abitativa) possa godere di un posto auto.

Claudio M. chiede
martedì 20/02/2018 - Emilia-Romagna
- sono proprietario da 5/6 anni di un negozio di mq. 50 ca., categ. c/1 in Parma, inserito in un condominio non recintato di circa 20 unità immobiliari, costruito ex novo dall' impresa esecutrice nel 1960 ca.
- nel 1° rogito di acquisto come per tutte le altre unità, veniva allegato un regolamento condominiale registrato e trascritto che assegnava l'area antistante ai singoli negozi, in godimento esclusivo agli stessi, per il transito, esporvi le proprie merci, ecc. (la proprietà rimaneva di proprietà condominiale).
- orbene di detto ns. diritto, sia per noi che per gli altri non si è mai goduto in modo esclusivo, ma essendovi più attività commerciali limitrofe, si è consentito e tollerato che tutti i condomini ed anche cittadini esterni al condominio potessero transitare, parcheggiare auto ecc. su detta ns. area di pertinenza.
- ora il ns. nuovo inquilino pretende ed esige di potere usufruire totalmente di detta area condominiale esclusiva antistante il negozio stesso, come d'altronde recita il citato regolamento condominiale, precludendo per' di fatto il transito e l' utilizzo agli altri.
- domanda: l'avere tollerato di fatto per diversi decenni l'utilizzo di altri su quest'area, condomini ed cittadini esterni al condominio (dato che non è recintato), ha fatto decadere il nostro godimento esclusivo sulla area stessa, come ribadisce il condominio, che vorrebbe continuare ad occupare arbitrariamente l'area a noi assegnata ?
n.b. - si parla genericamente di possessoria, petitoria, o cose simili, ma non ci capiamo un granché.
saluti e grazie !!!

Consulenza legale i 27/02/2018
Il regolamento di cui si parla nel quesito è di natura cosiddetta “contrattuale”, ovvero un regolamento che, predisposto ed imposto dal costruttore a tutti gli acquirenti delle varie unità immobiliari in quanto richiamato ed allegato ai singoli atti di trasferimento della proprietà, li vincola come un contratto, senza possibilità di deroga successiva se non con l’unanimità dei consensi.
Il regolamento contrattuale costituisce, nei casi in cui esiste, la fonte principale che regola i rapporti tra i condòmini.

L’obbligo che il regolamento, nel caso di specie, ha posto sul condominio, ovvero quello di rispettare il diritto dei proprietari dei negozi al godimento esclusivo degli spazi antistanti l’edificio, ha natura di cosiddetta “obbligazione propter rem”, ovvero il condominio è obbligato al rispetto del contenuto regolamentare a causa del suo particolare rapporto con la cosa (gli spazi comuni condominiali).
La violazione di questo tipo di obbligazione, anche se si protrae per oltre vent’anni, non determina l’estinzione del rapporto obbligatorio e dell’impegno a tenere un comportamento conforme a quello imposto dal regolamento. L’unica prescrizione, infatti, riguarda il diritto al risarcimento degli eventuali danni derivanti dalla prolungata violazione del suddetto diritto.

La Corte di Cassazione conferma: “L'"uso esclusivo" su parti comuni dell'edificio riconosciuto, al momento della costituzione di un condominio, in favore di unità immobiliari in proprietà esclusiva, al fine di garantirne il migliore godimento, incide non sull'appartenenza delle dette parti comuni alla collettività, ma sul riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini, che avviene secondo modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto ex artt. 1102 e 1117 c.c.” - (il primo articolo stabilisce la regola per cui ogni comproprietario può usare la cosa comune purché non ne alteri la destinazione e consenta agli altri comproprietari di farne parimenti uso secondo il proprio diritto, mentre il secondo contiene l’elenco delle parti comuni dell’edificio) - “Tale diritto (…) è tendenzialmente perpetuo e trasferibile ai successivi aventi causa dell'unità immobiliare cui accede.” (Cass. civ. Sez. II, 16/10/2017, n. 24301)

Pertanto, nel caso in esame, l’inquilino che pretende il rispetto del regolamento condominiale ne ha tutto il diritto, poiché la tolleranza degli anni passati non ha inciso minimamente sul fondamento del diritto stesso e sulla possibilità del suo esercizio.

Il diritto al godimento esclusivo può trovare tutela in via giudiziale, attraverso una delle azioni citate nel quesito.
Ad avviso di chi scrive, tuttavia, vanno escluse le azioni cosiddette “possessorie”, in quanto, se è vero che tutelano il possesso, richiedono però dei presupposti che non sussistono o non sono così certi nel caso di specie (ad esempio uno spoglio del possesso violento e clandestino – che nella fattispecie in oggetto va senz’altro escluso - oppure una molestia o turbativa che va denunciata entro l’anno dal suo inizio, e stabilire quando si possa parlare di inizio della turbativa in un caso come quello in esame non è affatto agevole).

Uno strumento di tutela maggiormente utile, invece, potrebbe essere l’azione petitoria.
Le azioni petitorie sono disciplinate dagli articoli 948-951 del codice civile e sono esercitabili nei confronti di chiunque ponga in essere atti diretti a contestare la titolarità del diritto di proprietà ovvero ad incidere sul suo contenuto.
Tra queste, forse quella più adatta a tutelare il condòmino che vanta un diritto di godimento esclusivo è l’azione negatoria: "il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio. Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno" (art. 949 c.c.).
Può essere, quindi, promossa dal proprietario, dal comproprietario o da chi si dichiari titolare di un diritto reale di godimento, che abbia timore di subire un pregiudizio da terzi che vantino sulla medesima cosa diritti reali minori (ad esempio diritto di usufrutto o servitù).
Finalità dell'azione negatoria non è infatti l'accertamento dell'esistenza della titolarità del proprio diritto, ma la cessazione dell'attività turbativa lesiva, per cui incombe sul convenuto (in questo caso, gli altri condòmini) l'onere di provare l'esistenza del diritto di compiere tali attività (Cass. n. 1409/2007).
L'azione negatoria è imprescrittibile.

È sempre opportuno ricordare, in ogni caso, che prima di promuovere un giudizio di questo tipo, vertendo esso in materia di diritti reali, è obbligatorio prima esperire la procedura di mediazione ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 28 del 2010.


Pasquale D. chiede
mercoledì 31/01/2018 - Friuli-Venezia
“Uno dei condomini ha sollevato delle obiezioni sul fatto che io posteggi una delle mie macchine nel posto assegnato ad un altro condomino, il quale, avendo l'appartamento sfitto, mi ha concesso amichevolmente (e senza compenso) di utilizzare temporaneamente il posto macchina a lei assegnato fino a che non riuscirà ad affittare il suo appartamento. È da precisare che dall'anno scorso l'Assemblea ha deciso di assegnare con turno annuale i posti macchina numerati ai singoli appartamenti sulla parte comune dello spiazzo che circonda il condominio. A sostegno della sua tesi il condomino, mio oppositore, cita gli art. 1021 e 1024 del CC, che a me sembrano fuori luogo. Vorrei un vostro parere sulla questione,

Attendo un riscontro e le modalità per inviare quanto dovuto”
Consulenza legale i 14/02/2018
E' opportuno prima di tutto inquadrare giuridicamente la questione posta dal quesito.

Del tutto inconferente e fuori luogo appare il richiamo, infatti, agli artt. 1021 e 1024 del c.c, in quanto tali articoli disciplinano il diritto d’uso.
Il diritto d’uso rientra nella categoria dei diritti reali su cosa altrui, in forza dei quali il proprietario di un bene concede ad un soggetto l’esercizio di alcune facoltà rientranti nel proprio diritto di proprietà.

Nel caso dell’uso il titolare di tale diritto a mente dell’art. 1021 c.c. può servirsi della cosa e se fruttifera raccogliere i frutti, per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia.
L’art. 1024 del c.c., invece, fa divieto al titolare dell’uso di cederlo o darlo in locazione. Tale diritto reale può essere costituito dal proprietario o per contratto o per testamento o per usucapione.

Nel caso di specie nessuna di queste fattispecie si è realizzata. Si rientra piuttosto in una fattispecie più volte analizzata dalla Corte di Cassazione, in cui l’assemblea condominiale ha disposto l’ utilizzo turnario di una cosa comune. Proprio in merito all’ utilizzo di posti auto condominiali la Cassazione Sez. II, con sentenza n. 12485 del 19/07/2012, ha statuito che: ”(…) se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento. Pertanto, l'assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, non sia possibile l'uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti auto condominiali.
La sentenza citata, con un passaggio estremamente importante per il caso in esame, statuisce inoltre che: ”L'essenza stessa del turno, d'altro canto, richiede che, nel corso del suo svolgimento, il comunista che ne beneficia, abbia l'esclusività del potere di disposizione della cosa,senza che vi sia sostanziale interferenza degli altri compartecipi con mezzi e strumenti che ne facciano venire meno l'avvicendamento nel godimento o inducano alla incertezza del suo avverarsi”.

Applicando i principi della Suprema Corte al caso in esame possiamo quindi giungere a due conclusioni:
  • innanzitutto la deliberazione della assemblea condominiale che dispone l’uso turnario dei posti auto rientra pienamente nei poteri dell’organo del condominio ed è pienamente legittima.
  • ma vi è di più: il condomino a cui tocca in quell’anno solare il diritto di utilizzo del posto auto, avendo in quel momento la totale ed esclusiva facoltà di disporre della cosa comune, ben può concedere a sua assoluta discrezione ad un altro condomino il semplice utilizzo temporaneo del posto auto, senza che altri condomini possano eccepire alcunché. Tale facoltà di utilizzo per i motivi che si sono sopra detti non può essere confuso con il diritto di uso di cui all’ art. 1021 del c.c. che trova applicazione in situazioni del tutto differenti da quelle descritte nel quesito.

C. G. chiede
venerdì 29/12/2017 - Sardegna
“Nel 2014 ho acquistato, con atto notarile di compravendita, un appartamento condominiale con annesso posto di 10 mq. Quest'ultimo è posizionato nel seminterrato del palazzo in cui sono ubicati altri posti auto e box auto. Il regolamento condominiale di tipo contrattuale, assegnava al precedente proprietario [acquisto nel 1971] il suddetto posto su spazi condominiali pro indivisi. Il Notaio nel rogito del 2014 di cui al posto auto "non assumeva alcuna responsabilità". Per tale condizione, recentemente, l'Amministratore Condominiale mi faceva notare che io no ho alcun diritto né all'uso ne alla proprietà del suddetto posto auto.”
Consulenza legale i 08/01/2018
Nel caso che ci è stato sottoposto all’attenzione, l’amministratore non erra nell’asserire la natura condominiale del posto auto; tuttavia, ciò non esclude che l’acquirente di un’unità immobiliare possa essere titolare – come lo era il “dante causa”, ovvero il precedente proprietario, nella cui posizione giuridica è subentrato – del diritto di godere in via esclusiva di un connesso spazio adibito a parcheggio: tra quest’ultimo e l’appartamento cui “accede” sussiste, infatti, un vincolo di pertinenzialità che ne determina il trasferimento congiunto, secondo il regime di cui all’art. 818 c.c. (molto interessante, in tal senso, la sent. resa dal Trib. Salerno Sez. II, 12-04-2010) .

Si tratta di un tema che, in passato, è stato lungamente dibattuto in giurisprudenza; tanto più che, anteriormente alla riforma apportata con l. 11.12.2012, n. 220 (“Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici”) – la quale ha introdotto nell’elenco delle “parti comuni dell’edificio” di cui all’art. 1117 c.c. le “aree destinate a parcheggio” (n. 2) – sussisteva, sul punto, un insidioso vuoto normativo.

Nel silenzio della legge, la Suprema Corte a Sezioni Unite è intervenuta con tre “storiche” sentenze di pari data (Sez. Un. 17 dicembre 1984, nn. 6600, 6601 e 6602), optando per l’applicazione del regime condominiale e statuendo che, in mancanza di un titolo attributivo della proprietà esclusiva ai singoli condomini, il posto auto ricavato all’interno dell’edificio (ad esempio, in un seminterrato, come nel caso in esame), dovesse considerarsi “parte comune”. E ciò, con due conseguenze:
  • da un lato, la nullità delle pattuizioni negoziali che, sotto forma di riserva di proprietà a favore del costruttore o di cessione a terzi, sottraggono ai condomini l’uso del parcheggio;
  • dall’altro, l’integrazione automatica, ope legis, ai sensi dell’art. 1374 c.c., del contratto traslativo della proprietà di un appartamento in condominio che non preveda anche il contestuale trasferimento del posto auto, con il riconoscimento di un diritto reale di uso su quello spazio in favore del condomino e di un diritto dell’alienante ad un’integrazione del prezzo, nel caso in cui esso sia stato determinato solo sulla base del valore dell’appartamento.
Con il conforto di tali pronunce, e ancor più, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 26, c. 5, l 47/1985 (“primo condono edilizio”), secondo cui i parcheggi condominiali “costituiscono pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli artt. 817, 818 e [[n819]] del Codice Civile”, la giurisprudenza di legittimità e di merito si è concordemente orientata a ritenere sussistente, tra il posto auto ed il relativo appartamento, un vincolo pertinenziale e di destinazione inderogabile, tale da impedirne l’alienabilità separata e l’oggettiva inalterabile destinazione, in considerazione del fatto che l’obbligo di costruzione dei parcheggi nelle aree condominiali, introdotto dalla c.d. “legge Ponte” n. 765/1968, rispondeva alla finalità, di preminente rilevanza pubblicistica, di limitare i disagi alla circolazione dovuti alla libera sosta dei veicoli sulla pubblica via.
Tale vincolo di accessorietà è stato confermato dall’evoluzione normativa successiva (v. la c.d. “legge Tognoli”, n. 122/1989), fino alla legge c.d. di “semplificazione” del 2005 (n. 246), la quale ha ammesso, con riferimento ai parcheggi costruiti successivamente alla sua entrata in vigore, l’autonoma trasferibilità del posto auto rispetto all’appartamento cui “accede”.

Tutto ciò premesso, è pacifico che l’acquisto dell’appartamento – e, con esso, della qualità di condomino – determina l’assunzione di un proporzionale (e, alla luce di tutto quanto sopra, “pertinenziale”) diritto sulla parte comune connessa all’unità immobiliare.
Ora, secondo il disposto dell’art. 1118 c.c., il diritto di ciascun condomino sulle cose comuni è, appunto, “proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene”. Tale regola generale, tuttavia, trova il limite di una diversa regolamentazione (“se il titolo non dispone altrimenti”): nel caso in questione, il titolo – ovvero il regolamento condominiale, atto di natura contrattuale, stipulato, quindi, nella concorde volontà dei condomini – interviene a limitare il diritto dei condomini sulla parte comune, riconoscendone l’uso esclusivo al precedente proprietario e, di conseguenza, all’acquirente.

Resta soltanto da chiarire - e la giurisprudenza, sul punto, non è ancora concorde – se, in una situazione come quella in esame, la titolarità della parte comune si sostanzi in vero e proprio diritto di proprietà, in diritto reale d’uso (posizione, questa, che riscuote maggior credito) o se, semplicemente, si tratti di un riparto delle correlate facoltà di godimento fra i condomini secondo modalità non paritarie determinate dal titolo, in deroga a quello altrimenti presunto ex artt. 1102 e 1117 c.c., che non incide sull’appartenenza delle dette parti comuni alla collettività e neppure costituisce diritto d’uso in senso proprio ai sensi dell’art. 1021 c.c. (Cass., sez. II, 13.10.2017, n. 24301).



Gianfranco R. chiede
giovedì 14/09/2017 - Veneto
“Sono proprietario dell'unità d'angolo n. 1 in un fabbricato con tipologia a schiera composto da 12 unità abitative. Il complesso sorge su una recente lottizzazione in zona soggetta a vincolo paesaggistico. Inoltre il fabbricato confina in due lati con terreno inizialmente ceduto dal costruttore al Comune e destinato a pista ciclo-pedonale in quanto fascia di rispetto di un canale con argine. Che si affaccia su questo terreno a metà del lato lungo del complesso, c'è un grande cancello condominiale per l'accesso (secondario) al fabbricato e alle scale esterne che conducono al tunnel dei garage (prescritte dai VV.FF.?). Successivamente il terreno in fascia di rispetto/pista ciclo-pedonale è stato rivenduto dal Comune al costruttore il quale a sua volta lo propone in vendita ai 6 proprietari confinanti con il giardino privato tra i quali anch'io. Dopo valutazioni rifiuto l'acquisto dato che sul terreno gravano vincoli e divieti di cui al regolamento di polizia idraulica che limitano se non addirittura non consentono di fruire del terreno stesso né di piantare arbusti né tantomeno di costruire. Gli altri 5 condomini (che hanno acquistato anche la parte a me proposta davanti alla mia proprietà) intendono ora spostare il muro condominiale di recinzione per aumentare l'area di loro proprietà, occupando la fascia di rispetto, aumentando il valore delle loro proprietà ma con conseguente deprezzamento della mia casa che si troverebbe ad avere un confinante che non era contemplato al momento dell'acquisto. E' necessario in questo caso l'unanimità dei condomini per poter spostare il muro di recinzione?”
Consulenza legale i 22/09/2017
Va subito evidenziato che se è vero che l’area acquistata successivamente dai condomini è soggetta a vincoli idrogeologici, paesaggistici, o limiti derivanti dalla vicinanza di un bene appartenente al Demanio (il canale), allora i suoi vicini non potranno costruire alcun muro in detta area senza che il relativo permesso venga negato.
Chiaramente se tale circostanza venisse confermata, verrebbe meno la rilevanza di quanto si dirà.

In tema di beni comuni e di modifiche da apportare ai medesimi, il nostro ordinamento contempera le esigenze del singolo con le esigenze della comunione attraverso una serie di norme tese ad instaurare e mantenere un costante equilibrio tra le, talvolta opposte, esigenze (Cass. 28025/2011).
Sintesi di tale criterio ispiratore della normativa è l’art. 1102 c.c. : “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”.

La norma tutela i diritti dei comproprietari non sul bene in sé, e sulla sua perdurante inalterabilità, ma ne tutela la specifica utilità avuta, con riferimento al singolo comproprietario.
Non tutela le esigenze meramente emulative dei comproprietari: se il condomino vuole impedire ipso facto ogni innovazione, modifica, ecc., anche se non determina alcun peggioramento e non ne impedisca l’uso che ne faceva, l’ordinamento gli preferisce la posizione di chi ha un interesse reale al miglioramento od innovazione.
Qualora attraverso la valutazione delle esigenze e dei diritti degli altri partecipanti alla comunione, il giudice verifichi che l'uso della cosa comune sia avvenuto nell'esercizio dei poteri e nel rispetto dei limiti stabiliti dall'art. 1102 c.c. a tutela degli altri comproprietari, riterrà legittima l'opera realizzata.

Dunque, se l'estensione del diritto di ciascun comunista trova il limite nella necessità di non sacrificare ma di consentire il potenziale pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti, la situazione potrebbe essere differentemente considerata da entrambe le posizioni contrastanti ed opposte.

Se per lei il muro delimita il suo giardino ed ha quindi una funzione di delimitazione della sua specifica proprietà, i suoi condomini invece sosterranno che il muro ha la funzione di delimitare l’area condominiale stessa.
La soluzione della controversia è rimessa un po’ al gioco delle parti ed al definitivo giudizio del giudice, anche se, ad avviso di chi scrive la bilancia dovrebbe propendere dalla parte dei condomini e della loro esigenza di includere nel perimetro murario la loro proprietà.

Da ultimo ci preme specificare che quanto sinora detto non vale nel caso in cui sussista un regolamento condominiale che disponga con riferimento al punto in esame, considerando altresì che spesso l'impresa di costruzione cede gli immobili imponendo di accettare un regolamento contrattuale di condominio molto stringente con riguardo ad ogni innovazione delle parti comuni.

Bruno T. chiede
venerdì 16/06/2017 - Lazio
“Dall'anno 1983 utilizzo in modo continuativo, dopo aver naturalmente ottenuto l'assenso di tutti i condomini, parte dell'area del passo carrabile del box auto n. 2 di mia proprietà, situato nel cortile condominiale (cfr. area tratteggiata indicata nella piantina qui riportata) con un’autovettura di piccole dimensioni.
Al riguardo potrei produrre diverse prove testimoniali.
Ovviamente per entrare ed uscire dal mio box auto è necessario spostare detta autovettura.

Nel corso del 1998 l'amministratore del condominio pro tempore per evidenziare che non era consentito ad alcuno, escluso lo scrivente, occupare neppure temporaneamente detta porzione di cortile, ha fatto affiggere al muro limitrofo sovrastante a detta area un apposito segnale di divieto di sosta.
In un prospetto di dettaglio spese sostenute dal 1/1/1998 al 22/9/2008 (allegato ai verbali di condominio) risulta scritto: "acquisto di n° 3 cartelli divieto di sosta L. 28.000". Due di tali cartelli sono stati affissi a due passi carrabili condominiali ed uno come sopra specificato.

Infine riporto quanto registrato nel verbale dell'assemblea condominiale del 12/09/2006:
"Il condomino Sig. …chiede l'autorizzazione all'utilizzo come parcheggio per un'autovettura di piccole dimensioni dell'area interna al passo carrabile del suo box auto n. 2 situata lungo il muro maestro tra il posto auto n. 6 e l'uscita del box auto n. 1. L'assemblea lo autorizza all'unanimità".

Chiedo se ho diritto a continuare ad utilizzare detto parcheggio oppure se qualche condomino potrebbe in futuro opporsi.

(invio tramite email lo stesso testo qui riportato con disegnata una piantina)
Consulenza legale i 20/06/2017
Per rispondere al quesito da lei posto, occorre esaminare la disciplina legislativa relativo all'uso della cosa comune.

Il nostro legislatore si è occupato di questa questione all'art. 1102 c.c., il quale stabilisce che ciascun partecipante alla comunione può utilizzare l'intera cosa comune, purché non ne alteri la destinazione d'uso e non impedisca agli altri partecipanti di di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Va osservato, tuttavia, che la disciplina dettata dal legislatore non ha carattere inderogabile, in quanto l'assemblea di condominio può stabilire anche una diversa disciplina circa l'uso dei beni comuni.

Come precisato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27233 del 2013, infatti, l'assemblea di condominio (con le maggioranze previste dall'art. 1136 c.c.) o lo stesso regolamento condominiale "possono limitare l'uso delle parti comuni", con la conseguenza che, in presenza di una diversa disciplina condominiale, non troverà applicazione l'art. 1102 c.c., "il quale svolge una funzione sussidiaria (ovvero opera nella sola eventualità in cui non sia intervenuta una differente regolamentazione in sede condominiale)".

Come evidenziato dalla Cassazione, l'unico limite a questa eventuale "autodisciplina condominiale" è rappresentato dalla impossibilità di porre un "divieto sostanziale di utilizzazione generalizzata delle parti comuni".

In altri termini, l'assemblea di condominio può disciplinare l'uso della cosa comune in maniera diversa da quanto stabilito dall'art. 1102 c.c. ma non può imporre un generale divieto di utilizzo dei beni comuni.

Nel caso di specie, dunque, la delibera assembleare da lei citata deve ritenersi pienamente valida ed efficace, essendo stata adottata, addirittura, all'unanimità e riferendosi la stessa alle sole modalità di utilizzazione del cortile comune, per una sua specifica parte.

Si ritiene, dunque, che lei possa continuare ad utilizzare quell'area del cortile, in conformità a quanto deliberato dall'assemblea, senza che gli altri condomini vi si possano opporre legittimamente.

ANTONIO N. chiede
domenica 04/06/2017 - Campania
“Tizio – residente nella provincia ALFA - ha acquistato da Caio in data 14-06-2002 in una città di mare in provincia di BETA un appartamento mansardato di 60 metri quadrati per uso abitativo munito di tre finestre in corrispondenza della camera da letto, della cucina e del soggiorno e posto al 3° ed ultimo piano di un palazzo privo di ascensore; in allegato al contratto di compravendita Tizio riceveva anche il Regolamento condominiale predisposto dal costruttore il 01-12-1973 e trascritto nei registri immobiliari.
Detta unità immobiliare, fino al 1981, era stata destinata dal costruttore a locale di servizio di interesse comune, cioè lavatoio; successivamente, in data 30-06-1998, venne trasformata in abitazione sulla base di acquisita licenza edilizia e, nel 2004, ne fu certificata l’agibilità.
Sullo stesso 3° piano dell’edificio de quo, in contiguità alla mansarda di Tizio, se ne trova un’altra, di proprietà di Sempronio, avente le stesse dimensioni e caratteristiche.
Tizio e Sempronio – allo scopo di usufruire di maggiore godimento del bene mansardato con immissione di più luce ed aria - intendono trasformare, a proprie spese ed a regola d’arte, con interventi sul prospetto esterno del fabbricato senza alterarne i volumi due delle tre finestre in due porte finestre con annessi balconcini del tipo incassato che, apportando modesti tagli alla copertura del tetto, misurerebbero rispettivamente mq. 2,60 e 3,80 fino alla falda del tetto spiovente.
A tal fine hanno presentato regolare SCIA al Comune Beta ed hanno ottenuto il parere favorevole della Sovraintendenza Regionale per assenza di vincoli paesaggistici.
Va detto, inoltre, che Tizio (anche nell’interesse di Sempronio) ha avvicinato informalmente i condomini del palazzo i quali hanno preannunciato il contrario consenso alla richiesta trasformazione; che l’assemblea condominiale del 01/02- 08-2014, come si legge nel relativo verbale, deliberava - senza decidere sulla questione – che “in ordine alla comunicazione al condominio della volontà di Tizio di voler effettuare (cioè aprire) i balconi, non vi sono i millesimi per deliberare; tuttavia, prende atto della comunicazione di intenzione della realizzazione in questione riservando all’assemblea ed ai singoli condomini ogni azione legale a tutela del proprio diritto di proprietà condominiale ed esclusivo”; c) che, allo stato attuale, il fabbricato condominiale presenta segni di precedenti interventi su locali/appartamenti di singoli condomini che interessano il prospetto dell’edificio condominiale; in particolare - dopo l’acquisto da parte di Tizio della mansarda nel 2002 -alcuni garage del piano terra sono stati trasformati dai relativi proprietari in bilocali abitabili. Di fatto, l’area precedentemente occupata dalla serranda è stata in parte murata con sovrapposta finestra e per la parte restante è stata creata una porta di ingresso con pavimentazione antistante. Porta e finestra dei due bilocali differiscono per colore, materiale e forma: in un bilocale, la porta e la finestra sono di legno marrone scuro, nell’altro sono di alluminio bianco e con grata in ferro. Tra i due bilocali è stato altresì elevato un muro divisorio cm80x10x230 circa, il tutto con vistosa alterazione del decoro architettonico del fabbricato e senza alcuna modifica delle tabelle millesimali.

PARERE

L’art. 11 del citato Regolamento letteralmente recita: “negli appartamenti/locali di proprietà privata, è vietato eseguire senza permesso dell’amministrazione, opere, lavori e varianti che modifichino o alterino comunque l’aspetto esterno del fabbricato e ne compromettano la stabilità. Il condomino che ciò facesse sarà responsabile dei danni arrecati al condominio e dovrà ripristinare il tutto”.
Il successivo art. 23 del Regolamento a sua volta prevede che “le deliberazioni che abbiano per oggetto le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo delle cose comuni, debbono essere sempre adottate (dall’assemblea) con una maggioranza stabilita dagli artt. 1120 e 1136 codice civile”.
PRIMA DOMANDA: l’art. 11 del Regolamento - nel negare la possibilità di interventi del genere di quelli chiesti - è da ritenersi conforme alla vigente normativa in materia condominiale la quale tende a privilegiare la massima espansione dell’uso del bene comune come approvata anche da costante interpretazione del diritto vivente?
SECONDA DOMANDA: l’apertura dei due balconcini con le surriferite dimensioni può costituire di per sé un’innovazione che alteri il decoro architettonico del fabbricato e/o la stabilità e la sicurezza dello stesso con conseguente deprezzamento dell’intero fabbricato e delle singole unità immobiliari in esso comprese?
TERZA DOMANDA: la trasformazione delle due finestre in portafinestre con annessi balconcini - pur rispettando il vincolo paesaggistico - è da ritenersi vietata nel caso si accerti che pregiudichi il solo decoro architettonico e non anche la stabilità e la sicurezza dell’edificio?
QUARTA DOMANDA: L’esecuzione dell’opera per dare più aria e luce alle mansarde può essere eseguita senza il consenso dell’amministrazione disponendo i due proprietari di SCIA comunale e del parere della Regione competente sulla inesistenza del vincolo paesaggistico? In caso contrario, a cosa si esporrebbero?
QUINTA DOMANDA: prima di iniziare i lavori di che trattasi è opportuno (o necessario) chiedere il permesso all’amministrazione nonché all’assemblea condominiale ex artt. 11 e 23 del Regolamento condominiale?
SESTA DOMANDA: l’amministrazione può negare il permesso e su quali basi?
SETTIMA DOMANDA: in alternativa, quale altra via legale Tizio e Sempronio potranno seguire per realizzare legittimamente l’apertura dei balconcini nelle rispettive mansarde senza incorrere in futuri giudizi promossi dal condominio e/o dai singoli condomini?”
Consulenza legale i 02/08/2017
La risposta ai suoi quesiti presuppone, anzitutto, un attento esame di quanto disposto dal Regolamento di condominio, nonché dalla disciplina civilistica in materia di innovazioni e uso della cosa comune.

Analizziamo, uno per uno, i quesiti da lei posti:

1. L’art. 11 del Regolamento di condominio è conforme alla normativa vigente in materia condominiale?

Come da lei precisato, l’art. 11 del Regolamento stabilisce che “negli appartamenti/locali di proprietà privata, è vietato eseguire senza permesso dell’amministrazione, opere, lavori e varianti che modifichino o alterino comunque l’aspetto esterno del fabbricato e ne compromettano la stabilità”.
La disposizione pare di portata sostanzialmente analoga a quelle di cui agli artt. 1102 cod. civ. (uso della cosa comune) e 1120 cod. civ. (innovazioni).
L’art. 1102 c.c., infatti, stabilisce che ciascun condomino può servirsi della cosa comune (e, dunque, anche della facciata esterna del fabbricato, dove si trovano le finestre), a condizione che “non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.
Quanto all’art. 1120 c.c., invece, lo stesso prevede che siano vietate le “innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino”.
Di conseguenza, non si ravvisa alcuna difformità tra l’art. 11 del Regolamento condominiale e la normativa civilistica in materia di condominio.

2. Gli interventi da lei richiesti possono considerarsi un’innovazione che alteri il decoro architettonico del fabbricato e/o la stabilità e la sicurezza dello stesso?

Sul punto, pare innegabile che la trasformazione di una finestra in porta finestra alteri, inevitabilmente, il decorso architettonico dell’edificio, pur, in questo caso, non compromettendo la stabilità dell’edificio stesso (avendo, peraltro, il progetto ottenuto l’approvazione del Comune).

3. L’intervento da lei richiesto può essere vietato anche se non pregiudica la stabilità e la sicurezza dell’edificio?

Sul punto, pare utile richiamare una pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 15390/2000), con la quale è stato precisato che la modifica di una finestra in porta-finestra, quando è strettamente funzionale al miglior godimento delle proprietà individuali, può essere inquadrata “in una utilizzazione della cosa comune, ai sensi dell'art. 1102 c.c.”, con la conseguenza che, ai fini della legittimità dell’intervento, “è necessario valutare se con l'apertura della porta-finestra il condomino realizza una mi­gliore utilizzazione dell'area, ovvero se ne altera la destinazione, e comunque se vi è compatibilità con il pari diritto degli altri partecipanti. Pertanto il giudice del merito deve prioritariamente accer­tare se sussiste l'una o l'altra situazione di fatto e poi derivarne le rispettive conseguenze giuridiche”.

Va osservato, inoltre, che l’art. 23 del Regolamento di condominio stabilisce che le deliberazioni che abbiano per oggetto le innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo delle cose comuni, debbono essere sempre adottate (dall’assemblea) con le maggioranze di cui agli artt. 1120 e 1136 c.c., con la conseguenza che non pare, comunque, potersi prescindere da tale disposizione.

4. L’esecuzione dell’opera per dare più aria e luce alle mansarde può essere eseguita senza il consenso dell’amministrazione disponendo i due proprietari di SCIA comunale e del parere della Regione competente sulla inesistenza del vincolo paesaggistico? In caso contrario, a cosa si esporrebbero?

A tale domanda deve rispondersi in maniera negativa. Va osservato, infatti, che la SCIA riguarda unicamente il rapporto tra il privato e la Pubblica Amministrazione, mentre il Regolamento disciplina i rapporti tra i condomini. Se, dunque, il Regolamento prevede delle limitazioni, le stesse devono essere rispettate a prescindere dalla legittimità urbanistica dell’opera. In caso di violazione del Regolamento, l’amministratore o gli altri condomini potrebbero agire in giudizio al fine di ottenere la sua condanna alla rimessione in pristino e al risarcimento danni.

5. Prima di iniziare i lavori di che trattasi è opportuno (o necessario) chiedere il permesso all’amministrazione nonché all’assemblea condominiale ex artt. 11 e 23 del Regolamento condominiale?

Sì, si ritiene che la legittimità degli interventi de quo sia subordinata al pieno rispetto di quanto statuito dal Regolamento di condominio, con particolare riferimento alle maggioranze previste dall’art. 23.

6. L’amministrazione può negare il permesso e su quali basi?

L’amministratore dovrà limitarsi a dare applicazione alle norme di legge e Regolamento. Di conseguenza, potrà negare l’esecuzione dell’intervento laddove valuti e accerti che lo stesso modifica o altera l’aspetto esterno del fabbricato o ne comprometta la stabilità.

7. Quale altra via legale Tizio e Sempronio potranno seguire per realizzare legittimamente l’apertura dei balconcini nelle rispettive mansarde senza incorrere in futuri giudizi promossi dal condominio e/o dai singoli condomini?

Non si ritiene che vi siano molte “scappatoie”: è necessario rispettare le norme di legge e di Regolamento.

Cristina N. chiede
domenica 14/05/2017 - Veneto
“Gentilissima redazione Brocardi,
sono proprietaria di un’unità immobiliare adibita ad attività commerciale, di un condominio di totali 7 unità, di cui 2 adibite ad attività commerciale, entrambe situate al piano terra.
All’ordine del giorno della prossima assemblea condominiale: “richiesta affitto posto esterno ad uso plateatico esercizi commerciali sig.ri X e Y, valutazione loro offerta di nolo e delibera in merito; utile da affitti da girocontare alle spese condominiali delle proprietà”.
1) È da considerarsi una richiesta lecita?
2) L’amministratore, di recente nomina, parte dal presupposto che la “parte esterna” è suolo condominiale ed è quindi proprietà di tutti i condomini. Tuttavia, la funzionalità in concreto di questa parte di suolo condominiale, è adibita al servizio esclusivo dell’esercizio commerciale in questione. Cassazione, Sezione II, sentenza 12572/2014, ha sancito che la “destinazione particolare del bene prevale sull’attribuzione legale”. Il “posto esterno ad uso plateatico”, si trova esattamente ed esclusivamente davanti alla porta d’ingresso del negozio e non impedisce in alcun modo né l’ingresso né il passaggio al portone del condominio. La parte condominiale confina con il marciapiede comunale. Attività commerciale che dagli anni ’70 ad oggi, ha sempre avuto n. 2 tavolini per le consumazioni di bevande all’esterno. Mai prima d’ora era stata avanzata richiesta di un qualsivoglia forma di nolo a detta attività.
3) Lo studio dell’amministratore si trova nello stesso stabile. Non si configura un conflitto d’interessi visto che egli stesso beneficerebbe dell’eventuale utile da affitti, essendo il suo socio proprietario dell’unità immobiliare occupata dallo studio? La richiesta di nolo si trascina da 3 assemblee durante le quali non si è raggiunto alcun accordo, rimandando la decisione all’assemblea successiva.
4) Nel caso la richiesta fosse lecita, quali sono le maggioranze necessarie per l’approvazione in assemblea di seconda convocazione ed inoltre quale importo si può considerare congruo? La proposta dell’amministratore, basandosi sulle tabelle comunali di canone per occupazione di suolo pubblico, è di 354,37 euro annui per 10 mq.
5) Sono state allegate alla convocazione dell’assemblea, le tariffe per mq. di occupazione spazi ed aree pubbliche che richiede il nostro Comune, ma se si tratta di suolo condominiale perché dovremmo fare riferimento al canone di occupazione di aree pubbliche?
Al Comune viene attualmente già corrisposta una tassa per l’utilizzo del plateatico, che si aggira intorno ai 60 euro annui.

L’immobile è stato costruito in data anteriore al 1 settembre 1967. Anche dopo il coinvolgimento del Notaio che ha stipulato il nostro atto di compravendita, è difficile stabilire dalla planimetria depositata presso l’Agenzia del Territorio, quali siano i confini precisi tra suolo condominiale e suolo comunale.

6) Visto che anche la facciata del condomino rientra tra le cose comuni e sulla stessa sono state applicate, senza alcuna richiesta di consenso ai condomini, diverse targhe da parte dello studio dell’amministratore condominiale per segnalare nominativi e specializzazioni degli associati, possiamo chiedere un’offerta di nolo per le targhe affisse seguendo lo stesso principio che viene utilizzato con noi proprietari dei negozi?

7) Esiste il rischio concreto di perdere la possibilità di acquisire per usucapione (sono proprietaria da 15 anni) il suolo condominiale antistante il mio negozio, ad uso esclusivo dei miei inquilini?

Vi ringrazio e porgo cordiali saluti.”
Consulenza legale i 20/05/2017
Nel quesito si dice che non è chiaro se la parte esterna di cui si discute sia condominiale o pubblica o comunque che non è agevole ricostruire quale parte dell’area in questione sia da ricondurre alla proprietà del demanio.
Da alcuni passaggi nonché dalle foto che ci sono state inviate è plausibile ritenere che tale parte esterna, utilizzata come plateatico dai due esercizi commerciali, sia in realtà suolo pubblico, per l’occupazione del quale il condominio versa da tempo un’imposta.
Pertanto, il condominio paga la tassa al Comune per uno spazio che, tuttavia, di fatto, non è utilizzato da tutti i condomini ma solo dagli esercizi commerciali.

Sotto quest’ultimo profilo, sarebbe in effetti interessante capire il motivo per cui il condominio versa l’imposta, dal momento che – così paiono confermare le foto – i condomini non utilizzano il marciapiede esterno come spazio condominiale; solo i due esercizi aperti al pubblico hanno, evidentemente, la necessità di utilizzarlo per mettere i tavolini. Tuttavia, se così è, avrebbero dovuto, a parere di chi scrive, farsi carico dell’imposta per l’occupazione del suolo pubblico solo i due esercizi e non certo l’intero condominio.
Ciò detto, quindi, sarebbe senz’altro opportuno interpellare l’amministratore e chiedergli conto di questa singolare situazione.

In ogni caso, nell’ipotesi in cui il condominio correttamente pagasse l’imposta, l’amministratore farebbe bene a richiedere ai due esercizi una sorta di “canone”, insomma un contributo economico, per l’utilizzo del plateatico, dal momento che sino ad oggi tutti i condomini si sono dovuti far carico di un esborso per l’utilizzo di un bene di cui però non godono tutti ma solo alcuni.

A tale ultimo proposito, si osserva come non sia così scontata, nel caso di specie, l’applicazione del principio sancito dalla sentenza citata nel quesito e che si riporta di seguito, per estratto, nella parte motiva: “Il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessaria per l'esistenza dell'edificio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune, sicché la presunzione di comproprietà posta dall'art. 1117 c.c., che contiene un'elencazione non tassativa ma meramente esemplificativa dei beni da considerare oggetto di comunione, può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario. (…) gli spazi oggetto di vertenza, mancanti di areazione diretta, sono privi di un'originaria destinazione di servizio rispetto all'edificio condominiale, mentre sono ben utilizzabili dagli appartamenti a confine sul lato lungo degli stessi, "da cui i detti locali hanno unico accesso" (Cassazione civile, sez. II, 04/06/2014, n. 12572).
Infatti, la sentenza richiamata riguarda il caso di un bene comune condominiale e non di un bene pubblico che il condominio utilizza in concessione.

Si osserva, però, che se anche il bene in questione (marciapiede) fosse condominiale, non sarebbe comunque scontata l’analogia tra la fattispecie descritta nella sentenza e quella in esame: i giudici, infatti, si sono occupati del caso di un bene/parte ritenuta condominiale che, per le sue caratteristiche e per la sua collocazione, era destinata tuttavia al servizio esclusivo di una sola parte del condominio; la pronuncia precisa, poi, che si trattava di destinazione esclusiva per “caratteristiche strutturali” del bene in questione.
Ebbene, nel caso di specie non si può, ad avviso di chi scrive, ritenere il marciapiede “strutturalmente” vincolato ad un uso esclusivo degli esercizi commerciali: una cosa, infatti, è affermare (come è vero nel caso di specie) che il marciapiede è utilizzato di fatto solo dai due esercizi oppure che esso può essere più utile materialmente solo ai due esercizi, altra cosa è affermare che il marciapiede, in quanto tale, per le sua caratteristiche “strutturali”, è funzionalmente destinato all’uso esclusivo dei due esercizi (il che non è vero, perché potrebbe essere utilizzato nello stesso modo, volendo, da tutto il condominio).

Non si comprende, ancora, la ragione per cui si dovrebbe ravvisare un conflitto d’interessi in capo all’amministratore in ordine alla decisione sull’entrata aggiuntiva condominiale quale noleggio/affitto dello spazio esterno.
E’ sicuramente vero che, se il condominio percepisse una sorta di canone dai due esercizi per l’uso dello spazio esterno ne beneficerebbe anche lo Studio dell’amministratore quale condomino, ma dello stesso beneficio godrebbero anche tutti gli altri, perché costituirebbe un’entrata aggiuntiva a favore di tutto il complesso.

Per quanto riguarda le maggioranze assembleari (art. 1136 cod. civ.), normalmente in seconda convocazione è richiesta la presenza – ai fini della valida costituzione dell’assemblea – di tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell’edificio e un terzo dei partecipanti al condominio; per la validità delle delibere, invece, è richiesta la maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno un terzo del valore dell’edificio. Ci sono delle questioni che richiedono delle maggioranze specifiche, ma in caso in esame non rientra in alcuna delle ipotesi normative in questione.

Se l’iniziale ricostruzione dei fatti è corretta, si risolve da sé anche il problema della quantificazione del canone dovuto dagli esercizi commerciali, nel senso che risulta certamente comprensibile il motivo per cui sono state assunte quale riferimento le tariffe per l’occupazione di suolo pubblico.

Per quanto riguarda le targhe dello Studio professionale, non è possibile seguire il medesimo principio enunciato per l’utilizzo in via esclusiva del bene comune da parte degli esercizi commerciali.
In quest’ultimo caso, infatti, la liceità della richiesta di una sorta di “indennizzo” economico deriva dal fatto che gli altri condomini non possono utilizzare nello stesso modo il bene, ne sono esclusi; nel caso delle targhe, invece, si tratta di usare una parte del bene comune, peraltro minima, senza che ciò – tuttavia – comporti preclusioni a carico degli altri in ordine allo stesso utilizzo.
Più precisamente, si deve far riferimento all’art. 1102 cod. civ. sulla comunione, articolo applicabile anche in materia di condominio (anzi, ne costituisce uno dei riferimenti normativi principali): “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (…)”. Ciascun condomino, dunque ha la piena libertà ed il diritto di servirsi della cosa comune (nel caso di specie, la parete), basta che non impedisca agli altri comunisti/condomini di farne un uso identico (nel caso di specie, anche altri condomini potrebbero apporre delle targhe sulle pareti).
Vale ugualmente, in aggiunta, la regola del 1122 cod. civ., per il quale: “Nell'unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio. (…)”: nel caso di specie, tra quelli elencati dalla norma, si pone forse quale unico problema quello del decoro architettonico dell’edificio.

Per quanto riguarda, infine, l’usucapione, se il suolo è pubblico (demaniale) non potrà essere usucapito. Se invece è privato, è evidente che il pagamento di un canone al condominio per l’utilizzo esclusivo di un bene comune denota l’implicito riconoscimento che il bene non viene utilizzato “uti dominus”, ovvero in qualità di proprietario, ma solo quale titolare di un diritto di godimento, il che esclude l’usucapione.

Paolo B. chiede
mercoledì 19/04/2017 - Puglia
“Buona sera, Vi scrivo in qualità di proprietario di un appartamento sito in un complesso condominiale di 24 appartamenti e di diversi locali commerciali, quest'ultimi situati ala piano terra.
Io ho acquistato l'abitazione nel 2001 quando era già stato dismesso l'impianto centralizzato per il riscaldamento ed in quella data la canna fumaria condominiale dell'ex caldaia era già utilizzata, in uso esclusivo, da una pasticceria affittuaria di un locale commerciale. Ora, avendo letto la sentenza della Cassazione N. 26737/2008, ho chiesto all'amministratore di attivarsi per ripristinare la destinazione comune della canna fumaria, invitando la pasticceria ad interrompere l'uso di detta canna. L'amministratore mi ha risposto che l'assemblea, circa trent'anni fa aveva concesso l'utilizzo della canna fumaria alla pasticceria. Faccio presente, inoltre, che proprio nell'ultima assemblea condominiale il titolare della pasticceria si dichiarò disponibile a non utilizzare la canna fumaria condominiale nel caso in cui il condominio ne avesse fatta richiesta. Ora, desidero sapere se pur in presenza di una delibera di circa trent'anni fa, posso intimare, alla pasticceria, il diniego dell'uso esclusivo della canna fumaria.


Consulenza legale i 04/05/2017
La sentenza citata nel quesito è pertinente al caso in esame e correttamente è stata assunta quale riferimento per esporre il problema all’amministratore.

Peraltro, non si rinvengono precedenti giurisprudenziali del medesimo tenore, il che significa che quanto statuito dalla Cassazione è difficilmente contestabile al momento attuale (dovrà, eventualmente, intervenire in futuro una nuova giurisprudenza di contenuto totalmente diverso che smentisca la sentenza in commento).

Si riportano i passaggi più significativi della pronuncia: “Così giudicando la Corte d'appello ha violato il disposto dell'art. 1102 c.c., che vieta, in assenza di uno specifico accordo concluso tra tutti i titolari del diritto, che il singolo partecipante possa attrarre la cosa comune o una sua parte nell'orbita della propria disponibilità esclusiva e sottrarlo in tal modo alla possibilità di godimento degli altri contitolari (Cass. 5085/06; Cass. 10175/98).
Ed infatti allorché la cosa comune sia sottratta definitivamente alla possibilità di godimento collettivo, nei termini funzionali originariamente praticati, non si rientra più nemmeno nell'ambito dell'uso frazionato consentito (Cass. 8429/06), ma nell'appropriazione di parte della cosa comune, per legittimare la quale è necessario il consenso negoziale (espresso in forma scritta "ad substantiam") di tutti i partecipanti.
Nè vale invocare la giurisprudenza secondo la quale l'uso paritetico della cosa comune deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipotetica e astratta essi ne potrebbero fare. Questa affermazione (…) si riferisce all'ipotesi in cui uno dei condomini necessiti della cosa per un uso più intenso ed esteso rispetto a quello che gli altri, cui pure rimane aperta la possibilità di utilizzo del bene, potranno farne, ma ribadisce che va tutelato l'uso paritetico della cosa comune, ancorché non da tutti esercitato con la stessa intensità. (La fattispecie della sentenza più recente si riferiva all'occupazione con antenne di una superficie del 50% del tetto). Nel caso di occupazione esclusiva e stabile, ogni uso (anche minore, in relazione a minori esigenze prospettabili), da parte degli altri condomini, sarebbe impossibile, essendo stata posta in essere un'occupazione completa del bene comune, che, a quanto si evince dagli atti di questo giudizio, esclude qualsiasi ipotesi di sfruttamento anche per passaggio di canalizzazioni di qualsivoglia genere. (…).
L'art. 1102 cod. civ. vieta al singolo partecipante di attrarre la cosa comune nell'orbita della propria disponibilità esclusiva mediante un uso particolare e l'occupazione totale e stabile e di sottrarlo in tal modo alle possibilità attuali e future di godimento degli altri contitolari, estendendosi il diritto di ciascuno nei limiti della quota su tutta la cosa.” (Cassazione civile, sez. II, 06/11/2008, n. 26737).

Per capire se la pasticceria sta utilizzando legittimamente o meno la canna fumaria, occorrerebbe visionare la delibera di cui parla l’amministratore.
Infatti, se il contenuto della medesima è conforme a quanto stabilito nella sentenza della Cassazione, ovvero se tutti i condomini, all’unanimità, hanno acconsentito all’utilizzo in via esclusiva della canna fumaria da parte del solo condomino con esclusione degli altri, non si potrà fare nulla di diverso se non convocare una nuova assemblea perché deliberi – sempre, beninteso, all’unanimità - il contrario, ovvero ripristini l’utilizzo comune del manufatto da parte di tutto il condominio.
Tale decisione è possibile e legittima, nonostante la prima delibera: infatti, la canna fumaria non ha cessato di essere bene comune solo per il fatto che si è acconsentito al suo utilizzo esclusivo per molto tempo; pertanto l’assemblea può, in ogni momento, revocare la propria decisione e decidere per il ripristino della destinazione comune della cosa.

Se non si ottiene il consenso di tutti i condomini, il condomino dissenziente dovrà necessariamente rivolgersi all’autorità giudiziaria, facendo valere la nullità della decisione assunta in passato: egli dovrà dedurre che la canna viene illegittimamente utilizzata in via esclusiva e sarà il Condominio, nella persona dell’Amministratore, che avrà l’onere di provare l’esistenza ed il contenuto della delibera autorizzativa, oltre che la legittimità della decisione assunta.

Nel caso, invece, in cui la canna fumaria sia stata concessa, in passato, in uso esclusivo alla pasticceria da una delibera a maggioranza (semplice o qualificata), in base alla sentenza sopra esaminata la decisione assembleare viola la legge (art. 1102 cod. civ.), è quindi nulla e può essere impugnata davanti all’Autorità Giudiziaria, senza essere soggetta agli stretti termini di decadenza di cui all’art. 1137 cod. civ. (30 giorni per l’impugnazione).

Pare di capire che, probabilmente, non esiste più copia della delibera in argomento, essendo trascorsi molti anni e che quindi è impossibile verificarne la legittimità.
A questo punto, la strada migliore da intraprendere - come sopra accennato - è chiedere all’Amministratore, illustrandogli i motivi dell’istanza, la convocazione di un’assemblea straordinaria avente all’ordine del giorno il ripristino dell’utilizzo comune della canna fumaria condominiale.
Si dovrà, quindi, ottenere dall’assemblea l’unanimità dei consensi: se anche la pasticceria – come sembra - è disposta a rinunciare al diritto sinora esercitato, dovrebbe essere possibile ottenere la sperata unanimità.
Qualora, invece, la pasticceria avesse cambiato idea o comunque non tutti i condomini fossero d’accordo sul ripristino in conformità all’art. 1102 cod. civ., il condomino dissenziente sarà costretto a rivolgersi all’Autorità giudiziaria, dalla quale è presumibile che possa ottenere una sentenza favorevole, vista la giurisprudenza citata.

Paolo B. chiede
domenica 26/03/2017 - Puglia
“Sono proprietario di una abitazione sita in condominio.
Il condominio, costruito nel 1971, é formato da appartamenti e locali commerciali.
Siccome l'edificio é ubicato all'incrocio di due vie, insistono 2 scale di esclusiva pertinenza per l'accesso ai relativi appartamenti. Dai rispettivi portoni di ingresso, tramite due porticine interne, si accede ad un cortile condominiale (non confinante con la strada) il cui uso, compresa pulizia ed illuminazione notturna é stato sempre di esclusiva pertinenza dei proprietari delle abitazioni.
I locali commerciali, su detto cortile hanno soltanto delle piccole finestre per la luce e l'aria, poste a oltre 2 metri di altezza ed alte circa 40 cm. protette da vetri non trasparenti e grate di ferro.
Ora, dopo oltre 40 anni due affittuari dei locali commerciali, anziché allacciarsi al gas, mediante allaccio sul fronte strada, arbitrariamente e senza alcuna autorizzazione del condominio e dell'amministratore, hanno fatto installare i propri contatori per la fornitura del gas all'interno del suddetto cortile, vantando anche il diritto di accesso al cortile tramite i portoni delle due scale.
Il regolamento di condominio non fa alcun riferimento specifico circa l'accesso al cortile da parte dei proprietari dei locali commerciali ma le tabelle millesimali, redatte 45 anni fa, hanno imputato i relativi costi di pulizia ed illuminazione del cortile ai soli proprietari degli appartamenti escludendo tutti i locali commerciali.
Gradirei aver il Vostro parere legale per la difesa dei miei diritti in qualità di proprietario di un appartamento.


Consulenza legale i 30/03/2017
La risposta al quesito dipende dalla qualificazione o meno del cortile come bene comune anche ai proprietari delle unità immobiliari a destinazione commerciale, oltre che ai proprietari degli appartamenti.

In base all’art. 1117 cod. civ.: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo: 1) tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; (…)”.

La norma tuttavia pone una mera presunzione di proprietà comune, il che significa che può essere fornita la prova contraria, ovvero si può dimostrare che essi costituiscono, invece, proprietà individuale di uno o più condomini.
Tale prova contraria è, però, tutt’altro che agevole: l’articolo citato, infatti, specifica “se non risulta il contrario dal titolo”, per cui occorre chiarire cosa si intenda per “titolo”.

La giurisprudenza ha affrontato più volte la questione, ed ha stabilito che per “titolo” deve intendersi solo ed esclusivamente il regolamento condominiale cosiddetto “contrattuale”, ovvero quello predisposto dall’originario costruttore/venditore delle unità immobiliari appartenenti al complesso condominiale, che costituisce – dunque – una sorta di contratto vincolante per tutti i condomini (ed infatti può essere modificato solo all’unanimità dei consensi); non così, invece, si può dire per il comune regolamento condominiale di origine assembleare (votato in assemblea), né per le tabelle millesimali:

- “Ai sensi dell'art. 1117, n. 1, c.c., rientrano tra le parti comuni spettanti ai proprietari delle singole unità site nell'edificio condominiale, tra l'altro, le scale, i vestiboli, gli anditi, ovvero comunque tutte le parti necessarie all'uso comune ed essenziali alla funzionalità del fabbricato, e quindi anche gli annessi pianerottoli, passetti, corridoi, pur se posti in concreto al servizio di singole proprietà. Per sottrarre tali beni alla comproprietà dei condomini e dimostrarne l'appartenenza esclusiva al titolare di una porzione esclusiva, è necessario un titolo contrario, contenuto non già nella compravendita o nella donazione delle singole unità immobiliari, bensì nell'atto costitutivo del condominio. Titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità ex art. 1117 c.c., infatti, è non l'atto di acquisto del singolo appartamento condominiale, quanto il negozio posto in essere da colui o da coloro che hanno costituito il condominio dell'edificio, in quanto tale negozio, rappresentando la fonte comune dei diritti dei condomini, ne determina l'estensione e le limitazioni reciproche” (Cassazione civile, sez. II, 30/06/2016, n. 13450);

- “In tema di condominio, i beni indicati dall'articolo 1117 c.c., con elencazione non tassativa ma solo esemplificativa, si intendono comuni per presunzione derivante sia dall'attitudine oggettiva che dalla concreta destinazione degli stessi al servizio comune. La parte che voglia vincere tale presunzione ha l'onere di fornire la prova contraria, non potendo al riguardo valere né le risultanze del regolamento condominiale né l'eventuale inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un condomino” (Cassazione civile, sez. III, 13/03/2009, n. 6175).

- In tema di condominio negli edifici, in base all'art. 1117 c.c., l'estensione della proprietà condominiale ad edifici separati ed autonomi rispetto all'edificio in cui ha sede il condominio può essere giustificata soltanto in ragione di un titolo idoneo a far ricomprendere il relativo manufatto nella proprietà del condominio stesso, qualificando espressamente tale bene come ad esso appartenente negli atti in cui, attraverso la vendita dei singoli appartamenti, il condominio risulta costituito. Ne consegue che, ai fini dell'accertamento dell'appartenenza al condominio di garages ubicati in un blocco edilizio separato rispetto all'edificio in cui si trovano gli appartamenti condominiali, nessun rilievo va ascritto alla presenza, tra gli allegati al regolamento di condominio, di una tabella di ripartizione delle spese dei medesimi garages tra i corrispondenti proprietari, né alla circostanza che il cortile condominiale sia da questi ultimi utilizzato per accedere al loro bene, non costituendo il regolamento un titolo di proprietà, e non facendo l'uso promiscuo di un bene presumere la contitolarità dei beni che se ne servono e da esso traggono vantaggio” (Cassazione civile, sez. II, 21/05/2012, n. 8012).

Ciò detto, per tornare al caso di specie, premesso che non è specificato di cha natura sia il regolamento cui si accenna nel quesito (se contrattuale/originario oppure assembleare), in ogni caso viene detto che esso non accenna alla questione del cortile, e che solo le tabelle millesimali se ne interessano perché ne ripartiscono le spese a carico delle unità immobiliari a destinazione abitativa.
Ebbene, sulla base della giurisprudenza citata è categoricamente da escludersi che le mere tabelle millesimali possano costituire valido titolo per attribuire la proprietà esclusiva del cortile ad una parte solamente dei condomini.

Ma neppure le tabelle possono essere sufficienti ad attribuirne legittimamente un’utilizzazione separata: tale finalità può essere raggiunta, infatti, solo attraverso apposita delibera assembleare.

Risulta evidente a chiunque che gli affittuari dei negozi avrebbero dovuto seguire un diverso iter per il posizionamento dei contatori nel cortile (sarebbe bastato, infatti, preavvisare l’amministratore e/o i condomini), in ogni caso Va detto che tale posizionamento – di per sé - non è vietato.

Non rientra, infatti, ad avviso di chi scrive, né nel regime delle innovazioni né in quello delle modifiche della destinazione d’uso dei beni comuni, e quindi seguirà la disciplina dell’art. 1102 cod. civ., per la quale: “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa.”.

Pertanto, la domanda che ci si deve porre, è se il posizionamento dei contatori impedisca o meno agli altri condomini di fare il medesimo uso del cortile.
Il quesito non ne specifica le dimensioni e gli utilizzi di quest’ultimo spazio comune da parte degli altri condomini.
La giurisprudenza, per fattispecie analoghe a questa, ha statuito:

- “In caso di condominio al singolo condomino è consentito servirsi in modo esclusivo di parti comuni dell'edificio solo alla duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione e che lo stesso, ove tutte le predette esigenze risultino soddisfatte, non perda la sua normale e originaria destinazione, per il cui mutamento è necessaria la unanimità dei consensi.”(Cassazione civile, sez. II, 21/09/2011, n. 19205);

- “Nel regime giuridico della comunione di edifici, l'uso particolare che il comproprietario faccia del cortile comune, interrando nel sottosuolo una centrale termica del proprio impianto di riscaldamento, non è estraneo alla destinazione normale di tale area, a condizione che si verifichi in concreto che, per le dimensioni del manufatto in rapporto a quelle del sottosuolo o per altre eventuali ragioni di fatto, tale uso non alteri l'utilizzazione del cortile praticata dagli altri condomini, né escluda per gli stessi la possibilità di fare del cortile un medesimo e analogo uso particolare.” (Cassazione civile, sez. II, 26/02/2007, n. 4386);

- “Costituisce uso legittimo della cosa comune da parte di un partecipante al condominio, l'utilizzazione delle mura perimetrali dell'edificio per installarvi il contatore del gas metano a servizio di un proprio appartamento.” (Tribunale Nocera Inferiore, sez. II, 18/05/2005).

Nel caso in esame, dunque, occorrerà valutare se i contatori, per la loro posizione e per la loro grandezza, rispetto alla grandezza ed all’uso condominiale del cortile, possano costituire un impedimento per gli altri condomini ad un analogo utilizzo.
E’ del tutto legittimo, infatti, che uno o più condomini godano di un uso più intenso della cosa comune rispetto agli altri, basta che ciò avvenga sempre nel rispetto della regola del 1102 cod. civ..

Qualora i proprietari degli appartamenti vogliano deliberare in senso contrario all’uso del cortile da parte dei proprietari dei locali commerciali, trattandosi di superare una presunzione di legge, essi dovranno ottenere l’unanimità dei consensi: “In materia di condominio negli edifici, il diritto all'utilizzo delle parti comuni può trovare limitazioni solo nel titolo di acquisto o in convenzioni appositamente stipulate. La delibera assembleare che, modificando il regolamento condominiale, costituisce vincoli di natura reale su parti comuni dell'edificio è soggetta all'onere della forma scritta ad substantiam e pertanto sarà nulla qualora il relativo verbale non venga sottoscritto da tutti i condomini.” (Cassazione civile, sez. II, 17/07/2006, n. 16228)

Fabio B. chiede
mercoledì 28/09/2016 - Liguria
“Buon giorno, grazie per la precedente consulenza eccellente.
Sono coerede comproprietario al 50% con mio fratello di 3 appartamenti ereditati dalla madre 25 anni fa. I primi due li usa lui come abitazione e il terzo lo usa come studio dentistico con locazione commerciale concessa da mia madre a prezzo simbolico di 1.500 euro annui , mai versatomi. Io pago tutte le spese dei 3 appartamenti riguardo alle mie quote( tasse, manutenzioni ordinarie e straordinarie).
Riguardo allo studio ho comunicato disdetta in tempo utile e il contratto sarebbe scaduto nel 98. Poi un'altra disdetta 2 anni fa e sarebbe nuovamente scaduto da 1 anno. Non ho mai avuto ne pagamenti ne risposte.
I due appartamenti invece li usa come abitazione principale, mi ha sempre impedito di entrare anche in presenza di testimoni, di fronte ai quali ho più volte richiesto di essere risarcito per mancato utilizzo. In questo caso ho fatto richiesta scritta un anno fa.
Cosa posso ottenere per il passato e d'ora in poi? In quale modo ? Ci sono prescrizioni ? Grazie, cordiali saluti”
Consulenza legale i 03/10/2016
Gli immobili in questione rientrano, evidentemente, nella comunione ereditaria, in relazione alla quale valgono le norme dettate dal codice civile in materia, appunto, di comunione (art. 1100 e seguenti).

L’art. 1102 cod. civ. in particolare, per quel che qui interessa, recita: “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. (…). Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

A rigore, quindi, il fratello non avrebbe potuto impedire all’altro l’utilizzo dei beni in questione, tantomeno l’ingresso nei due appartamenti che sono anche di sua proprietà.
Qualsiasi utilizzo separato ed esclusivo dell’immobile da parte di uno dei condomini è quindi consentito solo su accordo tra tutti i comunisti.

Per quanto riguarda l’uso dell’immobile adibito a studio, non si comprende bene il motivo per cui sia stata inviata (se fatta regolarmente e nel rispetto dei tempi contrattuali) più volte la disdetta: a parere di chi scrive la prima comunicazione è quella valida ed il rapporto deve considerarsi terminato a partire da quel momento.
Il fratello che ha inviato disdetta aveva il pieno diritto di ottenere il pagamento della quota parte di canoni che non gli è stata corrisposta dal fratello: per il recupero di questi canoni, tuttavia, il termine di prescrizione, breve, è di 5 anni (art. 2948 cod. civ.) e dalle date evidenziate nel quesito pare che la prescrizione sia quindi già maturata (salvo che siano stati posti in essere validi atti interruttivi della prescrizione). Sotto questo profilo, in definitiva, nulla potrà più fare il fratello che è receduto dal contratto.

Per quanto concerne, invece, l’uso degli altri due appartamenti, affinché la situazione fattuale in essere fosse legittima, i due fratelli avrebbero dovuto siglare un accordo scritto. Infatti, se l’uso separato e/o frazionato del bene altera od ostacola il diritto di godimento degli altri comunisti – anche mediante, come in questo caso, la sottrazione definitiva del bene alla possibilità di godimento collettivo – non si parla più di godimento separato ma di vera e propria appropriazione della cosa comune e per legittimarla è necessario il consenso di tutti i partecipanti, con obbligo di forma scritta a pena di invalidità.

Il fratello il cui diritto è stato violato, dunque, avrebbe dovuto e potuto legittimamente rivolgersi all’Autorità Giudiziaria per ottenere tutela e per un’eventuale risarcimento: in particolare, anche al compossessore sono garantite, nei confronti dell’altro compossessore, le azioni a difesa del possesso di cui al codice civile (artt. 1168 e 1170).
Nel caso di specie, il fratello privato dell’uso dei due appartamenti avrebbe potuto agire con l’azione di “spoglio” ai sensi dell’art. 1168 cod. civ., in base al quale: “Chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l'anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo (…)”. Con il termine violentemente si ritiene pacificamente che si possa intendere anche un comportamento che non necessariamente si concretizzi in una violenza fisica ma che ad esempio comporti una privazione del possesso contro la volontà dello spogliato e contro ogni tentativo di quest’ultimo di ottenere il bene.
Come si può leggere, tuttavia, nel testo della norma, l’azione può essere esercitata entro il breve termine di decadenza di un anno dall’avvenuto “spoglio”: nel caso in esame ogni possibilità è ormai sfumata.

In casi come quello che ci occupa la soluzione migliore è quella di richiedere la divisione ereditaria (artt. 713 e seguenti cod. civ.): la domanda di divisione è, peraltro, possibile in ogni tempo, in quanto imprescrittibile.
Tuttavia, sia in forza di quanto stabilito dal secondo comma dell’art. 1102 c.c. già citato che dall’art. 714 cod. civ. (“Può domandarsi la divisione anche quando uno o più coeredi hanno goduto separatamente parte dei beni ereditari, salvo che si sia verificato l’usucapione per effetto di possesso esclusivo”), sussiste il concreto rischio, nel caso di specie, dell’avvenuto acquisto della proprietà esclusiva da parte del fratello utilizzatore per effetto di usucapione.
Quest’ultima, infatti, in relazione agli immobili, matura con il decorso di vent’anni e nel quesito si dice che la mamma è morta da oltre 25 anni.

L’art. 1164 cod. civ. stabilisce: “Chi ha il possesso corrispondente all'esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l'usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato.”
Nel caso specifico del coerede, la giurisprudenza però afferma: “Il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune.” (Cassazione civile, sez. II, 25/03/2009, n. 7221).

Il fatto, dunque, che il fratello non solo abbia posseduto in via esclusiva gli immobili ma abbia altresì attuato dei comportamenti materiali (come è più evidente nel caso dei due appartamenti) che lasciano chiaramente intendere una volontà inequivocabile di escludere l’altro comproprietario dall’uso dei medesimi e di volerne godere in via esclusiva, fa propendere chi scrive per l’intervenuta usucapione.
Ovviamente incomberebbe sul fratello l’onere, in un’eventuale giudizio di divisione in cui egli opponga l’intervenuta usucapione, di provare quest’ultima: in mancanza, tuttavia, di validi atti interruttivi della prescrizione (comunicazioni nelle quali sia esplicita la volontà di chi scrive di non riconoscere il comportamento illegittimo del destinatario e contenenti formale diffida dal continuare a porli in essere) è legittimo presumere che il termine abbia iniziato a decorrere già dalla morte della madre.

Gerolamo P. chiede
martedì 26/07/2016 - Emilia-Romagna
“sono residente in un immobile ad uso commerciale, destinazione d'uso albergo, che è di proprietà di famiglia. Avendo chiuso l'attività nel 1991, siamo residenti in attesa di vendere l'immobile e di conseguenza cambiare residenza in altra abitazione. Uno dei proprietari avendo acquistato una casa e cambiato residenza, mantenendo la comproprietà, può avere accesso libero ad ogni ora anche della notte nell'immobile o deve avvisarmi dato che di notte io chiudo a chiave lo stabile per garantire la sicurezza? Grazie, attendo risposta.”
Consulenza legale i 08/08/2016
La norma di riferimento è l’articolo 1102 cod. civ., che disciplina l’uso della cosa comune da parte dei comproprietari, e che recita come segue: “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa.
Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”.

In base alla suddetta norma, pertanto, entrambi i comproprietari dell’immobile ad uso commerciale di cui al quesito hanno il diritto di utilizzare l’immobile (il che significa anche accedervi ad ogni ora del giorno) in maniera paritaria e non possono impedire all’altro titolare di fare altrimenti.

Nulla vieta, tuttavia – ed anzi nel caso di specie si tratta della soluzione più ovvia e più opportuna, alla quale non si vede il motivo per cui l’altro comproprietario ivi non residente dovrebbe opporsi – che i due titolari dell’immobile si accordino in merito ad un godimento separato o particolare a vantaggio di uno dei due.

Va detto, infatti, che l’espressione “pari uso” contenuta nel citato articolo non significa necessariamente uso “identico”, perché ciò finirebbe per importare un ingiustificato divieto per ogni comproprietario di fare un uso particolare della cosa oppure a proprio esclusivo vantaggio.
Pertanto un uso più intenso al singolo condomino è consentito, e per valutarne la legittimità rispetto ai vincoli di cui al 1102 cod. civ. occorrerà guardare non all’uso del bene fatto in concreto dagli altri condomini in un determinato momento ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno (ad esempio, è legittima l’installazione di un cancello sul passaggio comune purché ne vengano consegnate le chiavi anche agli altri comproprietari).

L’accordo tra comproprietari sull’uso separato o particolare del bene comune è di natura obbligatoria (e quindi tutelabile con i normali mezzi previsti dall’ordinamento in tema di inadempimento), non richiede la forma scritta e può validamente essere siglato verbalmente.

Va ribadito, in ogni caso, che anche l’accordo sul godimento frazionato deve rispettare i limiti di cui all’art. 1102 cod. civ., ovvero la destinazione della cosa non deve venire alterata (ma non è questo il caso che ci occupa), né si può impedire all’altro titolare del diritto di proprietà di utilizzare comunque il bene.

A tale ultimo proposito, quindi, è senz’altro legittimo chiudere di notte lo stabile per ragioni di sicurezza, ma l’altro comproprietario dovrà avere copia delle chiavi (in modo da potervi entrare se dovesse essere necessario) ed entrambi dovranno trovare un accordo in merito alla richiesta del primo di evitare accessi nelle ore notturne, per questioni di privacy e di sicurezza.

Poerio R. chiede
martedì 17/05/2016 - Lazio
“Egregi Avvocati , in merito alla Vostra risposta dl 7 marzo u.s. vorrei precisare che i serbatoi dell' acqua sono stati installati
da due Condomini sui torrini del fabbricato da diversi anni
e che in occasione dei lavori di restauro del fabbricato , sono
stati tolti per permettere l' esecuzione dei lavori ; terminati i lavori sono stati nuovamente montati sui torrini , nonostante il divieto posto dall' Amministratore ; in seguito l' Assemblea del 12 febbraio u. s. ha deliberato per la loro rimozione ; in considerazione che i Condomini interessati hanno riferito che
non ottempereranno a quanto deciso dall' Assemblea , si chiede se il diritto previsto dall' art. 1102 sul godimento della cosa comune possa considerarsi esteso nel caso di specie , nonostante la suddetta decisione assembleare .
Ringraziando , porgo cordiali saluti”
Consulenza legale i 26/05/2016
L’assemblea ha legittimamente vietato il posizionamento dei serbatoi individuali sui torrini di proprietà comune, pertanto i condomini dissenzienti saranno tenuti ad ottemperare alla decisione collegiale.

L’art. 1102 c.c. stabilisce che “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto [1108;627 c.p.] (…).”.

Ciò significa che egli non deve utilizzare il bene comune per finalità diverse da quelle che gli sono proprie (ad esempio, non può utilizzare un’area destinata solo al passaggio come parcheggio: ciò significherebbe alterarne la “destinazione” ai sensi della citata norma) e che non può mantenerne la disponibilità esclusiva, sottraendolo alla effettiva o anche solo potenziale disponibilità cui anche gli altri condomini hanno diritto: “Ai sensi dell'art. 1102 c.c. sono legittimi sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione, purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali e potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa, purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno; in tale contesto è in ogni caso vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell'orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini” (Cassazione civile, sez. II, 19 dicembre 2012, n. 23448).

La Corte di Cassazione, in particolare, in ordine al rapporto tra uso della cosa comune di cui all’art. 1102 c.c. e volontà assembleare, ha ben chiarito in questa pronuncia: “la Corte territoriale - sul rilievo che il contenuto della delibera autorizzativa impugnata riguardasse l'applicabilità del citato art. 1102 c.c. (che attiene all'uso della cosa comune in ambito condominiale) - ha ritenuto di applicare le conseguenze logico-giuridiche che derivavano dal riferimento della portata della decisione assembleare alla disciplina di tale norma, pervenendo alla conferma dell'illegittimità della delibera assembleare (perciò, annullata), con la quale era stato previsto il divieto generalizzato per i condomini di poter aprire nuovi accessi sul muro comune".

Così statuendo, però, la Corte triestina ha disatteso il principio in base al quale le deliberazioni assembleari condominiali (con le necessarie maggioranze di legge) o lo stesso regolamento condominiale possono limitare l'uso delle parti comuni, per cui, in caso di diversa disciplina condominiale, non trova applicazione l'art. 1102 c.c., il quale svolge una funzione sussidiaria (ovvero opera nella sola eventualità in cui non sia intervenuta una differente regolamentazione in sede condominiale). Infatti, a tal scopo, deve affermarsi che - secondo la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 2369 del 1971; Cass. n. 1600 del 1975; Cass. n. 2727 del 1975 e Cass. n. 3169 del 1978) - l'art. 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne lo stesso uso secondo il loro diritto, non pone una norma inderogabile, ragion per cui i suoi limiti possono essere resi più rigorosi dal regolamento condominiale o dalle apposite delibere assembleari adottate con i “quorum” prescritti dalla legge.

L'unico limite della legittima “autodisciplina condominiale” è rappresentato dalla previsione del divieto sostanziale di utilizzazione generalizzata delle parti comuni; nel caso in cui, invece, l'assemblea condominiale (con le prescritte maggioranze) adotti una delibera che vieti soltanto un uso specifico (…), la stessa deliberazione deve ritenersi legittima” (Cass. Civ., Sez. II, 04 dicembre 2013 n. 27233).

L’amministratore avrà, dunque, nel caso di specie, non solo il diritto ma altresì l’obbligo di intervenire in forza dei poteri che gli riconosce l’art. 1130, 1° comma, n. 2, c.c. per far cessare l’abuso ed imporre l’esecuzione della delibera assembleare; qualora non riesca, poi, ad imporre la volontà della maggioranza dei condomini in via “bonaria”, potrà legittimamente rivolgersi all’Autorità Giudiziaria.

Alfonso P. chiede
venerdì 13/05/2016 - Toscana
“Buon giorno,

Vi chiedo cortesemente un parere sulla seguente questione condominiale che mi riguarda.
Fatto
A seguito di comunicazione fatta all'amministratore circa la mia volontà di installare, nell'incavo posteriore del fabbricato dove abito, un'unità esterna di condizionatore di dimensioni molto contenute, la richiesta fu inserita nell'ordine del giorno per la successiva riunione condominiale tenutasi il ….............. (in seconda convocazione), sotto la seguente voce:
“Richiesta del sig XXXXXXXXXX di installazione di un'unità esterna di condizionamento d'aria al di sopra della copertura dei garages, sulla facciata retrostante del fabbricato”.
In realtà, più che facciata, trattasi di un incavo rientrante del prospetto posteriore del fabbricato (a forma di U) nel quale sono inseriti, a solo piano terra, n° 3 garages con copertura piana che praticamente occulterebbero in buona parte la vista dell'apparecchio dal cortile condominiale retrostante, dato che l'appartamento di proprietà è ubicato al piano primo dello stabile e che lo stesso verrebbe posizionato al di sotto del livello del davanzale della finestra del bagno.
La proposta venne messa ai voti con la seguente dizione:
“Autorizzazione al Sig.XXXXXXXXX e a tutti i condomini interessati ad installare unità esterne di condizionamento d'aria sulla facciata del condominio. ( Si noti la differenza tra proposta all'ordine del giorno e quanto messo in discussione).

La votazione ha avuto il seguente risultato:
votanti 9 su 10 per complessivi millesimi 907,69 (1 assente)
voti contrari 5 su 9 per complessivi millesimi 497,55;
voti favorevoli 4 su 9 per complessivi millesimi 410,15
La richiesta non è approvata.
Motivo del rifiuto riferito da un solo condomino (gli altri quattro non hanno ritenuto di dover motivare il diniego) è il seguente:
“.............in quanto l'inserimento di elementi esterni andrebbe ad alterare il decoro della facciata e sarebbe il primo passo per ulteriori alterazioni della facciata”.

Tanto precisato, essendo sempre nei termini previsti per l'eventuale impugnazione della delibera, vi chiedo:

1) Se la delibera presa, a mio avviso, in palese violazione degli artt. 1102 – 1120 e 1136 cc. , si debba considerare nulla o annullabile;
2) Per impedire l'esercizio di un diritto soggettivo, come quello dell'uso di un bene comune, non necessita l'unanimità?
3) Se in caso di nullità, come io ritengo, la stessa possa essere da me disattesa, e procedere ugualmente all'installazione dell'apparecchio evitando così spese legali e perdita di tempo, considerato che l'art. 1102 cc , alle condizioni ivi previste, me lo consente senza dover richiedere autorizzazioni;
4) Quali potrebbero essere le conseguenze in riferimento al punto 3)?
5) Se una tale delibera possa assurgere a rango di norma di regolamento assembleare vincolante;
6) Se può il condominio esprimere un giudizio in merito all'alterazione del decoro o rumorosità dell'apparecchio prima che lo stesso venga installato. A me risulta che tale giudizio spetti al giudice di merito a seguito di un eventuale azione del condominio promossa successivamente;
7) Quali sono, in caso di apertura di un contenzioso presso il tribunale, le possibilità di vittoria alla luce dei fatti sopra descritti?

Preciso infine che il condominio non è fornito di alcun regolamento.

In attesa vi porgo distinti saluti.”
Consulenza legale i 20/05/2016
La delibera in questione è senz’altro impugnabile, perché emessa in violazione dei diritti del condomino sulla cosa comune.

Va preliminarmente chiarito, a tal proposito, che l’installazione in oggetto non costituisce “innovazione” ai sensi dell’articolo 1120 del codice civile: in primo luogo perché l’“innovazione” è una modificazione notevole della cosa comune, che ne altera l’entità sostanziale o la destinazione originaria: va da sé che l’intervento in esame non rientra nella predetta definizione.

In secondo luogo perché il citato articolo 1120 c.c. riguarda le innovazioni dirette “al miglioramento” o “all’uso più” comodo della cosa comune oppure ancora al “maggior rendimento” di quest’ultima: l’intervento di cui si discute, invece, anche se effettuato sulla cosa comune, ha l’obiettivo di rendere maggiore il godimento non di quest’ultima ma della proprietà individuale del singolo condomino che vuole effettuarlo (dal momento che l’impianto di condizionamento renderà più confortevole e vivibile l’appartamento di quest’ultimo).

L’installazione del motore in questione, quindi, non trova disciplina nell’articolo 1120 c.c. e non è soggetta ai limiti dettati dal rispetto di determinati quorum deliberativi e/o costitutivi in assemblea (art. 1136 cod. civ.).

L’articolo del codice civile che più correttamente viene in considerazione, dettato in materia di comunione e che si applica, evidentemente, anche al condominio negli edifici, è il 1102:
Uso della cosa comune.
Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.

Due sono, pertanto, le condizioni per un uso individuale della cosa comune:
- non alterarne la destinazione: l’installazione, tuttavia, del motore esterno all’edificio non altera minimamente la destinazione della facciata posteriore di quest’ultimo (il muro perimetrale ha una funzione di recinzione: praticare aperture nel medesimo muro, ad esempio, costituirebbe alterazione della sua destinazione);
- non impedire che gli altri condomini ne possano fare ugualmente uso secondo il proprio diritto: non si vede, neppure sotto questo profilo, come il diritto degli altri condomini di utilizzare il medesimo spazio possa essere compromesso.

Afferma in proposito una pronuncia emessa in un caso del tutto analogo a quello in esame: “L'art. 1102 cod. civ. facoltizza ciascun condomino a servirsi della cosa comune - apportandovi anche le modifiche che ritenga utili per il miglior godimento - salvo il rispetto della sua destinazione e della possibilità del pari uso da parte degli altri aventi diritto.
Tali limiti non vengono superati per il solo fatto dell'utilizzo più intenso da parte del singolo condomino, purché non si giunga al turbamento dell'equilibrio dei diritti degli altri e ad un cambiamento della destinazione del bene comune.
La fattispecie riguarda una già compiuta installazione di macchinari per il condizionamento dell'aria - ad opera di un condomino - nell'intercapedine del garage condominiale.
Non sembra che tale uso - in mancanza di più specifiche e concrete deduzioni della ricorrente - sia di per sé incompatibile con l'obiettiva destinazione funzionale (ricovero delle autovetture) da riconoscere a quel bene comune, o ne comporti comunque un apprezzabile pregiudizio.
L'immutata destinazione del garage e la mancanza di una consistente alterazione materiale di alcun bene comune inducono anche ad escludere la ricorrenza di un'innovazione ai sensi dell'art. 1120 cod. civ.: non assume alcun rilievo - pertanto - la mancanza nella fattispecie della maggioranza qualificata prevista dall'art. 1136, 5° comma, cod. civ.” (Tribunale Roma sez. V, 20 luglio 2009, n. 16028).

Alla luce di quanto sopra, si risponde, di seguito, alle specifiche domande poste nel quesito.

1) e 5) La delibera in questione può senz’altro ritenersi nulla. Per lungo tempo vi è stato un contrasto in giurisprudenza sull’individuazione dei casi di nullità oppure di annullabilità delle delibere assembleari condominiali: è intervenuta successivamente sul punto, a dirimere ogni contrasto, Cassazione Civ., Sezioni Unite, 7 marzo 2005 n. 4806, che ripercorre diffusamente tutti gli orientamenti sulla questione ed infine statuisce: “In materia di condominio, la nullità non prevista è piuttosto una creazione della dottrina e della giurisprudenza per impedire l'efficacia definitiva delle delibere mancanti degli elementi costitutivi (o lesive dei diritti individuali): per la verità, fissare l'efficacia definitiva di una delibera gravemente viziata per difetto di tempestiva impugnazione non sembra giusto.
In assenza di specifica previsione normativa, sembra logico doversi ammettere la nullità soltanto nei casi più gravi.
12.1. Al riguardo, nell'ambito del condominio negli edifici acquista rilevanza la distinzione tra momento costitutivo e momento di gestione. Invero, l'espressione "condominio negli edifici" designa tanto il diritto individuale sulle cose, gli impianti ed i servizi comuni attribuito ai proprietari dei piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato, quanto l'organizzazione degli stessi proprietari, cui è affidata la gestione delle parti comuni. I vizi riscontrabili nel momento costitutivo, che riflette l'insorgenza del diritto individuale e la stessa situazione soggettiva di condominio, con conseguente rilevanza della volontà individuale di ogni singolo partecipante, onde il principio è quello dell'autonomia, che si avvale dello strumento negoziale, certamente sono più gravi di quelli verificabili nel momento di gestione, che riguarda l'organizzazione del condominio per quanto attiene le sole cose comuni, dove vige il metodo collegiale e il principio maggioritario, che comportano la subordinazione della volontà dei singoli al volere dei più.

In buona sostanza, la nullità delle delibere riguarda i casi di maggior gravità, consistenti nella violazione di norme imperative di legge o nella lesione di diritti individuali (come nel caso di specie), mentre l’annullabilità riguarda i casi meno gravi, di inosservanza di regole “procedimentali”, attinenti, cioè, al funzionamento ed alla vita del condominio.

2) La modifica dei diritti soggettivi individuali sulla cosa comune di cui all’art. 1102 c.c. è consentita solo all’unanimità dei consensi; tuttavia, nel caso di specie, non si tratta precisamente di modificare in generale l’uso della cosa comune da parte dei singoli condomini, ma di impedire che uno di questi eserciti i suoi legittimi diritti; questo non è possibile, tanto che se il condomino agisce nel rispetto dei due limiti di cui all’art. 1102 (copra specificati) c.c. non sarà necessaria alcuna autorizzazione formale da parte dell’assemblea (la quale potrà, eventualmente, operare un controllo sulla legittimità dell’operato del primo solo a posteriori).

3) e 4) Procedere comunque con i lavori comporterebbe, eventualmente, l’apertura di un contenzioso da parte del condominio.

6) il condominio può legittimamente contestare l’opera da eseguirsi sotto il profilo del rispetto del decoro architettonico dell’edificio: secondo la giurisprudenza, infatti, anche nel caso dell’art. 1102 c.c. si deve rispettare il suddetto limite dettato dall’art. 1120 c.c. per le innovazioni. Il concetto in questione viene così definito: “Ai fini del decoro architettonico di un edificio condominiale (…), occorre far riferimento all'estetica del fabbricato che è data dall'insieme delle linee e strutture ornamentali, senza che occorra che si tratti di un edificio di particolare pregio. Il decoro architettonico, laddove possa individuarsi nel fabbricato una linea armonica sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia, è dunque un bene comune il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare.” (Tribunale Todi, 22 aprile 2014, n. 771).

Pertanto il condominio potrebbe (e dovrebbe) intentare un’azione affinché venga accertato se l’installazione dell’unità dell’impianto di condizionamento possa costituire un’alterazione delle “linee” e della fisionomia caratterizzante l’estetica dell’edificio. Sulla base, tuttavia, della descrizione dello stato dei luoghi offerta, si ritiene improbabile che l’intervento di cui si discute possa costituire un’alterazione vietata.

7) Tenendo conto di tutto quanto sopra osservato e chiarito, le probabilità di vittoria all’esito di un contenzioso con il condominio sono piuttosto buone. Va operato, tuttavia, un distinguo a seconda dell’oggetto del giudizio: se si tratta dell’impugnazione della delibera assembleare il rischio di soccombenza sarà minimo; qualora si tratti invece di causa intentata dal condominio per la valutazione di un’avvenuta alterazione del decoro architettonico dell’edificio, il rischio sarà maggiore, dal momento che tale valutazione è rimessa, caso per caso, alla discrezionalità del giudice sulla base della situazione di fatto.

R. G. chiede
lunedì 11/03/2024
“Buongiorno,
mi occorre un parere legale in merito alla possibilità di ottenere un risarcimento danni per quanto di seguito esposto:
- mia moglie è cointestataria con fratello e sorella di un appartamento in successione ereditaria, per la quale è ancora in corso un procedimento di mediazione;
- lo scorso anno la sorella le preannuncia di voler locare il bene a terzi "a vantaggio di tutti e tre i comproprietari", salvo poi stipulare il contratto con un'agenzia di vacanze a suo nome dichiarando di avere titolo a disporne e trattenendo quanto incamerato;
- riserva per utilizzo proprio un periodo durante la locazione senza altre indicazioni e, di conseguenza, mia moglie non può beneficiarne durante il periodo di ferie in quanto concesso a terzi;
- una parte dei consumi delle utenze, tuttavia, verrà pagata con fondi comuni proveniente dalla locazione di altro bene cointestato;
- la richiesta di rendiconto non ha avuto esito. L'unica indicazione per vie brevi è stata che i fondi erano stati impiegati per le utenze e altre spese non meglio indicate;
- non è noto se è stato esercitato il diritto di disdetta.
Allego copia del contratto e resto a disposizione per quanto necessario”
Consulenza legale i 16/03/2024
La giurisprudenza ha chiarito ormai da tempo come la locazione di un bene comune da parte di un solo comunista all’ insaputa degli altri sia perfettamente valido e rientri nel perimetro applicativo della gestione di affari altrui, istituto previsto dagli artt. 2028 e ss. del c.c. (Cass.Civ., SSUU, n.11135 del 04.07.2012). Nel caso specifico, tra l’altro, pare che gli altri comproprietari abbiano di fatto preso atto e ratificato ex post l’attività compiuta dalla sorella, poiché hanno preteso da quest’ultima, del tutto giustamente, la rendicontazione dei canoni incassati.
Ovviamente se il contratto è valido e vincolante per tutti i comproprietari è altrettanto vero che essi sono parimenti legittimati ad esercitare le facoltà e i diritti che da tale contratto derivano. In particolare, ciascuno dei partecipanti singolarmente o assieme agli altri comproprietari, è pienamente legittimato ad esercitare il diritto di disdetta, dimostrando di avere titolo per poterlo fare e quindi dimostrando di essere comproprietario del bene, e ovviamente rispettando le condizioni previste nel contratto di locazione e nella normativa che lo regolamenta. Allo stesso tempo, disdettando il contratto si dovrà anche diffidare la agenzia di vacanze nel procedere alla stipula di un nuovo contratto senza il consenso di tutti gli altri comproprietari della seconda casa. Questo di fatto paralizzerà ogni ulteriore iniziativa solitaria dell’altra sorella.

Quest’ultima ha inoltre l’obbligo, ai sensi dell’ art. 1713 del c.c., di rendere conto puntualmente della sua gestione indicando il ricavato portato dalla locazione e le spese sostenute, corrispondendo agli altri comproprietari le somme incassate in loro nome e per conto, oltre agli interessi da computarsi a partire dal giorno della ricezione delle somme ai sensi dell successivo art. 1714 del c.c.. Nello specifico, colui che ha sottoscritto la locazione dovrà corrispondere agli altri partecipanti alla comunione la quota parte dei canoni di locazione incassati, da calcolarsi in base alla quota di comproprietà vantata sul bene comune da ognuno dei comunisti.
Gli obblighi che il contraente della locazione ha nei confronti degli altri partecipanti alla comunione trovano la loro giustificazione non solo con riferimento alle norme sul mandato a cui si è fatto appena riferimento, ma anche ricorrendo alla disciplina della comunione. Dall’esame del quesito emerge molto chiaramente come attraverso il contratto di locazione la sorella abbia goduto in maniera esclusiva del bene, incamerandosi i fitti ed escludendo gli altri comproprietari dal fare altrettanto.
Sotto questo aspetto, la regola generale è quella dettata dall’art. 1102 c.c., secondo cui: “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto…
Nel caso in cui oggetto della comunione sia un cespite immobiliare, come appunto una casa vacanze, non sempre è possibile ipotizzare un suo uso simultaneo da parte di tutti i partecipanti. Se ciò non è possibile, la Cassazione ha specificato che l’uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure, appunto, mediante avvicendamento con un uso turnario da parte dei comproprietari. In altre parole, nel caso prospettato le alternative per fare in modo che tutti i comproprietari godano dell’utilità del loro bene sono sostanzialmente due:
  • darlo in locazione e suddividere gli incassi
  • oppure concordare un utilizzo a turni.
A fronte del fatto che uno dei comproprietari ha fatto espressa richiesta agli altri di voler godere del bene durante le vacanze estive, ma tale possibilità gli è stata di fatto negata in quanto l’immobile è stato sempre occupato da un conduttore, è possibile per costui pretendere una indennità da occupazione dal comproprietario che ha concluso la locazione: tale indennità dovrà essere pari proprio al valore locatizio del cespite comune (Cass.Civ. Ord. n.10264/23).
Concludendo, nel caso prospettato vi sono tutte le possibilità per procedere a disdettare il contratto concluso con l’agenzia vacanze e successivamente per convenire in giudizio la sorella e pretendere la parziale restituzione di quanto da lei incassato.

M. A. chiede
lunedì 12/02/2024
“buongiorno, ho 70 anni e il garage condominiale ha due ingressi, uno con serranda motorizzata stretto e uno con serranda manuale più ampio, ho appena cambiato la macchina e la nuova non passa più nell'ingresso serranda motorizzata, quindi sono costretto a lasciare l'auto fuori perchè la mia forza e due ernie discali non mi permette di sollevare la serranda manuale con ingresso più ampio, il problema nasce dal momento che un proprietario possiede più della metà dei posti auto che affitta e non si riesce a deliberare la motorizzazione della serranda in quanto lui è contrario con i millesimi a suo favore, può venirmi in aiuto il codice civile l'amministratore dice che non può fare nulla?”
Consulenza legale i 14/02/2024
A parere di chi scrive l’inserimento di una motorizzazione nella serranda manuale rappresenta una innovazione di cui al 1° comma dell’art.1120 del c.c. in quanto tesa al miglioramento e al miglior godimento della cosa comune. Purtroppo, il 5°comma dell’ art. 1136 del c.c. richiede un quorum deliberativo molto elevato, affinché l’assemblea possa deliberare tali tipo di innovazione (maggioranza degli intervenuti che rappresentano almeno i 2/3 del valore dell’edificio: 666 millesimi). Se ovviamente durante la riunione non si forma la maggioranza prescritta dalla legge l’amministratore non può procedere con i lavori.

È però possibile scavalcare gli organi condominiali decidendo di installare la motorizzazione della serranda a proprie spese: questo rientra nei poteri riconosciuti da ciascun comproprietario dall’art.1102 del c.c. (in questo senso molto chiara: Corte app. civ. Milano, sez. I, 7 marzo 1980, n. 368).
L’art. 1102 del c.c. riconosce infatti al singolo partecipante alla comunione il diritto di apportare alla cosa comune tutte le migliorie necessarie per garantire un suo miglior godimento, purché non ne alteri la destinazione economica e non impedisca agli altri di farne parimenti uso.

L’ installazione di una motorizzazione nella serranda comune rispetta perfettamente le prescrizioni previste dall’art.1102 del c.c. e, se lei decidesse di procedere in tal senso, ne una delibera assembleare né un condominio individualmente o l’amministratore stesso avrebbe il potere di impedirglielo.
Ovviamente prima dell’inizio dei lavori sarà comunque opportuno avvisare con congruo anticipo l’amministratore di condominio, comunicandogli la decisione presa e la data di inizio dei lavori.


A. M. L. chiede
martedì 02/01/2024
“Gentile redazione,
mio fratello, nudo proprietario di un immobile il cui usufrutto è diviso al 50% fra me e lui, utilizza da anni al 100% alcune unità immobiliari.
Posso chiedergli il fitto per il mio 50% di usufrutto? Posso esigere i fitti per gli anni precedenti? C'è un termine di tempo entro cui chiederli, o c'è il rischio di prescrizione?
Come devono essere ripartite le spese di manutenzione ordinarie e straordinarie?
Vi ringrazio anticipatamente augurandovi un buon 2024.”
Consulenza legale i 08/01/2024
La risposta alle prime domande che vengono poste, purtroppo, è negativa.
In casi come questo la norma di cui deve farsi applicazione è l’art. 1102 del c.c., in relazione alla quale la giurisprudenza, compresa quella di legittimità, si è pronunciata in diverse occasioni.
Due sono gli orientamenti che si sono venuti a delineare:
  1. secondo una tesi meno recente, i comproprietari esclusi dal godimento dell’immobile hanno diritto di ottenere un’indennità di occupazione per mancata utilizzazione del bene (così Cass. n. 20934/2013).
Tale tesi, che darebbe ragione a chi pone il quesito, trova il suo fondamento nella considerazione secondo cui l’immobile è un bene in grado di produrre frutti civili e, pertanto, al vantaggio patrimoniale che ne riceve l’occupante in via esclusiva del bene se ne fa conseguire, in modo diretto, la potenziale perdita patrimoniale subita dagli altri comproprietari esclusi dal possesso di quel medesimo bene.

  1. secondo una diversa e più recente tesi, invece, dall’utilizzazione esclusiva del bene comune da parte di uno dei comproprietari non se ne può far discendere immediatamente un pregiudizio in danno degli altri.
Si afferma, infatti, che perché possa configurarsi detto pregiudizio è necessario un ulteriore requisito, ovvero che i comproprietari esclusi abbiano manifestato il loro dissenso.
Logica conseguenza di tale tesi è che l’indennità di occupazione va corrisposta soltanto nel caso in cui i contitolari esclusi dal possesso richiedano espressamente e formalmente l’uso della cosa e detta richiesta venga negata da colui che, direttamente o indirettamente, gode del bene (così Cass. n. 2423/2015).

Quest’ultima è la tesi a cui attualmente aderisce la prevalente giurisprudenza di legittimità, la quale specifica ulteriormente che:
  1. se l’immobile in comproprietà viene utilizzato per ricavarne frutti civili (è il caso della locazione), tutti coloro che ne risultano comproprietari avranno il diritto di partecipare alla ripartizione di tali frutti in proporzione alla propria quota.
In questo caso, dunque, si potrà pretendere da colui che li ha riscossi per intero la restituzione di quanto a ciascun comproprietario spettante ed è in un’ipotesi del genere che si dovrebbe eventualmente fare i conti con le norme dettate in tema di prescrizione dei diritti.
In particolare, il diritto alla restituzione di quelle somme presuppone l’esercizio di un’azione di ripetizione di indebito, la quale soggiace al termine di prescrizione decennale, anche qualora si discuta della ripetizione di somme versate a cadenza mensile e per le quali, invece, dovrebbe valere il termine di prescrizione quinquennale ex art. 2948 del c.c. (così Cass. 05.11.2019 n. 28436, Cass. 15.02.2018 n.3706).

  1. se, invece, come accade nel caso di specie, l’immobile viene utilizzato in via esclusiva da uno solo dei comproprietari, il semplice godimento esclusivo non potrà considerarsi produttivo di pregiudizio in danno degli altri comproprietari, a meno che gli stessi a loro volta non dimostrino di aver provato a godere del bene e di non averlo potuto fare in quanto impediti dall’altro coerede.
La tesi suesposta risulta perfettamente aderente a quella che è la ratio dell’art. 1102 c.c., rubricato appunto “Uso della cosa comune”, nella parte in cui dispone che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè…non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto…

Sotto un profilo meramente pratico, quanto fin qui detto comporta che finchè il comproprietario che attualmente non gode dell’immobile non farà formalmente constare il suo dissenso all’uso esclusivo che ne viene fatto dall’altro, colui che lo occupa non sarà in alcun modo tenuto ad indennizzare l’altro per il mancato godimento dello stesso.
Sarà solo dal momento della manifestazione di dissenso a detto uso esclusivo che il godimento del bene da parte di uno solo degli usufruttuari diventa privo di alcun titolo giustificativo e, come tale, fonte di danno per l’altro comproprietario sotto l’aspetto del lucro cessante, per mancata percezione dei frutti civili ritraibili dall’immobile, i quali, per costante giurisprudenza, vanno commisurati al valore figurativo di un ipotetico canone locativo di mercato (così Cass. n. 5504/2012 e Cass. n. 17876/2019).

Si ritiene possa essere utile aggiungere che, nel caso in cui chi occupa in maniera esclusiva l’immobile dovesse pure rifiutarsi, dopo formale richiesta, di rilasciarlo, il co-usufruttuario escluso, oltre alla suddetta tutela risarcitoria, sarebbe anche legittimato ad esperire le azioni volte al recupero del possesso del bene.

Nella seconda parte del quesito vengono chiesti chiarimenti in ordine ai criteri da seguire nella ripartizione delle spese tra nudo proprietario ed usufruttuario.
Anche di tale aspetto il codice civile si occupa in maniera espressa e lo fa agli artt. 1004 e 1005 c.c.
In estrema sintesi, ciò che dalla lettura di tali norme si ricava è che tutte le spese ordinarie gravano sull’usufruttuario (in quanto è colui che gode ogni giorno del bene ed è tenuto ad averne cura), mentre le spese straordinarie incombono in capo al nudo proprietario.
Se però si generano spese straordinarie legate alla mancata manutenzione da parte dell’usufruttuario, tenuto a conservare il bene con la diligenza del buon padre di famiglia, il nudo proprietario potrà rivalersi su quest’ultimo.
Nel caso di specie, poiché è soltanto uno degli usufruttuari che fino a questo momento ha goduto del bene, se di ciò si sarà in grado di fornire prova, sarà questi tenuto a rispondere in via esclusiva delle eventuali spese straordinarie causate dalla mancata o inadeguata manutenzione dell’immobile.

In caso di disputa sulla natura della necessità di intervenire con lavori di manutenzione straordinaria, ovvero se per normale deterioramento o per incuria/negligenza, la decisione su chi debba pagare spetta al giudice di merito.

Sotto il profilo fiscale il riferimento va fatto alle due imposte principali che riguardano un immobile, ovvero IMU e TARI. In particolare:
  1. il pagamento dell’IMU su un’abitazione concessa in usufrutto spetta alla persona che realmente gode dell’abitazione, ovvero l’usufruttuario. Tale norma è valida anche qualora il titolare dell’usufrutto utilizzi o meno fisicamente l’abitazione a lui concessa;
  2. per quanto riguarda la TARI, anch’essa è dovuta dall’usufruttuario dell’immobile. Nel caso in cui vi siano più usufruttuari, il comune potrà rivolgersi ad uno soltanto di loro, chiedendo il pagamento il solido dell’intero importo. Spetterà a lui, poi, pretendere il pagamento dagli altri, per la quota a loro spettante.


E. C. chiede
domenica 05/11/2023
“Buonasera, sono proprietaria di una casa con ingresso indipendente al piano terra e scala comune per accesso ai piani superiori. All''acquisto, la casa era già accatastata come unità indivisa. Sulla facciata su strada si aprono soltanto le finestre dei miei 3 piani, (terra, primo e secondo). Dal portone comune accede una famiglia che abita un primo e secondo piano, mentre al piano terra abita il figlio con ingresso indipendente. La famiglia, in epoca anteriore al mio acquisto ha costruito una panchina in muratura al livello suolo, 30 cm circa di fronte al muro della mia facciata, a 20 cm circa a sin del mio ingresso. Sulla panchina la famiglia tiene un grosso vaso e sull'altra metà io ho un mio vaso con pianta. Sono stata ripetutamente minacciata verbalmente di lesioni fisiche dal marito che mi vieta di mettere il mio vaso da fiori. Lui tiene anche vasi su uno spazio a sinistra del portone comune e di fronte, su una balaustra comunale. A parte difendermi dalla minaccia di lesioni, qual è il razionale della gestione di questa situazione? Aveva il diritto di costruire la panchina? Può impedirmi di mettere un vaso mio? Può tenere il vaso a sinistra del portone?”
Consulenza legale i 14/11/2023
Visto che la panchina e i vasi sono stati installati su terreno comunale, come da Lei precisato con Sua ultima comunicazione, è molto probabile che la presenza di tali opere violi i regolamenti vigenti in materia nel suo comune di residenza. Si consiglia quindi di rivolgersi all’ufficio comunale competente per avere informazioni più specifiche. D’altro canto anche la stesso art 873 del c.c., il quale disciplina la distanza nelle costruzioni tra fondi finitimi, fa rinvio alle normative e ai regolamenti vigenti nei singoli comuni.

Se, al contrario, i vasi da fiori sono stati installati su spazi comuni del complesso condominiale, la loro installazione pare assolutamente legittima rispettando pienamente i parametri previsti dall’art.1102 del c.c. L’installazione dei vasi da fiori infatti costituirebbe semplicemente un uso più intenso del bene comune, pacificamente ammesso da giurisprudenza unanime.

M. P. chiede
mercoledì 05/07/2023
“Buongiorno, in qualità di tecnico di parte desidero avere il Vs parere in merito alla vicenda di seguito rappresentata.
3 sorelle ricevono, ciascuna, in eredità 1 negozio con sovrastante appartamento, gli immobili sono finittimi.
Il terreno retrostante i fabbricati risulta egualmente ripartito e rispettivamente assegnato.
Viceversa il terreno antistante a soli 2 negozi (lungo la via) risulta corte comune di tutti e 3 i negozi (non degli appartamenti).
Da circa 25 anni il negozio 1 (bar) ha occupato circa metà corte comune mediante una terrazza con tavolini (40 mq), previo consenso verbale delle sorelle.
Ora, in corso di ristrutturazione, anche il negozio 2 intende occupare la restante corte comune realizzando la medesima soluzione.
Sempre a seguito dei lavori sono stati posizionati, nella corte comune, i nuovi pozzetti per i sottoservizi a favore di negozi ed appartamenti 1 e 2 (acquedotto, elettricità) invece di posizionarli al limite delle rispettive proprietà.
Qualche giorno fa, la terza sorella ha lamentato che tali lavori, su l’area comune, vengono eseguiti senza averla consultata.
Subito le 2 sorelle hanno indetto una formale assemblea nella quale con la maggioranza di 2/3 hanno inteso approvare i sottoservizi e messo in stand-bay l’ampliamento della terrazza.
Quesiti:
In ragione del C.C. art 1108 i sottoservizi non si considerano servitù e quindi diritti reali per i quali necessita l’unanimità e non una maggioranza qualificata? Qualora servisse l’unanimità si deve impugnare la delibera entro 30 giorni o la stessa risulta nulla?
Ora come può la terza sorella tutelare il suo diritto sulla corte comune? Qualora concedesse i lavori per ampliare la terrazza e/o sulla terrazza già esistente è lecito chiedere alle sorelle un ristoro/affitto per occupazione del suolo ed il mancato godimento?
Sperando in una chiara e comprensiva esposizione porgo distinti saluti.”
Consulenza legale i 15/07/2023
L’ art. 1027 del c.c. definisce la servitù prediale come il peso imposto su un fondo (detto fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (detto fondo dominante) appartenente a diverso proprietario. È giusto precisare che nel diritto delle servitù il concetto di “fondo” è molto più ampio rispetto al linguaggio comune, potendovi tranquillamente rientrare non solo il classico appezzamento di terreno agricolo ma anche una unità immobiliare in condominio, come ad esempio un appartamento o un negozio.

Dalla lettura dell’art. 1027 del c.c. emergono a prima vista due requisiti fondamentali delle servitù i quali, come vedremo saranno anche molto importanti per districare il caso che è stato prospettato.
Il primo requisito è l’utilità: in altre parole la servitù deve rappresentare un vantaggio nella utilizzazione e nel godimento del fondo dominante ed essere rispetto a quest’ ultimo in un rapporto di strumentalità ed accessorietà.
Il secondo requisito previsto dall’art.1027 del c.c. è la diversità soggettiva tra il proprietario del fondo dominante e quello del fondo servente: tradotto in altri termini per le norme del codice civile non può sussistere un rapporto di servitù tra due fondi se questi ultimi appartengono alla stessa persona (nemini res sua servit).

In merito a questo ultimo requisito, la giurisprudenza ha chiarito che il carattere della intersoggettività sussiste anche in ambito condominiale: quindi è ben possibile, ad esempio, costituire una servitù a favore del fondo dominante Alfa di proprietà esclusiva del solo Tizio e a carico del fondo servente Beta in comproprietà tra Tizio (proprietario del fondo Alfa), Caio e Sempronio (Cass.Civ. n.6994 del 17.07.98). Questo, ad una prima superficiale lettura, parrebbe essere ciò che è accaduto nel caso prospettato: i proprietari esclusivi dei due negozi hanno posto in essere una servitù a carico della corte interna di cui sono comproprietari unitamente ad un terzo soggetto, ovvero la sorella.

Rispetto a tutto quanto detto finora dobbiamo tener conto anche di un'altra norma estremamente importante per il caso specifico, ovvero l’art. 1102 del c.c. Esso come è noto attribuisce la facoltà al singolo comproprietario di utilizzare la cosa comune per sé, a condizione che non ne alteri la destinazione economica e non si impedisca agli altri comproprietari di fare parimenti uso del bene. Ammettere, infatti, che si possa costituire una servitù prediale a carico di un bene comune condominiale apre delle conseguenze molto rilevanti, in quanto non sempre è facile capire quando un determinato peso posto sul fondo comune da un comproprietario possa costituire servitù a favore del suo bene in proprietà esclusiva, oppure, viceversa, costituire un legittimo utilizzo del bene comune ammesso dall’ art. 1102 del c.c.

Questo a ben pensare non è un problema da poco e porta con sé delle conseguenze molto rilevanti per il caso che si è prospettato.
Se infatti si ritenesse l’occupazione della corte comune e il posizionamento dei pozzetti come una servitù posta a carico della corte comune e a favore dei due negozi, è ovvio che per la sua legittima costituzione per via contrattuale sarebbe necessario il consenso dell’altro comproprietario, ovvero la sorella. Inoltre, in un contratto costitutivo del diritto di servitù a carico della corte essa ben potrebbe pretendere il pagamento di un corrispettivo a fronte del peso che deve sopportare il fondo di cui anche lei risulta essere proprietaria in quota indivisa.

Le cose cambiano, invece se si considerassero le condotte poste in essere dai due proprietari dei negozi come un legittimo esercizio della facoltà di utilizzo della corte comune loro garantita dall’art. 1102 del c.c. In questo caso, infatti, non vi sarebbe alcuna necessità di assumere il consenso della sorella per la realizzazione dei lavori, né sicuramente essa avrebbe il diritto di poter richiedere agli altri due comproprietari un compenso per l’occupazione della corte comune. Questo per il semplice motivo che le condotte poste in essere dai due comproprietari risultano ammesse dall’art. 1102 del c.c.

La giurisprudenza ha tentato di dare una risposta alla domanda che ci si è fatti poco sopra. Interessante sotto questo aspetto è Cass.Civ. n.18661 del 22.09.2015. Tale pronuncia specifica che siamo innanzi ad una servitù prediale imposta su bene comune e non ad un legittimo esercizio delle facoltà di cui all’art. 1102 del c.c., quando i condomini-comproprietari impongono sul loro bene comune e a vantaggio delle loro proprietà esclusive un peso che rappresenta una utilità ulteriore e qualitativamente diversa rispetto alla naturale destinazione garantita dalla cosa comune.
Ora se questa pronuncia della Cassazione detta una linea guida di apparente facile comprensione, sicuramente molto più complessa appare la messa a terra di tale concetto nella vita reale, in quanto non sempre è possibile distinguere quel qualcosa in più rispetto alla destinazione economica del bene comune la cui esistenza fa scattare l’applicazione della disciplina della servitù con tutte le conseguenze viste sopra.
Nel caso specifico però appare piuttosto ovvio che l’occupazione della distesa da parte delle due attività rappresenta l’esercizio della naturale utilità che la destinazione della corte comune apporta agli esercizi commerciali che vi si affacciano, come parimenti discorso può farsi per il posizionamento dei pozzetti per i sottoservizi. Ad ogni modo se chi scrive fosse il legale della sorella quest'ultimo aspetto sarebbe oggetto di un serrato confronto col tecnico di parte che assiste la sua cliente: quindi si rimanda all’autore del quesito ogni ulteriore valutazione sul punto.

A parere di chi scrive però apparentemente le pretese della sorella non hanno un solido fondamento in un ipotetico contenzioso se si affronta il problema utilizzando l’istituto delle servitù prediali. Viceversa, si potrebbe fare leva proprio sull’art. 1102 del c.c.: in quanto se da un lato è vero che tale norma ammette che il singolo comproprietario possa fare un uso più intenso del bene comune che può spingersi anche ad una sua occupazione totalitaria, è anche vero che la medesima norma precisa che deve essere garantito a tutti i comunisti di fare parimenti uso del bene.
Orbene, una occupazione totalitaria della corte comune da parte degli altri due comproprietari se è ammissibile oggi, può non esserlo domani nel momento in cui anche l’altro esercizio commerciale di proprietà della sorella vorrà utilizzare la corte comune. Per tale motivo potrebbe essere vantaggioso raggiungere un accordo tra tutti i comproprietari che disciplini la facoltà d’uso della corte comune. In alternativa si potrebbe prevedere la rinuncia da parte della sorella a beneficiare della corte comune a fronte del pagamento di una somma di denaro che ristori quest’ultima della perdita del valore commerciale del negozio di sua proprietà.



Anonimo chiede
sabato 03/06/2023
“Sono comproprietario (comunione ereditaria) assieme a mio fratello di tre immobili.
Uno di questi è occupato stabilmente, dopo aver risolto il contratto con l’inquilino senza chiedere il mio consenso, da mio fratello e della sua famiglia.
Ho manifestato, in maniera celere, la mia opposizione ma non ho ancora richiesto l’indennità di occupazione.
Mio fratello oppone la possibilità di utilizzare l’appartamento nello stesso momento in maniera congiunta. Ipotesi irrealizzabile per ragioni legate agli spazi nonché per la mia volontà di godere del bene attraverso la locazione sul libero mercato.
Gli altri due immobili (contigui) sono siti in una nota località sciistica Piemontese. Entrambi sono utilizzati in vari periodi dell’anno da mio fratello, in particolar modo dalla metà di Dicembre alla metà di Gennaio.
Ho manifestato la mia volontà di locare gli immobili e di utilizzare, gli stessi, a turnazione nel periodo sopra indicato.
Tali ipotesi formalmente (attraverso la forma scritta) non sono state contestate. Di contro l’attuazione concreta è stata ostacolata attraverso comportamenti di segno opposto (occupazione esclusiva nel periodo indicato e inerzia/ostruzionismo nella ricerca di soggetti interessati alla locazione e nel conseguente libero godimento).
Chiedo un parere circa le migliori modalità per la tutela dei miei interessi. In particolare vorrei sapere se ci sono le condizioni per richiedere l’indennità di occupazione nonché la possibilità di ottenere un risarcimento del danno per la violazione degli artt. 1102 e 1105.
Gradirei rimanere anonimo.”
Consulenza legale i 09/06/2023
Il quesito descrive un classico caso di scuola di conflitto nella gestione ed amministrazione della cosa comune, aggravato dal fatto che la comunione è composta da due soli partecipanti e che quindi non è tecnicamente possibile che si formi una maggioranza che possa imporre la propria volontà alla minoranza dissenziente.
Se dovesse permanere la conflittualità descritta, l’autore del quesito ha due strade davanti a sé: la prima ai sensi del 4° co. dell’art. 1105 del c.c. è quella di ricorrere al giudice il quale adotterà, per mezzo di un provvedimento giudiziario, sostituendosi di fatto ai due proprietari, le decisioni più idonee per l’amministrazione dei cespiti, se del caso anche nominando un amministratore giudiziario; la seconda è quella di monetizzare il capitale e richiedere la divisione della comunione ai sensi dell' art. 1111 del c.c., divisione che, anche in questo caso permanendo la conflittualità, dovrà realizzarsi in contraddittorio in un processo.

Nell’ambito del procedimento instaurato ai sensi dell’art. 1105 del c.c. si potrà ovviamente far presente al giudice la volontà di mettere a reddito i cespiti ricorrendo al mercato delle locazioni ed è molto probabile che il giudice accoglierà tale richiesta.
La soluzione della divisione, però, è forse quella più estrema ma è sicuramente maggiormente risolutiva del problema: per tale motivo ci si sente di consigliare tale strada. Essa, infatti, permetterebbe di acquistare in proprietà esclusiva alcuni dei cespiti oggi condivisi con l’altro proprietario, a patto ovviamente che si abbia la capacità economica per realizzare l’acquisto.

Affianco a tutto questo è assolutamente possibile richiedere al giudice un risarcimento del danno per ingiusta occupazione del bene da parte dell’altro comproprietario.
L’art. 1102 del c.c., se da un lato ammette che il singolo comunista possa fare anche un uso esclusivo del bene comune, dall’altro precisa che non si deve impedire anche agli altri proprietari di farne parimenti uso.
Se, quindi, il cespite occupato esclusivamente dal fratello non ha delle caratteristiche costruttive tali da poter garantire un pari utilizzo del bene per entrambi i nuclei familiari, è ovvio che la condotta tenuta dalla controparte si pone in violazione dell’art 1102 del c.c.
Ciò comporta la possibilità di richiedere, ovviamente anche e soprattutto per via giudiziaria, un risarcimento del danno che può essere sicuramente quantificato facendo ricorso al valore locatizio del cespite abusivamente occupato (Cass.Civ. n.7681 del 19.03.2019).

Il discorso fatto finora muterebbe se l’immobile occupato avesse caratteristiche costruttive tali da permettere un uso simultaneo da parte di entrambi i comproprietari: per fare un esempio pratico si pensi alla classica casetta familiare che può essere divisa in due appartamenti distinti e indipendenti, andando quindi a creare un condominio minimo. In questo caso, infatti, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 1102 del c.c. e il comportamento della controparte rimarrebbe entro i limiti tracciati dalla norma citata. Il quesito non offre sotto questo aspetto spunti per permettere una ulteriore riflessione, ma sicuramente ciò potrà essere fatto se l’autore deciderà di approfondire il problema con l’ausilio di un legale.

Si precisa che il contenzioso attinente alla indennità di occupazione o alla possibile divisione dell’intero compendio in comune dovrà essere necessariamente preceduto da un tentativo obbligatorio di mediazione, sede dove è sicuramente consigliabile trovare un accordo bonario per regolamentazione pacifica degli interessi contrapposti dei due fratelli litigiosi.

B. D. chiede
martedì 04/04/2023
“Pregiatissimo Studio.

Ho recentemente acquistato un appartamento in un condominio in cui il regolamento condominiale (che non è depositato presso alcun pubblico registro, non è stato né allegato né richiamato nel mio atto di compravendita), redatto negli anni '80 prima della riforma del condominio del 2012, vieta a chiunque di occupare qualsiasi spazio di uso comune anche solo temporaneamente con costruzioni anche provvisorie o oggetti mobili.
Il condominio è dotato di un lastrico solare, anch'esso parte comune, al quale il regolamento condominiale altresì vieta l'accesso (essendo privo di balaustre ma dotato di linea vita) e l'installazione di antenne senza il consenso dell'amministrazione.

Ora io vorrei installare (a regola d'arte) dei pannelli fotovoltaici ad uso mio privato sul lastrico dell'edificio.

L'installazione di tali pannelli non comporta modifica alle parti comuni (nessun foro o opera muraria), non coinvolge alcuna altra proprietà privata, non arreca pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, non fa insorgere alcun pericolo per i condomini, non ne altera il decoro architettonico (non si potrebbe scorgere da nessuna angolazione se non ovviamente accedendo al lastrico) e non pregiudica il (potenziale) pari uso di alcuno (in particolare perché l'area occupata dall'oggetto sarebbe molto inferiore rispetto ad una ipotetica suddivisione in millesimi dell'immensa area utile all'installazione di pannelli).

Secondo l'amministratore, poiché l'art 1122 bis C.C. recita in particolare "salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto", l'installazione non è possibile perché vietata dal regolamento (che esclude l'occupazione anche temporanea), tanto più che tale articolo non è norma inderogabile e quindi il diritto all'installazione è compresso dal regolamento (assembleare), che dispone l'utilizzo attraverso il divieto dell'occupazione degli spazi comuni.

Per cui vi chiedo; è corretta questa interpretazione dell'amministratore oppure, essendo il regolamento di natura assembleare il divieto menzionato deve considerarsi nullo (in assoluto) o non applicabile al caso di specie (diritto d'installazione d'impianti di produzione energia da fonti rinnovabili), con la conseguenza che i pannelli possono essere installati (con mera comunicazione ma senza autorizzazione alcuna, visto che ne ricorrerebbero i presupposti previsti dal 1122bis)?

Grazie”
Consulenza legale i 11/04/2023
Posto che il regolamento ha una chiara natura assembleare a parere di chi scrive le sue disposizioni non hanno la forza di andare a derogare a quanto dispone l’art. 1122 bis del c.c. Anzi, la presa di posizione dell’amministratore di fatto va a limitare l’utilizzo del lastrico solare impedendo uno delle sue naturali destinazioni d’uso che è appunto la posa di pannelli fotovoltaici. Per tale motivo, sulla base di quanto si è detto vi sarebbero tutti gli estremi per insistere nella richiesta di poter utilizzare il lastrico per la posa dell’impianto.

Vi è da dire inoltre che una recente ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. VI, n. 1337 del 17.01.2023, ha precisato che una eventuale delibera assembleare che negasse espressamente la autorizzazione ai lavori, non necessita di una specifica impugnazione. Questo in termini pratici vuol dire che una delibera di tale tenore non sarebbe vincolante per il proprietario che fosse desideroso di installare il proprio pannello sulle parti comuni dell’edificio: egli potrebbe quindi tranquillamente procedere comunque all’ installazione nonostante il divieto espresso dagli altri proprietari.

Tale sentenza precisa che l’unico modo per impedire o limitare le facoltà previste dall’art. 1122bis del c.c. sarebbe la presenza di specifiche clausole derogatorie in un regolamento di condominio avente natura contrattuale, ma questo non pare proprio essersi concretizzato nel caso di specie.

Ciò ovviamente non vuol dire che nella installazione del pannello fotovoltaico si può procedere liberamente: infatti è sempre necessario comunque rispettare i principi prescritti dall’art. 1102 del c.c., di cui il successivo art. 1122 bis del c.c., costituisce una evidente attuazione.
In rispetto di quanto prevede l’art. 1102 del c.c. la progettazione e l’installazione dell’impianto deve tenere comunque conto anche del pari diritto degli altri proprietari garantito dall’art. 1102 del c.c. di godere degli spazi comuni dello stabile e della potenziale possibilità che anche essi a loro volta possano avere il l’esigenza di utilizzare le parti comuni dell’edificio per collocare il loro impianto fotovoltaico.

In questi termini si potrebbe per esempio ipotizzare una causa del condominio o di un gruppo di condomini ai danni di colui che ha installato un impianto sovradimensionato rispetto alle esigenze energetiche della unità abitativa a cui è asservito, occupando una superficie comune più ampia del necessario, oppure abbia proceduto ad una posa che pregiudica la stabilità, sicurezza e decoro architettonico dell’edificio.
Fuori da questi casi però, ogni iniziativa del condominio tesa a impedire l’installazione dei pannelli non avrebbe possibilità di resistere in un ipotetico contenzioso, posto che la clausola del regolamento citata nel quesito non è idonea a derogare alle disposizioni di legge di cui si è detto finora in quanto contenuta in regolamento di chiara natura assembleare.

G. M. chiede
mercoledì 28/09/2022 - Lombardia
“Buongiorno... Brevemente spiego la situazione.
Abito in un contesto condominiale di 13 appartamenti e ho comunicato all'amministratore, tramite un modulo, la mia intenzione di installare sul tetto condominiale un impianto fotovoltaico di 6kw corrispondente all'installazione di 15 pannelli per una superficie di 26,33 metri quadri. La superficie idonea all'installazione di pannelli fotovoltaici è stata calcolata in 438mq e in base ai miei millesimi mi spetterebbero a circa 31mq. Nessun condomino si è opposto all'installazione. Il problema nasce su dove viene installato. Un condomino in particolare pretende che la superficie più esposta e idonea per resa venga suddivisa per il numero dei condomini. Volevo precisare che abbiamo falde esposte a sud est e sud ovest, solo a est o solo a ovest e che quelle considerate idonee dal tecnico vanno da est a ovest. La mia domanda è: Devo fare fare la ripartizione del tetto in modo che tutti abbiano la stessa esposizione solare o posso occupare lo spazio di installazione (che rientra nei limiti dei miei millesimi) mettendolo dove meglio credo? Premetto che le superfici idonee garantiscono la superficie necessaria per l'installazione del fotovoltaico per tutti gli altri condomini”
Consulenza legale i 03/10/2022
Come si è detto più volte tra le pagine del sito e in altre consulenze rese prima di questa, l’art.1122 bis c.c. ha introdotto una particolare disciplina riguardante l’installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (come appunto i pannelli fotovoltaici o solari).
Tale norma, riconosce da un lato il diritto del singolo condomino di installare sulle parti comuni dell’edificio impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili destinati al servizio esclusivo della propria unità immobiliare, senza che tale diritto possa essere limitato o condizionato da una qualche sorta di autorizzazione assembleare, ma dall’altro lato, fermo restando il predetto diritto, l’assemblea può adottare determinate decisioni a tutela delle parti comuni.
In particolare sotto questo ultimo aspetto, l’assemblea può adottare con le maggioranze di cui al 5° co. dell’art. 1136 del c.c. particolari modalità di riparto delle parti comuni (es. il tetto dello stabile) per salvaguardare le forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto, ma anche per garantire il pari diritto degli altri proprietari di installare a loro volta il loro pannello fotovoltaico al servizio della propria abitazione.

In realtà il legislatore quando ha introdotto l’art.1122 bis del c.c. non si è inventato nulla di nuovo: egli non ha fatto altro che fare applicazione ad un caso specifico di tutti quei principi che la giurisprudenza ha dettato nel corso dei decenni attorno all’art.1102 del c.c., norma ampiamente applicata anche nel settore condominiale. È quindi a questa giurisprudenza che dobbiamo fare riferimento per rispondere al presente quesito.

Molto attinente al caso specifico è sicuramente Cass.Civ.,Sez.II n. 28025 del 21.12.2011: "…in considerazione della peculiarità del condominio degli edifici, caratterizzato dalla coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive, il godimento dei beni, degli impianti e dei servizi comuni è in funzione del diritto individuale sui singoli piani in cui è diviso il fabbricato: dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a ragioni di solidarietà, si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, dovendo verificarsi - necessariamente alla stregua delle norme che disciplinano la comunione - che l'uso del bene comune da parte di ciascuno sia compatibile con i diritti degli altri… Con riferimento al condominio la norma consente, infatti, la più intensa utilizzazione dei beni comuni in funzione del godimento della proprietà esclusiva, purché il condomino non alteri la destinazione del bene e non ne impedisca l'altrui pari uso. In altri termini, l'estensione del diritto di ciascun comunista trova il limite nella necessità di non sacrificare ma di consentire il potenziale pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti".

Applicando questi importanti insegnamenti della Cassazione al caso di specie possiamo dare alcune linee guida. Innanzitutto a parità di efficienza in rapporto alla propria abitazione è da preferirsi una installazione dei pannelli fotovoltaici che occupi il minor spazio possibile; in secondo luogo in merito al posizionamento, è sicuramente da preferirsi una installazione che garantisca potenzialmente la massima esposizione solare anche per eventuali futuri impianti che vorranno installare gli altri proprietari.
In altri termini, nell’installazione si deve tener presente anche l’interesse degli altri partecipanti al condominio ad installare in un prossimo futuro un impianto fotovoltaico che abbia la massima efficienza energetica possibile.

Si precisa inoltre, che nell’ambito dei suoi poteri previsti dall’art. 1122 bis del c.c., l’assemblea ben potrebbe deliberare con le maggioranze di cui al 5° co. dell’art.1136 del c.c. una ripartizione dell’area del tetto maggiormente esposta: verrebbero così assecondati i desideri di una parte dei proprietari.


Elisabetta P. chiede
venerdì 11/02/2022 - Lombardia
“Abito in condominio (vecchia corte con accesso da portone) senza amministratore. Nel 2016 abbiamo, dopo causa legale, diviso il cortile condominiale ricavando posti auto per ogni condomino. Uno dei condomini è una pizzeria posta a piano terra che ha a sua disposizione un posto auto. Purtroppo da qualche anno effettua il servizio di consegna a domicilio con pony pizza automuniti e che quindi usano la propria auto. Fino al 2019 abbiamo tollerato in quanto il pony pizza era solo uno.
Dal 2020 i pony pizza sono diventati 3/4 quindi tutte le sere (escluso la chiusura) dalle 18.30 alle 21.30 ogni 5 minuti vi è una vettura che entra si ferma qualche minuto e riparte (provocando inquinamento atmosferico e acustico).
Chiedevo se questo fosse consentito o se vi è qualche legge che impone dei limiti nell'uso del posto auto.”
Consulenza legale i 17/02/2022
Il comportamento descritto di per sé è perfettamente conforme alla normativa condominiale. L’esercizio commerciale ha infatti il pieno diritto di utilizzare il cortile comune, anche in maniera più intensa rispetto agli altri proprietari, purché ovviamente ciò non impedisca ai condomini di accedere al cortile e parcheggiare l’auto nello stallo loro assegnato.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione infatti con un insegnamento ormai granitico e consolidato ci dice che il diritto di utilizzare il bene comune riconosciuto a ciascun comproprietario dall’art.1102 del c.c., non implica che il singolo debba fare un uso della cosa qualitativamente identico a quello fatto dagli altri partecipanti alla comunione. È ben possibile infatti che un comproprietario possa fare del bene un uso più intenso, sempre che non ne venga alterata la destinazione economica e non venga impedito agli altri comproprietari a loro volta di utilizzarlo.

È difficile censurare il comportamento descritto anche sotto il diverso aspetto delle immissioni. L’art. 844 del c.c. ci dice che il proprietario di un fondo, non può impedire le esalazioni di fumo e calore o altre simili propagazioni provenienti dal fondo del vicino, se ciò non supera la normale tollerabilità, tenuto conto della situazione dei luoghi. La norma, inoltre, precisa che il giudice nel valutare la tollerabilità deve sempre contemperare le esigenze dell’industria con quella della proprietà. Il giudice può inoltre tenere conto della priorità di un determinato uso.

Al di là del problema di contemperare l’esigenza dell’industria (quindi dell’esercizio commerciale), con quelle della proprietà (quindi le abitazioni), bisogna prima soffermarci a chiederci se le immissioni possano di per sé andare oltre la soglia della normale tollerabilità.
Per chi propone il quesito sicuramente i rumori e i fumi provenienti dai gas di scarico dalle automobili dei pony pizza sono altamente intollerabili, ma la situazione descritta non è talmente grave da poter essere censurata in sede giudiziaria.

La Cass.Civ.,Sez.II, con la sentenza n. 28201 del 05.11.2018 ha precisato infatti che: "Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (cd. criterio comparativo), sicché la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata".

In altre parole, per poter considerare una immissione intollerabile ai sensi dell’art. 844 del c.c. il rumore o l’esalazione deve essere estremamente elevata e tale valutazione deve essere fatta tenendo conto anche della situazione dei luoghi in cui si svolge la vicenda. Il semplice via vai della auto del pony pizza (sicuramente fastidiosi), che magari avvengono nei pressi di una strada, ove si affaccia il palazzo condominiale, già trafficata di per sé, difficilmente potrebbe essere causa di immissioni intollerabili secondo il giudizio della giurisprudenza.

Si può comunque inviare una diffida per mezzo di un legale per indurre il proprietario dell’esercizio commerciale ad un maggior riguardo nei confronti dei vicini.


Angela M. L. chiede
domenica 28/02/2021 - Puglia
“Buonasera,
sono nuda proprietaria di un immobile al 100% e mio fratello è con me usufruttuario al 50%.
In seguito a delle verifiche, mi sono accorta che mio fratello ha effettuato la variazione catastale di alcuni subalterni e della relativa destinazione d'uso. Poteva farlo o avrebbe dovuto informarmi chiedendomi il consenso scritto? In tutto questo il tecnico ha le sue responsabilità?
Sempre in seguito alle sopra indicate verifiche, ho riscontrato un' ipoteca legale per un debito contratto da mio fratello. L'ipoteca è antecedente le variazioni catastali, quindi mi domando se fosse possibile effettuarle.
Preciso che:
- su un subalterno, mio fratello ha modificato la destinazione d'uso da uso ufficio ad uso commerciale e quindi il n° di subalterno senza il mio consenso;
- l'ipoteca legale è stata iscritta in seguito ad un pignoramento presso terzi sulla sua parte di usufrutto.
Nel momento in cui avviene il consolidamento, a cosa vado incontro se mio fratello non salda il debito e se sulla sua parte di usufrutto grava ancora l'ipoteca?
Ringrazio e saluto cordialmente”
Consulenza legale i 10/03/2021
Con riguardo alla prima questione sollevata nel quesito, va premesso che la variazione catastale, per quanto riguarda il rapporto con la P.A., può essere effettuata anche dall’usufruttuario.
La situazione, però, può essere ben diversa nei rapporti tra le parti. Da un punto di vista civilistico, infatti, occorre tenere conto, innanzitutto, della norma di cui all’art. 981 c.c., che impone all’usufruttuario di rispettare la destinazione economica della cosa (nel nostro caso, si è verificato un mutamento di destinazione d’uso da ufficio e commerciale).
In secondo luogo, poiché in questo caso abbiamo un usufrutto pro quota, occorre fare riferimento al disposto dell’art. 1102 c.c. Tale norma vieta al partecipante alla comunione di alterare la destinazione della cosa; inoltre egli non può impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Ora, per comprendere se l’eventuale mutamento di destinazione d’uso dell’immobile sia lesivo o meno dei diritti degli altri partecipanti, occorre verificare in concreto in che limiti esso abbia inciso sulle loro facoltà di godimento.
In particolare, la giurisprudenza (v. Cass. Civ., Sez. II, 19/01/2006, n. 972), ha chiarito che sono legittimi, “ai sensi dell'art. 1102 cod. civ., sia l'utilizzazione della cosa comune da parte del singolo condomino con modalità particolari e diverse rispetto alla sua normale destinazione purché nel rispetto delle concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri condomini, sia l'uso più intenso della cosa purché non sia alterato il rapporto di equilibrio tra tutti i comproprietari, dovendosi a tal fine avere riguardo all'uso potenziale in relazione ai diritti di ciascuno".
Quanto alla seconda domanda, va premesso che l’ipoteca, insieme al privilegio e al pegno, è una causa legittima di prelazione (art. 2741 c.c.), ovvero consente al creditore che ne è munito di essere preferito agli altri creditori nel soddisfacimento del proprio credito, che avviene tramite una procedura esecutiva, in deroga al principio generale della par condicio creditorum.
Nel quesito si parla di ipoteca legale; ora, i soggetti aventi titolo all’iscrizione di ipoteca legale sono quelli indicati dall’art. 2817 c.c., ovvero i seguenti:
  1. l'alienante sopra gli immobili alienati per l'adempimento degli obblighi che derivano dall'atto di alienazione;
  2. i coeredi, i soci e altri condividenti per il pagamento dei conguagli sopra gli immobili assegnati ai condividenti ai quali incombe tale obbligo;
  3. lo Stato sui beni dell'imputato e della persona civilmente responsabile, secondo le disposizioni del codice penale e del codice di procedura penale).
Non sappiamo quale delle tre ipotesi ricorra nel caso di specie; in ogni caso, ricordiamo anche il disposto dell’art. 2814 c.c., comma 1, secondo cui l’ipoteca costituita sull'usufrutto si estingue, di regola, col cessare di questo. La durata “naturale” dell’usufrutto coincide con la vita dell’usufruttuario o, se si tratta di persona giuridica, non può superare i trenta anni, ex art. 979 c.c. Le altre cause di estinzione sono quelle previste dall’art. 1014 c.c.
Tuttavia (tornando all’art. 2814 c.c.), se la cessazione si verifica per rinunzia o per abuso da parte dell'usufruttuario, ovvero per acquisto della nuda proprietà da parte del medesimo, l'ipoteca perdura fino a che non si verifichi l'evento che avrebbe altrimenti prodotto l'estinzione dell'usufrutto.
Ora, per rispondere alla preoccupazione che emerge dall’ultima domanda formulata nel quesito, nel caso in cui il cousufruttuario non saldi il proprio debito (assistito da ipoteca), il creditore ipotecario potrà assoggettare ad esecuzione forzata, con preferenza rispetto agli altri creditori non muniti di analogo titolo, solo ed esclusivamente la quota di usufrutto del debitore e non la proprietà del bene né la restante quota di usufrutto sullo stesso.


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